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Roma 27/09/2011 – Conferenza stampa in RAI per la presentazione del nuovo programma di RaiDue Sbarre che andrà in onda dal 28 settembre alle 23,40 per 8 puntate, che entra realmente dentro una delle carceri più famose d’Italia, Rebibbia. In ogni puntata la storia di un ragazzo borderline incrocerà il percorso e la vicenda umana di un carcerato: un confronto drammatico ed emozionante in cui i due binari dei racconti si fondono in cerca di una riflessione positiva. Obiettivo del programma è quello di interessare il pubblico a due realtà, quella del mondo giovanile e quella della situazione carceraria. Il programma vanta la collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria di Rebibbia. Alla conferenza stampa sono presenti il dott. Cantone (Direttore di Rebibbia), il dott. Carmignani (vicedirettore di RaiDue) Luca Barbareschi (della Casanova Multimedia, produttrice del programma) e gli autori Calamini, Cipriano e Andreini. Narratore d’eccezione è il cantautore Fabrizio Moro, già vincitore di numerosi premi con Pensa dedicata al ricordo di Falcone e Borsellino. Alla fine di ogni puntata Fabrizio Moro raccoglierà le impressioni a caldo del ragazzo appena uscito dal carcere e dedicherà a lui una canzone unplugged che racchiude nel testo il senso dell’incontro appena avvenuto. Lo abbiamo incontrato.
Fabrizio Moro, classe ’75, il tuo primo grande successo arriva nel 2007 a San Reno con “Pensa” che oltre a vincere la categoria giovani, il premio della critica, altri premi, arriva il disco d’oro. Ma tu sei partito da lontano, sei partito molto tempo prima. Come hai cominciato?
Beh, ho iniziato da una cantina, la classica cantina, Ho iniziato all’età di circa 12 anni a suonare, a scrivere le prime canzoni dopo un po’ di tempo. Appena ho iniziato a strimpellare il giro di DO ho iniziato a scrivere i testi, rapportati ovviamente all’età che avevo, infatti quando vado a riascoltare le cose che scrivevo tanti anni fa mi vengono i brividi (veramente pure oggi ogni tanto mi vengono i brividi), però è stata una lunga traversata, poi ho cercato in tutti i modi di avere sempre come supporto una band. Ecco io oggi mi sento più un cantante di una band piuttosto che un cantante solista. Per me la band è stata sempre fondamentale, trai l’ispirazione da loro, trai la forza, ti danno tanta speranza perché poi condividere gli insuccessi è molto doloroso ma condividere i successi è più bello. Questa è una cosa che dico sempre ai giovani musicisti, quando non si sa da dove partire partite dalla cantina con la vostra band, con i vostri amici del cuore, con quelli che riescono a capire la vostra devozione alla musica, che non tutti la capiscono poi. Ad esempio, quando parti da un certo ceto sociale, una certa cerchia di amici, ti chiedono ma che fai? Faccio il musicista. Si vabbè ma per vivere che fai? Faccio il musicista, vivo male però faccio il musicista. E poi andando avanti... io oggi lavoro con 3 della band originale, e con loro facciamo un bel gruppo. Ci siamo trovati a passare dal Jailbreak di Via Tiburtina con 150 persone ad aprire un concerto di Vasco con 80.000, quindi quando ci guardiamo sul palco riusciamo a capire di che cosa stiamo parlando. E’ una bella sensazione.
Tu sei un cantautore ma non ami la definizione “impegnato”, anche se i tuoi testi non sono così futili, le tue canzoni raccontano cose vere quotidiane; leggo l’affetto con cui ti scrivono i tuoi fan, ti ringraziano per le tue parole perché veramente sembra che racconti delle scene di vita, vedi una cosa e la racconti in musica, è così?
E' un modo per esorcizzare il disagio che continuo a vivere, è chiaro che la mia vita ha fatto una progressione in positivo però il disagio purtroppo dentro non lo togli. Quando nasci in un certo modo e quando hai un certo tipo di carattere... io poi sono un polemico di natura, sono uno che ha un caratteraccio, uno che la vuole sempre avere vinta, m’incazzo spesso... la musica è un modo per esorcizzare tutti i disagi che continuo a vivere, è una valvola di sfogo che mi permette di esprimere un Fabrizio a 360°. In fondo sono una persona che si inibisce molto davanti alle telecamere, davanti a tante persone o davanti a un registratore, però il palco è l’unica dimensione che mi appartiene veramente, quando sto sul palco divento più alto, più bello, più intelligente, più simpatico, e spero di non perderla mai questa verve...
Venendo a "Sbarre", come sei arrivato alla scelta di accettare questa sfida, questa esperienza. So che all’inizio avevi qualche dubbio perché sei un cantante non volevi fare come tanti che mischiano i mestieri. Cosa ti ha fatto accettare, cosa hai visto in questo esperimento che ti ha attirato?
