|
Questa non è un’intervista, ma un intervento (chirurgico). Il primario che lo esegue è Raffaele Cerroni, responsabile del reparto Mushroom’s Patience. Accanto a lui, o per meglio dire, dentro di lui, vive e assiste, all’operazione, Dither Craf. Immerso nella sua asettica dimora questo luminare ci apre le porte della sua sala operatoria privata, pochi giorni prima del suo nuovo intervento pubblico. Tutto ciò che non troverete una volta sezionato il corpo sarà visibile solo nel prossimo live, il 16 luglio a Roma. Il resto non esiste in questa realtà, ma viaggia in un paradiso parallelo, salvato da un artificio di plastica, e da un’Eva danzante ed inedita. Le domande che vedrete servono solo come interpunto spazio-temporale, per monitorare i suoi pensieri.
Iniziamo da un veloce excursus sulla band. Raffaele Cerroni. Ci siamo formati nell’85 da un’esperienza precedente che era Detesto, trasformata poi in Succhi Gastrici e infine in Lost Generation. Abbiamo cambiato i nomi per molti motivi, li sceglievamo a caso, come facevano gli adolescenti, guardando anche nel vocabolario. Per ‘Lost Generation’, ad esempio, alcuni giornalisti intellettuali ci chiedevano se per caso ci fossimo ispirati ad Hemingway, ma erano tutte cazzate. I ‘Succhi Gastrici’ era quello più significativo, volevamo qualcosa che portasse con sé un disagio che creava nausea e mal di stomaco. Con l’ultimo nome c’è stata la svolta. È stato preso da un libro giapponese che parla di un samurai che va nel bosco per trovare la propria ispirazione, traendo beneficio dalla solitudine e dalla riflessione. Li questo samurai incontra un fungo, molto paziente, che gli da dei consigli, da li ho rubato questa frase. C’è una storia farneticante dietro la nascita del nome, più da acido lisergico insomma. I personaggi che hanno orbitato nel gruppo stranamente ritornano. Il batterista di desso aveva militato nei ‘Succhi Gastrici’. Alcuni sono andati via, altri che ti rivedono non salutano più, nonostante ti abbiano salutato cinque minuti prima... Succede anche questo. Siamo ritornati ad una line-up abbastanza stabile, di gente creativa e tecnicamente capace. Roberto Fiorucci al basso, Stefano Buonamico alla chitarra, Io, e Roberto Sciacca alla batteria siamo i superstiti.
Chi è Dither Craf? RC - Dither Craf è un nome d’arte, è un essere umano che fa musica e dipinge. È nato in ospedale come tutti. In realtà nasce da un concerto bluff, ero uno studente liceale. Volevo suonare a tutti i costi in una scuola che mi aveva negato l’accesso perché precedentemente avevo suonato lì creando il vuoto, e la fuga della platea, grazie ad un’esperienza musicale inaudibile. Mi presentai di nuovo, fui cacciato, allora tramite un’amica mi spacciai per un musicista tedesco che passava per Roma, studente anche lui, coetaneo. Allora accettarono facendo anche una locandina, con il monile Diether Graf. Mi presentai e il bluff fallì miseramente ma salì lo stesso sul palco con un organo e suonai per un’ora, producendo sempre lo stesso suono estratto da un Korg Ms 20 e questo amplificatore di chitarra con cavo messo a massa. Mi innamorai di questo nome, lo modificai in Diether Craf, pensando che Craf era la crasi di Cerroni Raffaele. Successivamente il mio chitarrista trasformò Diether in Dither e cosi rimase sia nella musica che nella pittura.
Cos’è il pop atonale? RC - Ovviamente parliamo di musica atonale: è una composizione fra pop e la musica atonale, derivante da una caratteristica musicale fatta di dissonanze, una malformazione, una deformazione o se vuoi una Dither-formazione con il pop.
Mushroom’s Patience in una frase? RC - La pazienza del fungo.
Questa è la traduzione, ok ci hai provato. Ma ora dimmi di più. RC - (Sorride) Una domanda bella tosta eh.. riprendendo una vecchia intervista, che sta anche su Youtube, non ci definiamo, sono gli altri che ci definiscono e nessuna definizione sentita ci piace. Direi che non li voglio definire, non mi voglio auto classificare o incanalarmi in un genere musicale ben preciso. In una frase, i M.P. sono soavi, gaudenti. Siamo coma stupore e morte, questa cosa è nata da un bugiardino di un farmaco. Noi ci siamo messi a ridere per tre giorni dopo averla letta, ma eravamo seriamente convinti che la nostra musica portasse quegli effetti: prima al coma poi d’improvviso lo stupore e poi alla morte.
