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Conosciamo Julia Kent come violoncellista di Antony & The Johnsons, ma da qualche anno l’artista canadese ha deciso di intraprendere un percorso solista che l’ha portata a pubblicare album importanti come Delay del 2007 e il recente Green And Grey del 2011. Julia Kent vive e lavora a New York, ma è una instancabile viaggiatrice e riesce a seguire personalmente i tanti progetti musicali che ha avviato in giro per il mondo, anche qui in Italia. La sua musica è carica di suggestioni visive, ti permette di viaggiare in una dimensione onirica dove convivono elementi di musica classica, loop di musica elettronica, citazioni dal minimalismo e componenti di musica di avanguardia. Julia, durante una pausa delle prove, ci ha gentilmente concesso un’intervista che crediamo possa interessare i nostri lettori.
Dopo il concerto di Roma all’Init Club hai suonato al Riot Studio di Napoli con i Parallel 41. Puoi parlarci di questa esperienza?
Collaboro con loro da circa tre anni. Si tratta di un ensemble di musica elettronica composto, oltre che da me, anche da Barbara De Dominicis, alla voce e da Davide Lonardi, che è un artista visuale. L’intento dei Parallel 41 è quello di tracciare una linea immaginaria fra Napoli e New York e le nostre performances scaturiscono da uno scambio continuo fra me e Barbara, basato essenzialmente sull’improvvisazione, che ha come sfondo le installazioni di Davide. Credo che a fine autunno sarà pubblicato anche un album inerente a questo lavoro.
Adesso ti trovi a Torino per una serie di concerti all’interno della rassegna “Il Sacro attraverso l’Ordinario” e presenterai “Bar”, una tua nuova rappresentazione multimediale. Come nascono le tue composizioni, ci sono elementi di natura mistica nelle tue composizioni?
Questo non sono in grado di dirtelo. E’ una osservazione interessante. Sì, senza dubbio c’è un aspetto spirituale delle cose che mi interessa molto, ma io cerco soprattutto di dare espressione alle emozioni. Mi piace soffermarmi in particolare sulle interazioni che ci sono fra i suoni presenti in Natura e la musica. Cerco di cogliere una dimensione sociale, un aspetto particolare della vita delle persone e provo a trasformarlo in un brano musicale.
Alle tue spalle hai una formazione musicale di natura classica, non è vero?
Sì, ho studiato violoncello al Conservatorio di Bloomington, nell’Indiana e mi sono laureata. Poi però mi sono fermata per un paio di anni, non ho dato seguito ai miei studi. Non vedevo alcun futuro per me come musicista classica. Mi spaventava quel mondo, troppo competitivo, così assurdo. Non era per me. E’ stato allora che mi sono trasferita a New York e ho cambiato tutto.
Insieme a Melora Creager eri nel nucleo originario delle Rasputina, una band newyorchese di “cello rock” che ha avuto un certo successo sulla scena “indie” nel 1996...
Sì, ma dopo tre anni le nostre strade si sono separate. Il genere di musica delle Rasputina non era proprio un qualcosa di adatto a me. Ho perso contatto con loro e ho rivisto Melora solo di recente, dopo dieci anni. Era lei che scriveva tutte le musiche del gruppo. Ma adesso mi sento davvero molto lontano da quella esperienza.
Quanto è ancora influente l’impostazione classica nella musica che componi adesso?
Naturalmente l’influenza classica è presente nella mia musica, ma ci tengo a sottolineare che non sono - e non sono mai stata - una compositrice di musica classica in senso stretto. Ho sempre guardato ad altro, alla corrente minimalista, per esempio e anche all’elettronica.
Terminata l’esperienza con le Rasputina hai registrato due album e sei stata in tour come violoncellista di Antony & The Johnsons. L’incontro con Antony Hegarty ha in un certo senso cambiato la tua vita e dato un senso alla tua dimensione artistica, vero?
Sì, certo. Devo ammettere che sono stata molto fortunata in questo. Conosco Antony da tanti anni ormai. L’ho incontrato per la prima volta a New York attraverso un amico comune. E’ una persona speciale, davvero bella. Ha una sensibilità unica e poi, come compositore, è bravissimo. Non ha uguali. E’ un vero genio. Mi ha insegnato moltissime cose e gli devo molto. Hai collaborato con molti altri artisti e gruppi musicali, in ultimo anche con gli Angels Of Light di Michael Gira, il fondatore di un gruppo seminale come gli Swans. Come è stato lavorare con lui?
Michael è bravissimo, in particolare come produttore. Album come New Mother e We Are Him degli Angels Of Light sono ricchi di forme musicali diverse, ora tenere, ora violente, ora stravaganti o ancora epiche ed orchestrali. Ho imparato molto anche da lui.
