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A tu per tu con la realtà più esplosiva del panorama musicale indipendente italiano, il power duo dei Bud Spencer Blues Explosion a poche ore dal concerto che terranno al Lanificio di Roma.
Nicholas Matteucci: Come sta andando il tour?
Adriano Viterbini: Siamo molto contenti, pure perché ora possiamo variegare maggiormente le scalette, poi perché applichiamo delle varianti ai brani, abbiamo un approccio diverso ai live, con un’improvvisazione un po’ più consapevole fatta di volte in cui sappiamo dove possiamo andare a finire ed altre che invece sono “al buio” e cerchiamo di dosarli.
Che tipo di differenze notate con le vostre passate esperienze? Vi sentite un po’ più “famosi”?
Cesare Petulicchio: “Famosi” è un termine strano, noi ci mettiamo la stessa intensità da quando c’erano tre persone ai nostri concerti ad oggi in cui c’è molta più gente, poi è una bella sensazione, è il bello del circuito “alternativo” in cui magari si vede l’effetto anche del passaparola, che ci da molta soddisfazione.
A Roma giocate in casa e ok, come sono le altre città a livello di accoglienza e partecipazione?
A.V. Diciamo che noi percepiamo queste cose abbastanza “di striscio”, ogni volta che saliamo sul palco partiamo da un presupposto di gratificazione per le persone che ci sono, per cui la viviamo sempre bene. Non abbiamo mai avvertito ostilità ma sempre energia e feedback positivi.
Nell’ambito indipendente italiano siete tra le realtà più importanti in circolazione, voi a che punto vi sentite arrivati?
C.P. E’ difficile rendersene conto dall’interno, magari seguendo la scena musicale uno vede andare avanti le band, noi siamo felici, il nostro scopo nella musica non è andare in tv piuttosto che fare tour mondiali traducendo dischi in spagnolo per vendere in Sudamerica. Ora come ora siamo contenti delle date in Europa in vista e di quelle in America.
Quindi avete in programma di ritornare in Nord America?
A.V. Sì, ci saranno delle novità, faremo delle date in Europa e poi a breve torneremo in America...
C.P. Torneremo in America, a Memphis in particolare, dove terremo due concerti nell’ambito di un festival, l’I.B.C. Blues Challenge, grazie ad un’associazione di Roma chiamata Mojo Station che ci porta lì come portavoce del blues italiano, quindi a seconda di come va, essendo un concorso, potremmo essere richiamati a suonare.
Quali sono, se ve li siete prefissati, i prossimi traguardi ed obiettivi della vostra carriera?
A.V. Onestamente forse quello di fare un disco ancora più rappresentativo dei Bud, noi sentiamo la necessità di fermare quello che siamo su cd, stiamo lavorando a questo, il prossimo step è di farci un nostro studio dove poter lavorare, creare una base dove vivere la creazione del disco, la fase di preproduzione, finora siamo stati sia per volontà nostra che per necessità sempre abbastanza spartani da questo punto di vista. Quindi vogliamo anche evolvere il nostro tipo di concerto, creare una nostra dimensione di show che ci rappresenti un misto di improvvisazione, ma anche più curato, però allo stesso tempo pure “sgangherato”...
Tornerete negli Stati Uniti, terra degli artisti a cui venite accostati più spesso, preferite essere paragonati ai White Stripes o ai Black Keys?
C.P. I paragoni secondo me lasciano il tempo che trovano, questi sono facili accostamenti, la matrice blues che abbiamo noi come questi gruppi che si rifanno a gruppi a due, di chitarra e batteria, che in America ci sono sempre stati. Dipende comunque, i Black Keys di tre dischi fa sì, ora è un’altra band. White Stripes ci sono cose che ci piacciono di più altre meno.
Per il futuro pensate di rimanere sempre con questo tipo di assetto oppure, proprio come i Black Keys che nell’ultimo album hanno introdotto elementi di basso e tastiere, prenderete in considerazione di sperimentare con altri strumenti?
C.P. Come ti dicevo preferiamo lavorare su noi stessi ed andare alla ricerca dell’essenza del nostro sound, quindi penso che rimarremo con questo tipo di impostazione.
Adriano, quanto ti ha influenzato l’esperienza Black Friday in sede di scrittura dell’ultimo album, "Do It"?