Parchè la necessita di accordare le tue acustiche di alcuni toni più bassi? RC - Le acustiche sono accordate cosi, in realtà per quelle elettriche di fatto questa cosa mi viene impedita. Roberto Battista è una persona pedante, in senso simpatico e ironico, un perfezionista, non vuole uscire da certi schemi delle chitarre elettriche, perché si entrerebbe in un ginepraio di accordature e scordature senza uscirne mai più, questo lo terrorizza. Io preferisco abbassarle di uno o due toni. Alcuni lo fanno perché richiede meno fatica suonare. Nella mia funzione solitaria mi permette di poter creare delle armonie trasversali. Se fai lo stesso giro di accordi con un’accordatura normale è tutto già sentito, trito, invece cosi si ottiene una dinamica diversa, particolare. Mi permette di essere più creativo.
Cosa è la raccolta dei migliori insuccessi, com’è nata e la pubblicherai? RC - È una compilation registrata…. no prima di dirlo è preferibile chiudere le finestre perché soffro di manie di per(se)quisizione).. in realtà non significa nulla, non la pubblicherò, ho fatto un cd-r che ho venduto, una cosa polemica, e autoironica, su alcuni pezzi che in Italia non andavano bene.
Come si sviluppa il processo di songwriting? RC - Si è mantenuto più o meno identico nel tempo, fino a che la nostra età, quella di oggi intendo, ci ha permesso di percorrere strade diverse, con idee proprie da sviluppare in autonomia. Prima veniva organizzato tutto su una traccia unica creata da me. Insomma un classico giro di chitarre, con un abbozzo dei testi. Di solito era un’idea registrata su un 4 tracce a cassette, poi veniva data un’indicazione precisa di tutte le linee melodiche. il resto del gruppo aveva un certo talento nell’arrangiamento e di quello si occupavano. Oggi ognuno di noi (io e il bassista in realtà) portiamo delle idee e il resto della band provvede agli arrangiamenti. Il tutto avviene sempre da casa, mai in studio. Amiamo un processo creativo molto vicino a quello di gente come Mik Karn e Peter Murphy che, lavorando comodamente da casa, ha fatto uno dei più bei dischi al mondo. Abbiamo quasi sempre lavorato cosi tranne per i primi due dischi. Il primo fu registrato in studio con sovra-incisioni, tecnico del suono e il direttore artistico.
Il secondo invece live. “Eve And The Plasitc Apple” risulta ostica ad un primo ascolto, in realtà ha un ritornello quasi pop, è una scelta o un processo inconscio? RC - Abbiamo sempre calcolato tutto, è forse la parte più disgustosa di noi. Alcune idee e la loro nascita ce le siamo rivelati dopo molti anni. In realtà ognuno ha lavorato in autonomia, ma con un calcolo preciso per far funzionare le cose. ”Eve” è nata da un riff introduttivo, ossessivo, che rimane per tutto il brano. Io ho “dettato” una linea vocale, ma la bravura della band è stata nel completare il resto, ognuno ha aggiunto quella cosa in cui è più bravo. Alcuni sono più quadrati e razionali, altri più folli e creativi. Ma rimane il fatto che senza di loro non si sarebbe potuta fare cosi come è. Dai singoli nasce l’insieme e dallo stesso insieme ognuno guida l’altro. Volevamo impedire che Eva distruggesse il paradiso terrestre cosi le abbiamo messo una mela di plastica. Appena accortasi dell’inganno ha iniziato a danzare e il paradiso terrestre non è più stato in pericolo.
La genesi dei quadri nasce dal ripetuto ascolto delle canzoni, come in Kompass, perché? RC - A volte il processo è anche inverso. L’idea è nata dall’obiettivo di fare concerti proiettando delle immagini su di noi. Non sempre sono riuscito a farlo per tutti i quadri. Per quanto riguarda ”Kompass” la cosa è andata proprio cosi come hai detto. Si voleva rappresentare una piccola giostra di periferia, “storta”, con quella musichetta stramba (imita una melodia), una via di mezzo fra Fellini e la Germania de “Il Cielo Sopra Berlino”.