Su “Delay”, il tuo primo album solo, molte composizioni hanno come titolo il nome di altrettanti aeroporti, come “Gardermoen” che è l’aereoporto di Oslo, “Arlanda” che è l’aeroporto di Stoccolma o anche “Malpensa”, che è l’aeroporto di Milano. Che cosa ti ispirano luoghi del genere?
Viaggio molto per portare la mia musica in giro per il mondo. E mi trovo spesso a sostare, a volte anche per molte ore, negli aeroporti. E’ un luogo dove si sprigionano emozioni, laceranti come le separazioni, come gli addii, oppure più dolci come un incontro, un ritorno dopo una lunga assenza. E tutto questo confluisce in maniera importante nella mia musica.
Anche su “Caronte”, l’installazione di arte contemporanea di Giuseppe Stampone a New York, ti è stato chiesto di suonare il tuo violoncello all’interno di un vecchio ascensore in viaggio verso l’alto, che passava attraverso l’Inferno e il Paradiso. Sei attratta in modo particolare dai “non luoghi”, dai posti dove sei sempre di passaggio, quasi come se fosse una tua condizione dell’essere. Sei una persona molto tranquilla, molto calma esteriormente, ma senti dentro di te una qualche forma nascosta di inquietudine? Non lo so. Forse è così, forse hai ragione. Ti ripeto, viaggio molto, sono in un continuo stato di transizione, in una condizione di confine. E mi piace che sia così. Non metto mai radici da nessuna parte, in nessun luogo. Non mi piace fermarmi in un posto, vivere un ambiente soltanto, frequentare sempre le stesse persone. Riduce molto le possibilità che abbiamo di dare voce alla creatività.
Come hai lavorato alla stesura di “Green And Grey”, il tuo nuovo album?
Quando scrivo qualcosa che sento profondamente mia, allora preferisco stare da sola, metto da parte qualsiasi collaborazione esterna. E poi dopo il buon esito di “Delay”, mi sentivo molto fiduciosa nei miei mezzi, nelle mie capacità. Allora ho trasformato la casa dove abito nel Lower East Side di New York in uno studio di registrazione. Mi sono occupata personalmente sia delle partiture per il violoncello, sia dei passaggi digitali attraverso il computer.
Qual è il tema centrale di un’opera come “Green And Grey”?
Era mia intenzione esplorare le intersezioni, i punti di contatto fra il Verde, che si riferisce alla Natura, e il Grigio, che rimanda invece alla sfera tecnologica, quella propria dell’intervento umano. Sono affascinata dal suono del canto degli uccelli, dal rumore dello scroscio d’acqua durante una temporale, ma anche dalle possibilità che offre l’elettronica digitale. Cerco dei pattern minimali in questo ambito, un tema fisso, costante, sul quale poi inserisco le note del mio violoncello.
Mi è piaciuta molto una composizione intitolata “Missed”, che considero come uno dei momenti migliori del nuovo album...
Spesso ci troviamo a vivere circostanze in cui sentiamo la mancanza di qualcosa oppure di qualcuno. E’ uno stato d’animo che crea attesa, talvolta angoscia. Io ho cercato di rappresentare in musica quel vuoto all’interno della nostra sfera emotiva che tanto ci fa soffrire.
Una tua composizione, intitolata “Gardermoen”, è stata inserita sulla colonna sonora di “This Must Be The Place” l’ultimo film di Paolo Sorrentino. Come è nata questa collaborazione?
Devo tutto al mio amico Theo Teardo, un compositore italiano della scena industrial che è specializzato in colonne sonore e musica per il cinema. Conosce bene Sorrentino: ha lavorato con lui in diverse occasioni e gli ha fatto avere Delay, il mio primo disco. L’album è piaciuto molto al regista che ha scelto il brano per una scena a cui teneva molto. E’ stato un gesto molto generoso da parte di Theo nei miei confronti.
Sei consapevole del grande potere evocativo sotto il profilo cinematografico e più in generale visuale delle tue composizioni strumentali?
Sì, certo. Me lo dicono molte persone. Mi consigliano di orientarmi decisamente verso le colonne sonore per il cinema. Per ora ho scritto qualcosa per il teatro, per delle installazioni di Arte Contemporanea e proprio di recente le musiche di supporto ad un documentario della Tv canadese.
Quali sono i tuoi prossimi impegni in Europa?
Dopo i concerti di Torino, sarò a Venezia e poi ancora a Pisa. Quindi lascerò l’Italia per andare a suonare a Londra, poi Rotterdam, in Olanda e infine a Ginevra in Svizzera...
(ringraziamo Jason Campbell per la foto di Julia Kent)
Articolo del
23/09/2011 -
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