Innanzitutto la libertà di cui ho goduto. All’inizio, come hai detto tu, il programma non l’avevo percepito bene, perché appena mi parlano di televisione mi spavento. In tre anni, quasi quattro dall’ultima apparizione, da quando è uscito Pensa, da quando sono diventato “popolare”, la televisione è stato un picco negativo per me, un po’ perché non è il contesto che mi appartiene, e un po’ perché alla fine sono una persona molto chiusa, quindi avevo un po’ paura di andare oltre, di cimentarmi in un ruolo che non è del tutto il mio e che continua a non essere mio. Poi gli autori mi hanno coinvolto appieno in tutto, abbiamo scelto le storie insieme, abbiamo scelto le musiche, ci siamo confrontati su qualsiasi cosa, e cosa ancora più importante non c’erano i soliti tempi televisivi, sai quando il conduttore ti fa una domanda e intanto guarda in camera e gli contano con le dita il tempo, ecco io li mi imbarazzo e non riesco più a esprimermi. Quindi è stata un’esperienza molto positiva soprattutto perché è stata una sfida con me stesso, che all’inizio non volevo giocare, poi è stata una sfida che mi ha portato tanto. Mi ha dato tanto non solo dal punto di vista professionale ma anche dal punto di vista emotivo, e non è poco. Tanto che se mi chiedessero di continuare a fare una trasmissione del genere io accetterei volentieri. Perché è un metodo di comunicazione, e comunicare penso sia la cosa fondamentale soprattutto per un artista. O per chi si definisce tale.
Il programma racconta principalmente storie di ragazzi, o meglio mette a confronto storie di ragazzi “borderline” con chi invece vive già l’esperienza del carcere. Per riuscire ad avvicinarti a questi ragazzi con cui tu alla fine della puntata parli, commenti la loro esperienza, pensi che venire da una periferia come San Basilio a Roma e avere vissuto un po’ da vicino quel tipo di esperienze sia stato utile?
E’ stato fondamentale, è come quando arriva un dottore che comincia a spiegare le cause scientifiche dell’ecstasy: se l’ecstasy non l’hai mai presa non la potrai mai spiegare come chi l’ha provata. Soprattutto per scegliere le storie e i ragazzi, perché il programma (a parte il montaggio, la sceneggiatura, la conduzione o la musica) si regge esclusivamente sugli sguardi dei ragazzi, neanche dei detenuti, sui ragazzi. Ad esempio oggi abbiamo visto un’anteprima, ecco lo sguardo di Alberto (ndr ragazzo protagonista della prima puntata) racconta una storia. Se tu quella storia in parte non l’hai mai provata, non l’hai mai vissuta, non riuscirai mai a capire che Alberto è il personaggio fondamentale di questa storia, non riuscirai mai a capire che vanno prese determinate persone e storie. Alcuni degli autori vengono da un certo ceto sociale... non sto discriminando ma se certe cose non le hai vissute non riesci a capire quale è il ragazzo da interpellare, e coinvolgere in questo progetto, perché magari vai a prendere un ragazzo che non ha mai avuto problemi seri, magari si è fatto qualche spinello o qualche stronzata del genere, però viene da una buona famiglia, è uno che non andrebbe mai a finire in carcere perché ha un certo tipo di cervello, un certo tipo di cultura, quindi non gli viene nemmeno l’idea di compiere un reato. Alcuni compiono reati per disperazione. O perché non hanno mai avuto punti di riferimento nella loro vita. Metti un ragazzo di 19 anni della periferia di Napoli, non ha più il padre e la madre e ha due figli... Io non sono mai stato così disagiato per fortuna, vengo da una famiglia... una famiglia del popolo ecco. Vivevo alle case popolari di S. Basilio, e certe cose sento di avere il diritto di spiegarle, o più che spiegarle meglio di raccontarle, di avere titolo per parlarne.
Tu sei padre da due anni, tuo figlio si chiama Libero, e la scelta del nome rispecchia molto il tuo spirito. Alla luce di questa esperienza e soprattutto di quella che di periferia ti porti dietro tu, come pensi che affronterai la crescita di tuo figlio per tenerlo lontano da certe cose e per fargli capire come restare lontano da situazioni che poi ti possono cambiare la vita in peggio?
Sicuramente non gli dirò mai “questa cosa si fa, questa non si fa”. Lo lascerò libero di scegliere però cercherò di raccontargli la storia di suo padre, o meglio la storia di certe situazioni; è un mestiere difficile quello del papà perché non riesci a trovare un equilibrio: ci sono momenti in cui ti senti la persona più fortunata del mondo perché oltre l’amore puoi mettere a disposizione la tua esperienza, e quindi è un modo per realizzarti nella tua totalità. E ci sono dei momenti in cui hai paura soprattutto quando tuo figlio comincia ad avere una certa età e comincia a farti certe domande. Per adesso mio figlio è talmente piccolo che io non riesco ancora a capire se poi sarò all’altezza di far questo mestiere, io ce la metterò tutta. Poi vedremo strada facendo come andrà, sicuramente commetterò tanti sbagli.
Però e sicuro che una cosa che gli insegnerai, come hai detto prima, è che la libertà è sacra, e che bisogna dire sempre quello che si pensa, anche quando questo porta delle conseguenze...
Bisogna sempre dire quello che si pensa aldilà delle ripercussioni positive o negative, un ragazzo deve avere la possibilità di scegliere tra giusto e sbagliato, ma pensare con la propria testa, questo è importante.
Articolo del
28/09/2011 -
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