Rispetto al passato, alla storia artistica della band, come immagini il vostro futuro? Proseguirete sempre su questa strada? Cosa volete cambiare o modificare? RC - Il (nostro) futuro è qualcosa in continuo mutamento, qualcosa che si arricchisce ogni giorno. La matrice del nostro sound rimarrà intatta, continuerete a riconoscere il suono. Escludendo il periodo elettronico, o momento industrial, che poi è stato gestito da me come one man band, la struttura è identica, ma ogni giorni si discute su come stravolgerla. Per il futuro vogliamo minimizzare.
Destrutturare intendi? RC - Si, togliere tutto ciò che era molto carico, scrostare i virtuosismi, trasformare tutto in un pop minimale.
Come è nata la collaborazione con la nuova etichetta per la ristampa dei dischi? RC - Non faremo più lp perché è un processo dispendioso. Spedire un lp ha un costo di nove euro, onestamente penso sia una gran cazzata oggi. Se tieni conto che magari lo sentono in venti, feticisti, non so quanti abbiamo davvero amato la nostra musica e quanti siano solo collezionisti. Il cd credo sia morto, non ci credo più, sono per il download democratico e gratuito, non credo nel mercato discografico. Il cd, rigorosamente autoprodotto in tiratura limitata, ad un prezzo super onesto, è un supporto da offrire per chi voglia usufruirne. Non ci si basa sui guadagni dei cd. Ci sono artisti famosi che fanno delle tirature di 5000 copie e non riescono a coprire neanche le spese.
Dei nuovi gruppi ascolti qualcosa che ti faccia venire in mente ciò che fa(ceva)te, c’è qualcuno che ti emozioni? RC - Ho ascoltato molte cose che ricordavano noi, soprattutto nel periodo in cui ci eravamo sciolti la prima volta, nel 94. In quegli anni sono successe delle cose nella band. Credo che abbiamo fatto, in Italia, quel qualcosa che gli altri stavano facendo in America, un pop-indie un po’ deviato. Fare dei nomi vi depisterebbe, ognuno dovrebbe poter trovare dentro le nostre opere ciò che sente realmente. Volendo citare qualcuno, che ci accomuna tutti, la scelta ricadrebbe sul progressive: King Crimson, Genesis. La scena canterburiana e il kraut rock, Gong, Soft Machine, Carvanan, Caravan, Can e molti altri. Posso passare attraverso altri trecento nomi, Residents, Joy Division, Tuxedomoon. In passato molti ci hanno associato a Frank Zappa o ai Crimson. Ci veniva da ridere perché non abbiamo mai pensato ossessivamente ad un gruppo nominato dalla critica. Ci sentivamo, paradossalmente, molto più vicini ai Church o agli Smiths piuttosto che ai Pink Floyd, nonostante avessimo fatto delle loro cover.
Perché i vostri testi riflettono il gusto per il nosense concettuale? RC - Come per il resto anche questa è una cosa calcolata. Da giovane ascoltavo i cantautori italiani e soffrivo come un cane, mi veniva la tristezza a sentire i loro pezzi cosi politicamente dichiarati. Capisco che l‘epoca richiedesse questo, andava di moda, ma il folk si, a mio avviso, si è macchiato di questa anomalia. Parlare di politica e diventare uno strumento nelle loro mani è una cosa che non ho mai digerito. Credo che l’unico strumento della musica sia la MUSICA. Gruppi tipo Ozric Tentacles, solo strumentali, fanno comunque una cosa straordinaria attraverso le note. Il testo è un’arma a doppio taglio, la gente ti ama e ti ascolta, quindi fornendo dei testi puoi manipolarli o condizionarli con il tuo pensiero. Ognuno deve essere libero di ragionare con la propria testa. Attraverso pezzi surreali, che non significano nulla o quasi, ci siamo liberati da questa potenziale trappola e allo stesso tempo ci abbiamo infilato dentro delle storie vere. I brani nascondono dei concetti che avremmo potuto esprimere palesemente. Rimanere surreali è fondamentali.
