Parlare con Massimo Fiorio detto Max, il basso – musicalmente parlando – dei Canadians è un po’ come rincontrare un amico delle elementari che non vedi da anni: hai tante domande da fargli, ma alla fine quando te ne vai pensi di non averne fatte abbastanza. Allargando la questione, ciarliamo un po’ di tutto: dalle esperienze personali a quelle con la band, il secondo disco “The Fall of 1960” e progetti futuri. Il tutto condito da una trasparente ironia che avvolge quel senso di amicizia interno alla band palpabile sia nell’ intervista che nel live a Roma della scorsa settimana. Ne viene fuori che i Canadians sono una band, certo, ma rimangono un gruppo di compagni che adorano quello che fanno in modo semplice. Ecco di seguito l’ intervista a fiume. Ciao Max, come va? Possiamo dire che il tour ormai è ufficialmente partito: immagino che dopo un anno di lavoro in studio non vedete l’ora di testarlo dal vivo.
Tutto bene direi, a parte i soliti sbattimenti: lavoro, incastrare prove e concerti in orari e giorni che vadano bene a tutti e cinque, cercare un furgone per girare, etc etc. Comunque qualche data di prova l’abbiamo già fatta tra aprile e luglio, giusto per preparare bene la scaletta da proporre nel tour autunnale.
Speranze?
La speranza è sempre quella: girare il più possibile con questo nuovo disco, rivedere i nostri amici sparsi per tutta la penisola, diventare miliardari e smettere di lavorare.
Il magazine Rolling Stone ha definito “The Fall of 1960” come ; hanno fatto centro? Era proprio dove volevate arrivare?
Hanno sicuramente fatto centro, pur non essendoci dati noi questo obiettivo all’inizio del lavoro. Avevamo una quindicina di canzoni, alcune vecchie, altre (quasi tutte) nuovissime. Non abbiamo mai pensato “facciamo la tal cosa” o “dovrebbe suonare esattamente come un disco dei ......”. Semplicemente siamo usciti dalla sala prove con queste canzoni, frutto del lavoro di più di un anno. Le canzoni più vecchie sono state poi segate in fase di pre-produzione, arrivando in studio con una decina di brani abbastanza eterogenei (dalla canzonetta pop semplice semplice fino alla suite strumentale da 25 minuti). Purtroppo la suite da 25 minuti l’abbiamo lasciata fuori dalla tracklist finale. Probabilmente finirà nel prossimo disco.
La domanda da un milione di dollari: il motivo dei testi in inglese. Influenze musicali o possibilità di avere maggiore visibilità?
Influenze musicali. La maggior visibilità (in Italia) l’avremmo cantando in italiano, ma non abbiamo mai provato e dubito succederà a breve.
La scelta di mettere l’ intero “The Fall of 1960” in streaming in giro per internet? Scelta vostra? A mio avviso è la nuova frontiera del binomio musica-internet, per te invece?
Idea mia, appoggiata pienamente dall’etichetta e dal resto della band. E’ stato il tentativo (riuscitissimo, numeri alla mano) di uscire dal tipico vincolo del “diamo l’esclusiva al tal sito”. Mettere il proprio disco su 50 siti piuttosto che su uno solo si traduce in maggiore visibilità (ovviamente tali siti devono avere un certo seguito, altrimenti è tutto inutile), e in tutto questo l’appoggio di alcune webzine/magazine (Rolling Stone, Vitaminic, Italian Embassy) e blog musicali molto noti (Inkiostro, Polaroid) è stato fondamentale. Non so dirti se questa sia la nuova frontiera, ma vedere che dopo un paio di mesi anche altre band ed etichette hanno usato un sistema identico per promuovere i loro lavori mi ha fatto capire che qualcosa di buono nella mia idea c’era.
Ci racconti un po’ la gestazione del disco? Magari pure qualche “dietro le quinte”…
La gestazione è stata abbastanza lunga. Siamo stati più di un anno lontani dal palco per dedicarci alla scrittura dei nuovi pezzi. La maggior parte dei brani è nata in sala prove, con il classico giro d’accordi che si sviluppa in una determinata direzione, poi “qui ci starebbe bene un ritornello alla Weezer” e “mettiamo un assolo di merda qui o aspettiamo la coda strumentale?”. Altri brani sono stati scritti da Duccio e poi sviluppati e rimodellati tutti assieme. Per la prima volta poi abbiamo inserito una canzone scritta interamente da Vittorio (“Yes Man”) e una scritta dal sottoscritto e da Vittorio (“The Richest Dumbass In The World”), e sono effettivamente le due canzoni che più si staccano dalla classica canzone Canadians, forse perchè sono le uniche suonate con accordi normali e non con quelle cose impossibili chiamate comunque “accordi” che solo Duccio riesce a suonare. Una volta preparati tutti i provini (praticamente avevamo l’intero disco, già con tutte le tracce decise e gli arrangiamenti quasi ultimati) ci siamo chiusi nello studio SottoIlMare a Povegliano Veronese (studio meraviglioso) assieme a Matteo Cantaluppi e Luca Tacconi e nel giro di nove giorni abbiamo registrato batteria, basso e chitarre. Poi ci siamo spostati a Milano, prima al Jungle Sound (per le voci e le tastiere) e poi al Mono Studio (per il mix). Pur con un ritardo mostruoso (il disco doveva uscire a gennaio, ma siamo stati costretti a posticiparlo ad aprile), siamo riusciti a consegnare il master a Ghost Records, che per la seconda volta ha deciso di darci piena fiducia, finanziando la nostra voglia di fare musica in maniera semiseria!
