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E' una suburbia interiore quella racchiusa all'interno della proposta musicale dei Distorsonic. Basso e batteria che sferzano lungo psichedeliche, monolitiche e lisergiche strade metropolitane, mentre una voce recitante echeggia oscura lungo itinerari impervi pregni di alienazione, dolore e solitudine. Percorrendo le vie di un paesaggio urbano personale e autobiografico, fatto di musica, esperienza e passione, abbiamo voluto esplorare il mondo dei Distorsonic attraverso le parole di Maurizio Iorio, mente del progetto.
Come inizia la tua carriera da musicista e come si evolve?
Tutto è nato per caso. Hanno cominciato a chiamarmi per suonare insieme a vari musicisti. Sono finito a suonare il basso per Nicola Piovani, che è stata una grande sorpresa. Ho suonato con Moltheni al quale rimango tutt'ora molto legato anche perché la collaborazione con lui ha coinciso con un periodo della mia vita molto particolare, tanto bello quanto brutto. Poi ho intrapreso questo progetto dei Distorsonic, che in realtà elaboravo già da molti anni...da quasi dieci anni. Ovviamente sono arrivato in ritardo. Il ritardo infatti è diventata una mia costante. (ride, ndr) Il primo disco è uscito con un anno di ritardo, il secondo con un anno e mezzo. I Distorsonic in realtà sono un duo: basso e batteria.
Perché un duo?
Nacque in realtà per alleggerire la formazione. È difficile suonare e mettere d'accordo tre/quattro persone. È molto complicato, per cui ho iniziato a pensare che forse c'era un modo per poter suonare in due. Adesso va molto di moda, ma all'epoca, quando pensai questa cosa, non lo faceva nessuno.
L'idea del progetto Distorsonic come è nata e come ti è venuta in mente?
Precedentemente al progetto Distorsonic, suonando il basso, odiavo in realtà tutto quello che era lontano da quel suono. Qualunque cosa fosse diverso dal jack e dal collegamento a un amplificatore lo detestavo. Per me era già troppo il jack; il basso doveva suonare come per magia da solo. Poi un mio amico mi lasciò un pedale invogliandomi a provarlo. Ho provato con uno, mi sono entusiasmato ed ho iniziato ad aumentare la catena degli effetti. Da lì è nato il progetto Distorsonic. Quello che faccio io è registrare una base dal vivo, in tempo reale, e suonarci sopra. Questo richiede molta bravura anche da parte del batterista, perché deve essere precisissimo sulla base. È insomma un procedimento complicato che richiede molta tranquillità interiore. Quando faccio queste cose divento infatti come un monaco tibetano; prima e dopo sono un disastro, mentre in quel momento divento zen (ride, ndr). In realtà molte persone sospettano che io abbia delle basi pre-registrate, ma non è affatto così. Chi ha dimestichezza col suonare si accorge che non è così.
Da un disco strumentale hai optato per uno con testi recitati, che in alcuni casi ti costringe allo scomoda e stretta compagnia dei Massimo Volume, tu cosa ne pensi?
(ride, ndr) Io chiaramente adoro i Massimo Volume anche perché quando suonavo con Moltheni abbiamo fatto parecchie date insieme. In realtà, conoscendoli molto bene, l'unico punto di contatto che trovo è legato al recitato. I testi di Mimì sono poi totalmente diversi dai miei. I suoi sono molto particolari. Io alla fine espongo solamente delle situazioni personali. Musicalmente poi siamo totalmente diversi ma non solo per formazione, loro sono quattro e noi due. Non c'è nessun punto di contatto né dal punto di vista della scrittura né dal punto di vista del suono. Ovviamente il recitato a un ascolto superficiale dà l'idea dei Massimo Volume.
Parliamo del panorama italiano: da musicista navigato cosa ne pensi di tutti questi cambi repentini che la musica sta subendo?
Il cambiamento è stato grosso soprattutto negli ultimi cinque/sei anni e non necessariamente in meglio. Vedo inoltre molta parte del pubblico distratta ai concerti e che in realtà non è davvero partecipe. È presente, ma non partecipe. Si capisce che non c'è quel coinvolgimento. Si va a un concerto più per l'evento, per esserci, perché bisogna essere lì. Secondo me la gente vive la musica a un livello molto superficiale, non tutta ovviamente. Io invece sono cresciuto in un'epoca in cui il pubblico era sempre molto coinvolto da chi suonava. Spesso era molto più competente di chi andava a scrivere sui giornali di musica. Riuscivano a risalire ai generi, alle discografie, ai nomi, ai cognomi. Oggi mi sembra che non sia più così. Un po' di colpa va anche a una buona parte della stampa. Mi rendo conto che loro ricevono tonnellate di roba ed è impossibile approfondire, però dovrebbero riuscire anche a fare un po' più di storia della musica. In fondo molte cose che escono oggi e che vengono spacciate per nuove sono davvero riciclaggi di cose inutili e superficiali. Io invece ricordo che il pubblico di alcuni anni fa era più paraculo, non si beveva l'hype e non cascava in questa trappola. Il pubblico di allora sapeva e voleva ascoltare, mentre oggi qualunque cosa abbia la copertina di un giornale viene definita come il suono del momento e riceve subito un'adesione totale. Chiaramente poi ci sono moltissime persone realmente appassionate di musica e che realmente seguono e ascoltano, andando in profondità e partecipando con sensibilità notevole. Non stiamo dunque parlando proprio della massa, ma un grosso cambiamento nel nostro Paese negli anni c'è stato. Al contrario, in Inghilterra o in America il pubblico ascolta con molta attenzione, lì la musica è ancora una questione molto molto seria. Ti ascoltano e solo dopo decidono se gli piaci o meno. Qui invece non lo fa quasi nessuno.
