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Incontro Chris Eckman e Carla Torgerson seduti a un tavolino del bar del loro hotel a Milano, mentre sorseggiano un espresso. Si trovano nella città meneghina per promuovere l'ultimo disco dei Walkabouts, Travels In The Dustland, in uscita il 21 ottobre. Chris si allontana per qualche minuto e prima dell'intervista “ufficiale” ne approfitto per scambiare due parole con Carla, che mi spiega che spesso si segna i nomi delle persone che incontra (compreso il mio) perché le piace ricordare con chi parla. Discutiamo di jet lag, caffè e infine mi consiglia un bell'itinerario per visitare gli Usa!. Travels In The Dustland arriva dopo un lungo periodo di pausa e si aggiunge a una lunga lista di pubblicazioni della folk-rock band di Seattle.
Sono passati sei anni dal vostro ultimo disco. C'è qualche ragione particolare che vi ha spinto ad aspettare tutto questo tempo per far uscire “Travels In The Dustland”?
Carla: Siamo stati entrambi impegnati a gestire la nostra vita domestica, sistemare cose, assicurarci che la famiglia fosse a posto. Penso che abbiamo un po' rallentato nel comunicare tra di noi. Chris: Anche perché volevamo decidere bene che tipo di disco fare. Abbiamo pubblicato molti album e stavolta non volevamo farne uno tanto per farlo, volevamo fare il disco giusto prendendoci il tempo necessario per realizzarlo. Ci siamo chiesti anche se avevamo l'energia, il tempo, la dedizione per fare un bel lavoro. Poi una volta deciso ci è voluto altro tempo per trovare gli spazi e scriverlo. Carla: E anche per imparare a focalizzarci di nuovo su un progetto.
Ho letto che una delle ragioni è che volevate aspettare fin quando non ci fosse stata una “storia da raccontare”.
Chris: Sì, penso che i nostri dischi migliori siano quelli che hanno una struttura concettuale, che non siano solo una semplice raccolta di canzoni. Lavoriamo sempre meglio quando abbiamo qualcosa che leghi insieme i pezzi. Questo è un altro dei motivi per cui ci abbiamo messo tanto a pubblicarlo, non avevamo molto chiaro come dovesse essere questo lavoro. Io sono il compositore principale quindi molto di questo peso è ricaduto sulle mie spalle, perché ero impegnato anche il altri progetti musicali. È stato molto difficile capire quale dovesse essere il passo successivo. Poi mi sono venute in mente queste parole “travels in the dustland” e tutto si è sviluppato in maniera naturale e rapida. I titoli sono importanti, mi capita spesso di scrivere canzoni partendo dal titolo, è difficile che dia un titolo a un brano dopo averlo scritto. Faccio anche così ma preferisco partire dal titolo e poi scrivere il pezzo.
Quindi avete scritto questo album praticamente partendo da questa frase, che so, che ti è venuta in mente mentre eri nel deserto. Com'è che funziona esattamente avere un'unica frase e costruirci intorno un intero disco?
Chris: Partire da una frase e due anni dopo ritrovarti a parlarne con i giornalisti a Milano! Carla: È divertente perché in pratica costruisci prima la parte finale e poi le fondamenta. Non costruiresti mai una casa così. Chris: È l'opposto di come lavorano gli altri. Certo abbiamo fatto anche album in modo più tradizionale, decidendo il titolo solo il giorno in cui il designer ne aveva bisogno per il cd. Ma questo disco sembrava funzionare meglio alla rovescia.
Che cosa rappresenta questa “terra della polvere”? Potrebbe essere una metafora per l'America che non ha mostrato per voi lo stesso interesse che invece vi ha dimostrato l'Europa?
Chris: Non riguarda noi in prima persona, ma ha un doppio significato. La “terra della polvere” innanzitutto si riferisce al reale paesaggio americano, quello dell'Ovest, un posto arido dove c'è molto deserto. Poi ha anche un altro significato, metaforico, che riguarda la situazione in cui si trova l'America oggi. Carla: Vivere con meno, meno soldi, meno acqua, meno possibilità.
Meno tutto!
Chris: Già, molte delle canzoni parlano di questo. La gente riflette sulla propria vita, su cosa succederà. Penso che ogni volta che ci fermiamo a pensare invece che lasciarci trascinare dal corso delle cose, ci sia ancora speranza. Il solo fatto di riflettere sui problemi che ci circondano implica la possibilità di cambiare le cose, ma se non ci pensi nemmeno un attimo non vai da nessuna parte.
Mi dite qualcosa sulla tracklist? Ho notato che è divisa in quattro capitoli. Che cosa significano?
Chris: Non c'è una vera e propria storia che inizia e poi finisce. La divisione in capitoli indica che le canzoni sono relazionate tra di loro in qualche maniera, il tema comune che le unisce è il paesaggio in cui sono ambientate, la “terra della polvere” appunto. Tutto si ricollega all'aspetto metaforico dei brani, che sono organizzati secondo una specie di sequenza, un ciclo. La prima parte parla di persone che o si muovo o stanno completamente ferme, la seconda di persone che si sono rese conto che devono fare qualcosa, che non c'è niente per loro nel luogo in cui si trovano. Verso la fine del disco c'è poi un breve momento in cui questa gente si rende conto che forse è arrivata in un posto nuovo e infine c'è l'ultima canzone che ha il suo proprio capitolo e il cui significato è un po' ambiguo, non è né necessariamente speranzosa né disperata. Diciamo comunque che se uno è alla ricerca di risposte profonde noi non ne diamo molte! (ride, ndr)
Secondo voi perché avete avuto più successo qui in Europa che negli Stati Uniti?