Cosa ha significato l’ esperienza del SXSW per un gruppo con una forte influenza dalla scena indie californiana? E soprattutto come è andata?
Ha significato molti chili in più (non potevamo non provare i migliori hamburger del mondo e lo spezzatino di alligatore) e tanto divertimento. Era il nostro primo impatto con il mondo statunitense ed è stato sicuramente positivo. In termini pratici siamo riusciti a recuperare una distribuzione importante per il disco negli USA (sempre grazie al lavoro di mediazione di Ghost Records), se poi parliamo strettamente del concerto ci teniamo a ricordare che abbiamo suonato con gli Hanson e questi stronzi non si sono neanche degnati di suonare “Mmmbop”. Momenti migliori del concerto: le ragazzine in prima fila che, ad ogni parte leggermente soft delle canzoni si lanciavano in urla che c’hanno fatto parecchio arrossire. Ci siamo consolati con l’ennesimo hamburger.
Lo scalino del secondo disco è sempre arduo per un gruppo, io lo considero una sorta di “Legge di Darwin” che permette di fare una selezione naturale tra le band-fuochi di paglia e chi invece andrà avanti. C’ è stato un momento in cui avete sentito troppa pressione? Come l’ avete superato?
Per noi è impossibile sentire troppa pressione. Siamo esterni al mondo discografico indipendente italiano noto ai più. Ci piace semplicemente farci i cazzi nostri, e infatti non vantiamo mai alcuna collaborazione importante e della quale vantarci nei comunicati stampa. Ci limitiamo a fare i nostri concerti, registrare i nostri dischi senza dare la minima importanza a quello che ci succede attorno. Sembriamo decisamente stronzi, ma siamo solo molto pigri e timidi. Probabilmente potremmo continuare tranquillamente a suonare anche senza dover per forza fare un video, un tour, e tutto quello che consegue l’uscita di un nuovo album.
Il lavoro di band ha cambiato qualcosa nei vostri rapporti di amicizia?
Certamente. Ci odiamo più di prima.
Nonostante la cover e la tracklist, in generale “A Sky With No Stars” nella sua interezza l’ ho da subito considerato meno estivo di quello che poteva apparire a prima vista; e “The Fall of 1960” spazia tra la malinconia di alcuni brani e l’ energia di altri. Che aggettivo useresti per la vostra musica? E come la definiresti?
Pop tristone con il big muff. Perchè a noi piace il big muff. Il nuovo disco è sicuramente più cupo del precedente se preso nel suo insieme, ma se analizziamo i singoli episodi ci accorgiamo che in realtà qui ci sono 4 o 5 canzoni che contengono più allegria e spensieratezza (in apparenza, perchè poi parlano di morte, cuori infranti, visoni scuoiati, inquinamento, ragazzi emo col ciuffo sporco di sangue) di tutta la nostra precedente produzione. Siamo esperti nel nascondere bene i nostri veri intenti.
Il concetto di natura emerge nella maggior parte dei testi, personalmente “Carved in the Bark” è uno dei pezzi più interessanti in questo senso.
Duccio ha la fissa della natura. Ha anche fatto un anno di servizio civile volontario alla Lipu, se non ricordo male. Noi, per compensare, gettiamo sempre le carte del Kinder Bueno dal finestrino del furgone.
Tra gli artisti emergenti c’ è qualcuno che vi ha colpito?
In Italia da anni professiamo la bontà dei Fake P, e non solo perchè ci suona il nostro tastierista. Sono clamorosi, dovreste approfondire tutti l’argomento. Altri nomi? Beh, gli Home e gli Annie Hall sono sicuramente ai primissimi posti di gradimento.
Almeno una domanda personale te le devo fare: il blog Dietnam, i libri su Chuck Norris, Brinda con Papi e molto altro ancora; aldilà della musica sembri molto attivo, e peraltro anche con un buon seguito.
Sono molto attivo sulle stronzate. Stronzate divertenti, per fortuna. Se una cosa riesce a farmi ridere posso dedicarci anche intere giornate, per poi abbandonarla a se stessa quando trovo qualcosa di più interessante da fare. La costanza non è il mio forte. Preferisco fare mille cose discretamente piuttosto che una perfettamente.
Ultima domanda da un milione di dollari: come vi vedete nel futuro?
Al matrimonio del nostro batterista, tra qualche mese. Non riusciamo a vedere oltre.
Articolo del
09/10/2010 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|