Cosa ti aspetti dal pubblico mentre sei on stage, che rapporto hai con loro? RC - Ho un rapporto di totale dipendenza dal pubblico. Sia che suoni per otto o trecento sono esaltato. Vedere persone che ci ascoltano, che ci guardano e magari possiamo piacergli mi fa impazzire. Il mio sogno è di fotografare ogni singola persona, avere un’immagine di ognuna di loro, per averne memoria. Lo so che può sembrare retorico, e stomachevole, ma detesto che quella star che mettono un filtro fra loro e il pubblico, perche si ritengono superiori agli astanti. Considero le persone come un ottimo metodo di controllo per cambiare le nostre cose che non piacciono sia dal vivo che in studio. Se chi viene a vederci ha scelto un’altra vita lo ha fatto perché è libero di non fare ciò che faccio io sul palco, ma questo non vuol dire che siano inferiori. Sono come noi e se volessero potrebbero fare esattamente ciò che noi facciamo. Quindi il pubblico ci migliora, è un’ottima cartina al tornasole. Avendo fatto dei live mirati, senza lunghi tour a causa della nostra poca popolarità (sorride), devo dire che se la risposta del pubblico è negativa ci soffro molto, la vivo davvero male. Sarebbe stupido dire che ne non me ne frega niente. Ho fatto anche delle scelte in cui decidevo di non piacere, come successe con i Cardiacs, negli anni ’90, in cui sapevamo che ci sarebbe stata un’affluenza intorno alle mille persone. Abbiamo creato una formula di rottura, un esperimento artistico per spaccare in due il pubblico. Che poi è il nostro stile, dividere la gente in quelli che ti amano o ti odiano. Ma se suoni di fronte a cinquanta persone devi stare attento a non farlo per ovvi motivi. Il mio modo di lavorare è artigianale, non è marketing. Il contatto diretto con poche persone è indicativo della nostra performance.
Allargando l’orizzonte sui libri e film, se i Mushroom’s Patience fossero questi due mezzi di comunicazione appena citati quali sarebbero?
RC - “Il Gabinetto del Dottor Caligari”, Mushroom’s Patience è un film in bianco e nero. Lynch, con il suo “Eraserhead”, è stato un altro pilastro fondamentale. Era molto difficile trovare i film all’epoca, oggi è tutto più facile in rete. La passione del cinema muto ci ha permesso di generare delle cose interessanti. Nella letteratura, posso citare “La Dimensione Di Morel”, anche il film di Emidio Greco è stupendo.
Al di fuori del’Italia avete avuto un seguito più vasto, più duraturo rispetto all’Italia, ti sei fatto un’idea del perché? RC - L’Italia non è un posto adatto alla nostra musica. Non è inferiore o un posto di merda, a me non piace l’Italia. Per la nostra musica l’ideale sarebbe l’America, l’Austria o la Germania. Amiamo un crossover fatto di stili anche incompatibili fra loro. Se mi alzo arrapatissimo con Frank Zappa mi invento qualcosa che possa ricordarlo, poi lo dico al resto delle band e ci si lavora su. Sarebbe stupido dire che non ci ispiriamo a nessuno. Mi ispiro anche a gente attraverso il Myspace che magari ha solo cinque accessi, ma se li ritengo buoni mi ci fisso. In Italia si è molto legati a regole di tipo sinfonico. Puccini ha segnato la strada. Quindi la musica d’autore è un mondo in cui non mi ritrovo, attinge dalla musica popolare ottocentesca. A volte, in fase di ispirazione, abbiamo pensato ai Goblin. Avevano uno spessore internazionale. Gli Area, per esempio, sono la scuola, di pensiero anche. Vorrei avere un grammo di ciò che avevano loro, sono fra i pochi gruppi che ho amato. Nel nostro paese i musicisti o i gruppi ragionano in termini di tempo: o si sfonda o si torna a fare il commercialista o altro. Questo modo di pensare mi manda fuori di testa. La musica ha qualcosa di spirituale dentro. Se lo trascuri sei un coglione. Se la musica è moda, e divertimento, prima di tutto è qualcosa legata al nostro essere tribali, mesozoici e pre-mesozoici. Proviene dalla terra, se la usi come uno strumento di arrivo, come una scala sociale e di conquista, non hai capito un cazzo. La musica deve essere una guida spirituale. Non me ne frega un cazzo di non aver avuto successo, suono le mie belle chitarre e sono felice. Quando mi chiedevano che lavoro facessi non ho mai detto di fare il pubblicitario, ma il musicista. All’estero le persone se non riescono a guadagnare con la musica vanno a lavorare, ma al ritorno a casa c’è la musica. Anche se hanno figli e moglie magari ci collaborano. Organizzano feste dove si suona, la musica è il principale motore di comunicazione con gli altri. In Italia è tutto una vetrina, dalla passeggiatina ebete all’Ikea al centro commerciale. Questa cosa mi fa innervosire. Sono molto dispiaciuto di non aver fatto, a casa mia, quello che ho fatto all’estero, ma va bene cosi ormai.
