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Questo disco ha il sapore dell'avventura, delle storie mitiche del passato, della libertà. ”San La Muerte “ vede la luce quasi per caso, complice una serata tra amici in un bar al confine tra Messico e California. Gli amici in questione sono il cantautore Leo Pari e il chitarrista Renzo Fiaschetti. La mattina dopo i due si svegliano in una stanza di motel a Los Angeles e, quasi come se la notte prima qualcosa di magico li avesse ispirati, decidono di dare vita al progetto, che battezzano con il nome di quel santo che in America Latina protegge chi conduce una vita pericolosa o chi ha subito torti e ingiustizie. La buona e vecchia scuola rock 'n' roll anche stavolta ci ha messo lo zampino. L'album omonimo dei San La Muerte”, registrato tra L.A. e Roma quasi tutto in presa diretta, è infatti di chiaro stampo rock-blues: riff accattivanti, virtuosi assolo e testi diretti la fanno come sempre da padrone. Abbiamo fatto una chiacchierata col “Santo” per approfondirne la conoscenza.
Ciao San La Muerte, benvenuti su Extra! Iniziamo subito con le domande. (risponde Leo Pari) Dietro al nome di una band c'è sempre (o quasi) un significato. Voi perchè avete scelto San La Muerte?
Il nome della band l'abbiamo pensato io e Renzo (Del Boia, il chitarrista) durante un viaggio in California e Arizona nell'autunno del 2007. Era già più di un mese che giravamo per strade polverose e passavamo notti insonni in Motel di quarta scelta, il notiziario mandava immagini di uno degli incendi più disastrosi degli ultimi 50 anni che stava divorando le placide colline di Malibu... Lo scenario suggeriva immagini apocalittiche, mentre i brani che sono poi finiti nell'album uscivano dalle chitarre uno dopo l'altro; ci è sembrato giusto omaggiare un santo controverso e messicano come San la Muerte.
A cosa è dovuta la decisione di registrare l'album in presa diretta?
E' stato il modo più rapido e sincero per riportare su disco l'energia che abbiamo nei concerti... in fondo i dischi si sono registrati per decenni in questo modo, il fatto di creare artifici da studio e la registrazione "traccia per traccia" sono dei vizi nati negli anni 80 che non credo abbiano fatto troppo bene all'anima della musica.
Mi fa sempre strano ascoltare pezzi rock-blues cantati in italiano. Come mai non in inglese? Forse per una maggiore capacità di esprimersi nella propria lingua o magari per un vero e proprio desiderio di non allontanarsi del tutto dalle proprie radici?
Ma certo, io ho sempre scritto in italiano ed è solo così che riesco ad avere i mezzi per giocare con le parole come dico io, ho tutte le sfumature a disposizione nella tavolozza... e poi a me non fa molto strano sentire un cantato in italiano su sonorità sì americaneggianti, ma che hanno anche molto da spartire con la nostra tradizione prog e cantautorale di un certo tipo.
Il rock come anche il blues sono generi che nascono da un desiderio di ribellione, di libertà, di emancipazione. Voi cosa volete comunicare con la vostra musica?
Ci vogliamo soltanto divertire a suonarla, libertà ed emancipazione di certo non ci mancano.
Mi rivolgo direttamente a Renzo Fiaschetti per chiedergli una curiosità che farà sicuramente piacere agli appassionati. Parlaci del tuo “gear”, che chitarre hai usato sull'album?
Ti rispondo come so che risponderebbe Renzo: non conta la chitarra, non conta l'ampli, tanto meno i pedali, che lui non usa... il suono sta nelle mani.
Se vi proponessero una collaborazione con uno dei vostri eroi musicali, chi sarebbe?
Che domande... Keith, Neil, Bob, Skip, Lucio, John Lee, Robert, continuo?
Qual'è il disco che in qualche modo vi ha cambiato la vita o ha avuto un forte impatto sulla vostra formazione come musicisti e perchè?
Per me uno su tutti è “Live Rust” di Neil Young, è guardando quel dvd che ho imparato a suonare la chitarra elettrica.
Grazie e alla prossima!
Articolo del
15/04/2011 -
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