A.V. Mah, non è che mi abbia necessariamente influenzato, quello del Delta Blues è uno stile che sento molto e che con l’esperienza Black Friday ho avuto modo di approfondire maggiormente, però è una cosa che fa parte di me così come tanti altri generi.
Adriano, dai primi tempi hai ampliato visibilmente la tua gamma di stili ed effetti, ottenendo sempre un risultato comunque personale ed originale, se potessi però indicare i “padri” del tuo stile e del tuo sound, chi chiameresti in causa?
A.V. Ce ne sono veramente tanti e molto diversi tra loro, da Ry Cooder a Van Halen per esempio, impossibile dirli tutti.
Cos’ha quest’album in più del precedente? In che maniera vi sentite maturati?
A.V. Il primo è stato più un buttare giù tutto quello che avevamo, infatti non era un album molto organico, questo invece è forte di una maggior consapevolezza nei nostri mezzi, siamo più sicuri di noi stessi ed è già più ragionato rispetto al precedente quindi ci rappresenta maggiormente.
La leggenda vuole che il blues, genere definito storicamente “triste” perché nato in tempi di schiavitù ed oppressione e che emerge forte e chiaro da quest’album, sia stato ispirato dal Diavolo stesso attraverso il mitico “patto” con Robert Johnson... e non dite che non lo sapevate perché le vostre magliette più recenti rappresentano un uomo nero che suona la chitarra con un diavoletto sulla spalla. Che legame c’è tra questo e “Dio Odia I Tristi” (acronimo di "Do It", titolo dell’album)?
C.P. E’ un modo che abbiamo usato per esorcizzare questo aspetto tipico del blues che dovrebbe essere triste, noi vediamo le cose a modo nostro, per noi la musica deve essere fatta di vibrazioni positive.
Se poteste scegliere una band più grande di voi con cui andare in tour, una italiana ed una straniera, chi scegliereste?
A.V. Italiana i Verdena.
C.P. Straniera i Queens Of The Stone Age.
Sebbene siate amati da un numero di fan sempre crescente, vi sentite in qualche modo “ingabbiati” o penalizzati dall’Italia? O meglio non pensate mai “Se fossimo stati inglesi o americani a quest’ora saremmo famosissimi”?
A.V. Sinceramente ora come ora siamo soddisfatti della nostra situazione attuale, suoniamo parecchio, ci divertiamo, le cose vanno benissimo e non potremmo chiedere di meglio.
Sta migliorando qualcosa nel sistema musicale italiano?
C.P. Va a periodi, in questo momento nella musica come in tutti i settori c’è una grande crisi, quindi è difficile trovare qualcuno che investa nelle band, però siamo ottimisti.
Come nacque la scelta di fare la cover di "Hey Boy Hey Girl" dei Chemical Brothers? Avevate fiutato il potenziale di risonanza o è stata solo un’intuizione casuale?
A.V. E’ nata da una jam session, stavamo suonando e casualmente è venuto fuori un giro che ricordava quel pezzo, così ci venne in mente di cantarci le parole di quella canzone e poi di rielaborarla fino al risultato finale.
Quanto incidono i vostri stati d’animo nell’intesa sul palco e nella resa live?
C.P. Ovviamente lo stato d’animo che uno ha prima di salire sul palco potrebbe condizionare l’approccio al concerto, però poi quando siamo lì le sensazioni sono sempre positive, il live è “un rito”!
A.V. Il live non se tocca!!!
“Fanno meglio quelli che non ci credono” perché? Così non si rischia di rimanere delusi dalle aspettative e si prende per buona qualsiasi cosa arrivi oppure c’è una vena di pessimismo come se sia inutile “crederci”?
A.V. Fanno meglio è stato un modo per spronarci, che ci togliesse l’idea che le cose tanto prima o poi debbano succedere e venire da sole, quindi farci essere più decisi, convinti e propositivi.
Voi in cosa credete per il futuro dei Bud?
C.P. Siamo soddisfatti di come stanno andando le cose, affrontiamo quello che arriverà con entusiasmo e speriamo che le cose vadano sempre meglio naturalmente!
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Un ringraziamento particolare ad Alberto (Yorkipus), Daniele, Raniero (Ausgang) e Brizio.
Articolo del
30/01/2012 -
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