Siamo a Belleville, quartiere della periferia orientale di Parigi; anni 60. Mohammed, soprannominato Momò, è un ragazzino arabo di sei anni abbandonato dai suoi genitori e cresciuto da Madame Rose, una anziana mondana ebrea che adotta sotto compenso per il loro mantenimento i figli delle prostitute che per legge non possono tenerli. Vivono al sesto piano di una fatiscente palazzina, priva di ascensore. E questa per Momò è un’ingiustizia, perché con tutti quei chili addosso Madame Rose avrebbe meritato un ascensore. È una realtà difficile quella in cui vivono: papponi, drogati, transessuali, prostitute, ladruncoli di ogni tipo. Eppure, è proprio in quell’universo al limite della disumanità che prende corpo un amore solido, indissolubile, tra quel bambino abbandonato e la sua benefattrice.
Tratto dal romanzo di Romain Gary, scrittore lituano naturalizzato francese e morto suicida nel 1980, pubblicato in Francia nel 1975 e in Italia nel 2005 da Neri Pozza, lo spettacolo che Silvio Orlando porta in scena ne coglie tutta la potenza e la contemporaneità dei temi che il testo propone al lettore/spettatore. Innanzitutto, il tema, purtroppo sempre terribilmente attuale, del razzismo e della difficile integrazione tra culture, religioni, origini, tanto lontane e diverse; spesso, troppo spesso, in conflitto tra loro. La trasposizione teatrale scelta dall’attore napoletano è ben espressa dalla scelta di accompagnare il racconto di Momò con la musica dell’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre (Simone Campa: chitarra battente, percussioni - Gianni Denitto: clarinetto, sax – Maurizio Pala: fisarmonica – Kaw Sissoko: kora, djembe). La composizione dell’orchestra e le sonorità espresse rafforzano in maniera significativa il contesto multietnico in cui si svolge il racconto. Quegli intermezzi musicali che in vari momenti irrompono nel monologo ci trasportano quasi fisicamente in quella realtà degradata ma viva, dove ogni incontro/scontro tra le diversità produce sofferenza ma allo stesso tempo speranza di un riscatto, conflitto ma anche solidarietà per un dolore comune e condiviso. E poi, in secondo luogo, c’è il tema dell’abbandono. Ed è questo sul quale Silvio Orlando sembra voler più puntare: Momò è un bambino che non ha punti di riferimento, è stato, come tanti, abbandonato. Questo lo rende fragile, alla continua ricerca di un affetto negato, che proverà ad ottenere rubando un uovo al negozio sotto casa; e che otterrà da Madame Rose. Perché, nonostante l’inevitabile decadenza dell’anziana prostituta, quasi in punto di morte lei svelerà a Momò di avergli mentito sulla sua vera età, per il timore che glielo portassero via una volta maggiorenne.
Mi si è piantato nel cervello come un virus e non mi ha più lasciato! ha dichiarato Silvio Orlando a proposito della scelta di portare in scena questo testo. Ed in effetti, a vederlo sul palco interpretare il piccolo Momò, si capisce non solo quanto quella storia può averlo colpito come un comune lettore, ma quanto quella storia gli appartenga. In questo romanzo c’è il dolore di un bambino per la perdita della propria madre ed è lo stesso dolore che ho provato io quando ho perso la mia di madre. Avevo 9 anni, quasi la stessa età di Momò. Abbiamo molte cose in comune. Quel terremoto che ho vissuto da bambino, la ricerca della stabilità affettiva, ho ritrovato tutto. Quel dolore, quella perdita, quella mancanza di punti di riferimento, l’attore le porta in scena con la sincerità, la naturalezza, il pathos tangibile di chi quella storia non la sta recitando, ma la sta vivendo ogni volta che la rappresenta. Una storia drammatica, che viene comunque raccontata con la leggerezza e l’ironia necessarie a rendere più che piacevole quegli 80 minuti di monologo sapientemente ben dosati dal protagonista. Una storia necessaria, che sembra essere stata scritta oggi, nel nostro mondo in cui i flussi migratori e le difficoltà dell’integrazione dei nuovi poveri sembrano riportarci in quella Belleville di 60 anni fa. In questo senso, oltre che nell’interpretazione, il merito di Silvio Orlando si rafforza per aver portato in teatro un testo ed una storia importante. Una storia che pone molte domande senza risposta, ma che possono generare una speranza ed un invito tanto semplice quanto troppo spesso inascoltato: Bisogna voler bene!
Al Teatro Argentina di Roma fino al 06 gennaio 2022
Articolo del
03/01/2022 -
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