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I Kiddycar, da Arezzo, è una band di indie rock la cui line up comprende Valentina Cidda alla voce ed alle tastiere, Stefano Santoni alle chitarre ed alla voce e Simon Chiappelli al trombone ed alle chitarre. Durante le esibizioni live, la formazione base si arricchisce del contributo di Franco Pratesi al violino, tastiere e laptop, Francesco Rubechini al basso ed, infine, di Alessandro Baris alla batteria. La loro è una proposta musicale colta e sognante ricca di atmosfere sospese tra la malinconia di Nick Drake, la sensualità di Serge Gainsbourg e le ipnosi elettroniche figlie della migliore tradizione teutonica degli anni settanta. Due dischi all’attivo (Forget About del 2007 e Sunlit Silencedel 2009). Tantissimi riconoscimenti di stima, in Italia come all’estero, tanto che i Kiddycar sono stati presentati dalla BBC inglese come una delle band più interessanti di quest’ultimo periodo. Extra ha intervistato, per l’occasione, Valentina Cidda, cantante del gruppo.
Innanzi tutto, come e quando sono nati i Kiddycar?
Beh diciamo che i Kiddycar sono nati nel 2005 anche se il seme del progetto risale agli anni ’90 da un trio composto da Stefano Santoni, Paolo Ferri e Roberto Bianchi, all’epoca “Kriminal Bit”. Il progetto fu, poi, abbandonato per vari motivi principalmente quello della mancanza di una voce che riuscisse a interpretarne l’idea. Nel 2005, dopo l’incontro con me, si aprì una nuova finestra su un sogno messo da parte per troppo tempo: durante una tranquilla serata tra amici mi fecero ascoltare alcuni brani, come Human Logic, The Dawn And The Fly, Nothing Serious (contenuti, in seguito, nel nostro primo disco intitolato Forget About). Me ne innamorai immediatamente. Scrissi testi e melodie e dissi: “Proviamo!”.
Qual è il tuo background musicale?
Vengo dal mondo della musica classica, ho studiato pianoforte in conservatorio fino all’ottavo anno e canto lirico. Che dire? Tutte le strutture che gli anni di studio avevano radicato in me mi sono state utilissime per imparare la lotta contro le strutture stesse. Ci ho messo un bel po’ a distruggerle e ad essere libera ma, alla fine, è stata proprio una bella avventura! Il rischio di ogni percorso accademico è che ti inchiodi in qualche misura il cuore, lo spirito, il cervello, in direzioni obbligate che sono incompatibili con l’arte. La creatività non si insegna ed ogni tecnica è utile solamente se sei tu a dominarla non, invece, se è lei a dominare te.
Come nasce una tua canzone e, a livello di band, quale metodo di lavoro preferite adottare generalmente?
In queste cose non esiste uno schema fisso in quanto non c’è mai una regola intorno ad una nascita, ne nella vita ne, tanto meno, nell’arte. Nella maggior parte dei casi i brani nascono da Stefano e da me in principio ma, talvolta, anche da un giro di basso o di chitarra e da uno spunto in sala prove. Successivamente ognuno di noi intesse frammenti sonori secondo la propria percezione e lo studio di registrazione diviene una sorta di laboratorio di curiosi, affaccendati, tormentati alchimisti che, in fin dei conti, altro non fanno che giocare come bambini. Su tutto il lavoro creativo, poi, c’è sempre l’orecchio vigile e attento di Stefano Santoni, produttore artistico del progetto. Per quanto mi riguarda, personalmente poi ci sono i testi, che possono nascere contestualmente o meno alla melodia di un brano. Spesso sono avvolti da una malinconia amara e sottile. Parlano dei conflitti dell’animo durante il cammino dell’esistenza, eternamente sospesa tra la ricchezza di una gioia e la miseria di un disincanto. Ed è come se i nostri momenti felici venissero sempre in sostituzione di una gioia incomparabilmente più grande destinata a rimanere, ogni volta, fuori portata.
Sono passati tre anni dal vostro primo disco Forget About. Cosa è cambiato in questo periodo?
Siamo cresciuti, sia professionalmente che umanamente. Di cose ne sono accadute tante: siamo più “seri”, organizzati e più uniti e questo è anche dovuto al fatto che siamo seguiti e guidati da un grande manager (Alessandro Favilli). Quando un gruppo ha solide basi, anche la fatica, i problemi ed i conflitti possono rafforzare un legame, spesso anche più delle conquiste. Siamo soddisfatti del nostro lavoro ma, per fortuna, mai abbastanza. La regola d’oro è non assuefarsi mai a se stessi.
Nel 2009 con il disco Sunlit Silence siete passati alla casa discografica Rai Trade. Com’è andata?
La Rai ci ha sempre sostenuto, fin dal primo momento. Fabio Cioffi, persona meravigliosa oltre che grande professionista, che all’epoca era il responsabile musicale di Radio 1, mise in playlist il nostro primo singolo subito dopo l’uscita di Forget About. Fummo, quindi, ospiti a Village e protagonisti, con un nostro concerto, di una delle serate dedicate alla musica dal vivo di Radio1. Personalmente poi ho cominciato a lavorare in radio, a Radio 1 prima e a Radio 2 poi, come autrice e conduttrice. La Rai mi ha dato molto e le sono grata. Quando Sunlit Silence arrivò, ancora grazie a Fabio Cioffi, nelle mani di Pietro Ferri di Rai Trade lui se ne innamorò e, di li a poco, firmammo il contratto.