Carla: Semplicemente ci siamo concentrati di più sull'Europa e lasciato l'America fuori dai nostri piani per molti anni. Chris: Avevamo anche un rapporto meno amichevole con le case discografiche lì, mentre quando siamo arrivati in Europa la prima volta nel 1990 è stato subito chiaro che la situazione era decisamente migliore, c'erano persone che sembravano capirci davvero e volevano promuoverci. Molto è dipeso anche da noi, perché a un certo punto abbiamo iniziato a rinnegare gli Stati Uniti sempre di più. I nostri dischi sono usciti anche lì, a parte l'ultimo credo, ma ci è sembrato più semplice focalizzarci sull'Europa, eravamo apprezzati di più e quindi non abbiamo neanche più provato a farci conoscere in America. Carla: Anche quando siamo arrivati ad avere più possibilità economiche come band, quando eravamo sotto la Virgin e abbiamo fatto dei bei dischi come Devil's Road e Nighttown, Virgin America ci ha messo un attimo a dire no.
Quindi è dipeso sia da loro che da voi?
Chris: Sì, un po' da entrambi. Alla base non c'è nessuna spiegazione sociologica del tipo “il pubblico europeo capisce di più la nostra musica rispetto al pubblico americano”. In piccola parte è anche così ed è probabilmente il motivo per cui quando siamo arrivati qui siamo stati accolti con più entusiasmo che in America. Ma penso che questa sia la ragione minore, dietro ci sono considerazioni di mercato e di affari molto più noiose.
Anni fa avete fatto una cover di “Disamistade” di Fabrizio De André. Volevo sapere qualcosa a riguardo, come mai proprio questa canzone?
Chris: Mi pare fosse il 1999, eravamo in giro per un tour promozionale perché era appena uscito Trail Of Stars. Sapevamo già che l'anno seguente avremmo fatto Train Leaves At Eight, che a quel tempo non aveva ancora un titolo... ecco questo era un disco che non è partito da un titolo! Volevamo pubblicare una collezione di brani scritti da cantautori europei e quindi abbiamo iniziato a chiedere in giro alla gente, ai giornalisti, ad amici che avevamo in diversi paesi. Nella lista, tra quelli che ci hanno consigliato, c'erano artisti che già conoscevamo, a volte anche di persona e poi c'erano nomi nuovi. Carla: Capitava che un giornalista dicesse “Torno subito” e andava a prendere in macchina un cd o una cassetta. Chris: Mi ricordo che una volta uno è andato addirittura in negozio a comprarlo. Carla: Sì perché avevano il loro parere su quale artista del loro paese meritasse attenzione. Chris: A consigliarci Fabrizio De André è stato un nostro amico, non è nemmeno italiano ma austriaco. Non è stata una canzone semplice da tradurre in inglese, anzi abbiamo usato due traduttori perché la prima non ci convinceva. Poi mi sono rivolto a una donna che viveva a Seattle ed è andata meglio, ci ha detto che la canzone è quasi impossibile da tradurre in inglese. Carla: Il titolo l'abbiamo lasciato così perché non c'è una parola corrispondente, quindi è stato più semplice tenere l'originale. Chris: E poi Ivano Fossati che ha composto la canzone insieme a De André ci ha scritto per dirci che gli era molto piaciuta la nostra versione, che in pratica non avevamo distrutto il pezzo.
Parliamo di Ipod ora. Ho notato che i musicisti di 20-30 anni lo considerano una cosa fantastica, mentre quelli sui 40-50 non ne sono così entusiasti, dicono che ha i suoi aspetti positivi ma senza sbilanciarsi, perché la qualità del suono su un Ipod è nettamente inferiore. Qual'è la vostra posizione?
Chris: Io lavoro molto come produttore musicale e ci vuole tanta fatica per far suonare le cose nel modo migliore possibile, quando poi passano all'mp3 una percentuale di qualità si perde. Certo se non conosco il pezzo e lo sento per la prima volta su mp3 non noto la differenza, l'mp3 non mi crea nessun problema anche perché ho degli album solo in mp3. Però se conosco il pezzo dal vinile o dal cd e poi lo ascolto in digitale sento la differenza immediatamente. Comunque è un ottimo modo per portarti dietro la musica, ha molto più senso che andare in giro con un mangianastri. Carla: Sì, poi anni fa avevamo nelle macchine dei piccoli stereo. Anche quelli non è che suonassero benissimo, però ti ci abitui. Chris: Sono d'accordo. Ci lamentavamo anche delle cassette, sono sempre state considerate inferiori ai vinili. Carla: E poi il nastro inizia a rovinarsi perché magari l'hai ascoltata per due anni di fila. Chris: In ogni caso penso che l'mp3 sia dannoso solo se diventa uno standard. Sarebbe una cosa deprimente se la gente conoscesse la musica solo attraverso l'mp3.
I Walkabouts suoneranno in Italia a inizio 2012. Stay tuned!
Articolo del
13/10/2011 -
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