Quanto pensi che ti abbiano aiutato o danneggiato i critici e cosa ne pensi? RC - Non ho un rapporto negativo. Senza di loro non ci potrebbe essere il successo di un musicista. Anche quella è un’arte. Se uno ha scelto di fare musica e l’altro di parlarne non sono mondi cosi diversi poi. La critica supporta la nostra arte, c’è il buon musicista e il buon critico e viceversa, non sono un demonizzatore. Molti critici non sono preparati, ma anche nelle arti figurative succede la stessa cosa. L’arte di un critico è di inventare cose che non esistono, spesso vengono imposte sul mercato. Pensa a cosa è riuscito a creare Andy Warhol.
Come vedi questa ripartenza? RC - Come una continuazione di ciò che facevamo, in realtà non abbiamo mai smesso. Abbiamo sciolto il gruppo nel ‘99 per gioco, sapevamo che dopo due mesi l’avremmo rimessa insieme. Ci vogliamo bene e finché sarà cosi suoneremo insieme. Non mi interessa suonare con altri, né lo vorrei fare. Abbiamo un modo diverso di vedere le cose, un modo artigianale. Alcuni suonano per tre motivi: la popolarità, i soldi e scoparsi tutte le ragazze. Quando vedo un cantante fare canzoni politiche penso che sia un politico che usa la musica come mezzo. Lo ritengo un viscido, come lo è un politico. Un artigiano nasce cosciente d’esserlo. La musica non ha un cazzo a che fare con la figa. Non vado suonare per la figa, me la cerco da un’altra parte. Quando finisco di suonare vado a dormire perché ho proprio sonno. La musica è impulsiva, ossessiva come un tarlo nelle mente, sempre presente. Pensi a come costruire uno strumento, a modificarlo, proprio come un artigiano pensa continuamente alle sue opere. È ovvio che ho avuto delle delusioni, che ho rosicato. Tutto questo però non mi ha fatto sbandare, da piccolo ti accorgi di essere un artigiano, Alcuni se ne accorgono, anche tardi, ma alla fine non ce la fanno lo stesso. Sebbene abbiano la tecnica non hanno una missione, ma la stagionalità della musica, un tempo definito entro il quale sfondare. Tutto ciò si sente dentro, questo è quello che intendo senza volerlo caricare di significati simbolici. È come una voce, una fiamma che hai dentro. Basta pensare a gente come John Martyn o Robert Wyapp. Nonostante quei gravi handicap hanno prodotto della musica di un livello supremo. Avendo anche fatto l’insegnate per paraplegici ho conosciuto un ragazzo sulla sedia a rotelle, continuava a dirmi che ora nulla lo avrebbe più potuto distrarre, né la figa, né guidare o giocare a calcio. Tutto il suo tempo era per la musica. Lo so che era ironia, un modo per esorcizzare il dolore, ma pensa la forza insita dentro la musica. Concediamo anche una chance a quelli che pensano al tempo. Mi piace dire che io non lavoro per la quotidianità, ma per l’eternità. Spero di essere ricordato dai marziani, anche da uno solo, fra tremila anni, a differenza di certi imbecilli vuoti che hanno avuto una breve finestra temporale di fama. Voglio ringraziare tutta la band che mi ha permesso di poter fare ciò che amo. Devo loro molto, senza questo supporto non ci sarebbe stata la giusta alchimia. È gente di talento che non mi ha costretto a cercare altri. C’è stato un momento di dolore, tutto quando ho visto che la band stava sbandando, ma adesso, con questo tipo di intensità che c’è fra noi, tutto andrà per il meglio. Sono dei fratelli e li ammiro tutti, non viene mai detto, di solito si parla sempre del cantante. Un gruppo esiste solo se è la somma delle parti. Noi siamo, e abbiamo, il 33 periodico. Grazie a tutti.
Articolo del
09/07/2010 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|