La vostra musica ha un fortissimo legame con l’indie rock d’oltremanica unito a suggestioni retrò della Parigi anni Sessanta. Non a caso i vostri testi sono principalmente scritti in lingua inglese. Avete avuto moltissimi attestati di stima da parte della stampa specializzata e perfino la BBC Inglese ha parlato di voi come una delle nuove realtà europee più interessanti di quest’ultimo periodo. C’è già in mente una strategia della vostra casa discografica per proiettarvi in una dimensione internazionale? Se sì, quanto è difficile per una band italiana ritagliarsi uno spazio anche fuori dai confini nazionali?
I Kiddycar sono nati e crescono tentando di rivolgersi costantemente verso un panorama internazionale. D’altra parte, tra tutti i nostri gruppi di culto, di connazionale c’è ben poco. Forget About è stato distribuito in Giappone dalla Xtal Records di Tokyo ed in svizzera dalla Phoenix Records. Sunlit Silence sta per prendere il volo in Germania e Benelux, distribuito dalla storica label Rough Trade.
Difficile ritagliarsi uno spazio fuori dai confini nazionali?
Il problema è che spesso i musicisti italiani si muovono in base a due schemi: il primo è quello di importare un certo modello internazionale e confezionarlo in italiano, il secondo è quello di ostinarsi nel tentativo di esportare un discorso musicale, cantautorale, prettamente italiano, senza la minima preoccupazione di utilizzare un linguaggio universalmente comprensibile. Entrambe queste vie non possono portare lontano e si risolvono, nel primo caso, in una copia sbiadita dell’originale e, nel secondo, in un prodotto eccessivamente di nicchia. Inoltre, penso che noi italiani dovremmo smettere, a seconda dei casi, di lamentarci delle difficoltà e di incensarci a vicenda per farci coraggio. Ogni volta che si scrive un nuovo brano occorre giudicarlo in modo distaccato ed autocritico per cercare di capire se questo possa reggere un confronto a livello internazionale.
Quante opportunità per gli artisti e gruppi alternativi vedi derivare dalla rete (come, ad esempio, MySpace)?
Sono una fervida sostenitrice della tecnologia in tutti i settori così come della liberalizzazione del sapere e dell’informazione. Realtà come MySpace, possono essere veicoli di straordinaria crescita e di diffusione di progetti e di idee all’interno della rete. Comunque, alla fine, è sempre la qualità che paga, che fa “accadere cose”, “giungere opportunità” e non certo i 50.000 friends... Per noi Internet è stato, e continua a essere, un mezzo miracoloso! Basterebbe il fatto che la mail di Graham Pavey, (dirigente della catena di etichette indipendenti, facenti capo ad una major nipponica di cui fa parte anche la Xtal, etichetta che ha prodotto e stampato il nostro primo album in Giappone) l’abbiamo trovata, un giorno qualsiasi, tra i messaggi dell’inbox di MySpace!!!
Come vivi la dimensione live?
La dimensione live è la mia dimensione. Sono una bestia da palco! Oltre all’esperienza con i Kiddycar, sono regista ed attrice teatrale ed ho fondato, nel 2004, la compagnia teatrale Dulcamara. Forse potrei dire che è solo sul palco che vivo davvero.
Quali voci femminili ti hanno maggiormente emozionata?
Sicuramente, in primis, la voce della sacerdotessa delle tenebre, profonda e inquietante, con le sue atmosfere sepolcrali sospese nel tempo: parlo di Nico naturalmente. Poi Janis Joplin, Siouxsie, alcune voci del post-punk come le Raincoats. A questa lista inserirei anche Beth Gibbons, le voci francesi che soffiano nella mia anima e Soap & Skin per citare una voce contemporanea.
C’è qualche artista contemporaneo che ti è piaciuto particolarmente fra i tuoi ultimi ascolti?
Sufjan Stevens è stato per me una vera e propria folgorazione Ha creato il sound degli anni Duemila. Ci sono varie cose uscite dalla fabbrica magica della sua Asthmatic Kitty, come DM Stith, che mi hanno davvero rapito anima e mente. Ho adorato il primo disco di Joanna Newsom ed, infine, mi è piaciuto molto Heartland di Owen Pallett, disco assolutamente folle.
Cinque dischi da portare in un’isola deserta?
Premetto che la nostra idea di isola deserta non è certo quella più convenzionale con palme, spiagge bianche e sole a picco, semmai più un “isola che non c’è”, o un atollo partorito dalla mente di Jules Verne, circondato da mostri marini e mari in tempesta; cieli plumbei e selve oscure. Detto questo...beh... cinque dischi sono ben pochi per sopravvivere in un posto del genere…ma tentiamo: l’opera per liuto di Bach, Chelsea Girl di Nico, Tago Mago dei Can, Radioactivity dei Kraftwerk e, per rendere onore a quest’ultimo decennio, al quale resta ormai poco più di un mese di vita, Illinoise di Sufjan Stevens.
Hai un consiglio da dare a tutti quei giovani che vorrebbero intraprendere il tuo percorso musicale?
Nervi saldi, cuore aperto, consapevolezza, grande autocritica, umiltà, umiltà, umiltà e allenamento a sopportare la fame per periodi anche piuttosto lunghi...
Hai già delle idee per il nuovo disco?
Ovviamente, essendo il prossimo il terzo disco ufficiale (se escludiamo lo split con Christian Rainer) sentiamo un forte desiderio di innovazione e di forte rottura con tutto quanto abbiamo fatto fino ad oggi. Ascoltiamo o, per meglio dire, fagocitiamo decine di dischi a settimana, vecchi e nuovissimi, e le contaminazioni sono molte. Il difficile, però, è sempre riuscire a trovare un orientamento forte, il più possibile personale e allo stesso tempo coerente con ciò che i Kiddycar sono stati fino ad ora. Tu che dici...ce la faremo…?
Articolo del
24/11/2010 -
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