Hai mai pensato all'uso di una chitarra?
Francamente no (ride, ndr). In realtà sto scoprendo che in molte circostanze uso il basso come una chitarra. Alcuni infatti sospettano che i Distorsonic siano un trio e che ci sia una chitarra nascosta, ma non è così. In realtà uso uno strumento capace di alzare l'intonazione di due ottave, rendendo delle parti più chitarristiche. In pratica riesco a fare il chitarrista e il bassista al contempo (ride, ndr). Un domani magari farò come Umberto e mi metterò a suonare la batteria in un progetto parallelo...
Parlaci della collaborazione con Raffaella Castelli e Gianluca Falcon.
Con Raffaella è nata spontaneamente. Lei stava doppiando un film in una sala e io mi stavo occupando del missaggio in un'altra. Ci siamo incontrati nel corridoio e lei mi ha detto che, passando da lì, aveva sentito delle cose interessanti. In quell'occasione io le ho proposto di recitare un testo. Lei si è appassionata tantissimo alla cosa e in poche ore ha fatto le due take dei due brani che sono stati pubblicati e sicuramente in futuro faremo qualche altra cosa insieme. Gianluca è invece un vecchio amico con il quale ho condiviso le prime due tournée di Moltheni. Ci unisce quindi anche un'amicizia fortissima. Quando poi avevo bisogno di un batterista, perché che col precedente non avevo più nulla a che fare, si è precipitato a Roma ed è venuto a registrare con me. Gianluca è di una bravura micidiale; pur non avendo ascoltato nulla in anticipo, ha improvvisato tutto lì sul momento. Lui ha poi una di quelle sensibilità che gli permette di entrare immediatamente nell'idea, nel progetto, se lo lasci libero d'esprimersi e non gli poni dei vincoli. Quasi tutto prima take, tranne un pezzo dove io poi ho cambiato la stesura del pezzo e lui ha dovuto risuonare la batteria. È stato bellissimo. Credo infatti che pubblicherò delle altre cose che abbiamo registrato sempre in quella circostanza.
La genesi di "Dose minima letale", testi e musica un corpo unico?
Dose minima letale, che tra l'altro ha un titolo pesantissimo e non consono ai tempi perché certe cosa fanno paura, nasce da un'idea di una decina di anni fa, proprio durante il periodo in cui suonavo con Umberto. Al rientro da quella esperienza mi trovai a convivere con delle situazioni diametralmente opposte, rendendomi conto che fossero personalissime e quindi anche impossibili da spiegare e da condividere con qualcuno; erano sorprendenti anche per me. Fu un periodo della mia vita davvero duro. Mi trovai improvvisamente senza casa e a vivere dei veri e propri paradossi. Scendevo, per esempio, dall'aereo con Umberto dopo un tour e dormivo per strada. In realtà mi sono accorto poi che non avevo voglia di stare da nessuna altra parte se non per strada. Più tardi, mentre camminavo nella notte ascoltando musica con le cuffie, mi sono ricordato di tutte quelle sensazioni e degli stati d'animo di quel periodo che mi erano rimasti incollati addosso. Era come se stessi rivivendo quelle situazioni attraverso il ricordo. Erano però sensazioni delle quali volevo sbarazzarmi, allora pensai: “dirotto tutto dentro la musica e in questo modo non avrà più niente a che fare con me”. La musica in questo mi è venuta in aiuto e spontaneamente è nato questo pezzo. C'è stato dunque un grosso lavoro interiore inconsapevole. Buona parte degli altri testi invece li ho scritti poco prima di registrarli. Di qualcuno avevo qualche frase, ma tutto il resto lo terminavo un attimo prima di registrare. L'album l'ho registrato nello studio di Mattia, il chitarrista dei Fumisterie, e ci alternavamo in studio con Joe Lally dei Fugazi. Avevamo quindi anche dei tempi abbastanza strani. E' stato tutto un processo molto più spontaneo di quello che sembra.
Che rapporto hai con il pubblico e viceversa?
Mi piace quella parte di pubblico che ascolta attentamente. Il mio pubblico l'adoro. Mi ricordo quella volta che ho suonato al Circolo degli Artisti con i Bud Spencer Blues Explosion. La maggior parte del pubblico credo proprio fosse lì per loro, ma in quella occasione ho visto un'attenzione nei nostri confronti che mi ha piacevolmente sorpreso. Il mio rapporto col pubblico è molto sereno, perché so che andrò a catturare l'attenzione di chi ci ascolta in modo impegnato e questo mi fa gioco. Il pubblico poi per me non è solo quello che ti ascolta e sta sotto il palco, ma il rapporto con esso deve avere un seguito anche dopo il concerto, provando a creare un legame molto profondo e speciale che vada oltre la musica.
Fra le tue varie collaborazioni quali ripeteresti e quali no, sia a livello umano che prettamente musicale?
Buona parte delle cose che ho fatto le rifarei.
Se fossi un produttore su chi punteresti?
Il produttore è un ruolo per me estraneo. Ci deve essere in primis un legame molto forte tra il produttore e il musicista. Il primo durante la realizzazione del disco diventa quasi una parte del gruppo. Contrariamente a quanto pensa la gente, il produttore prende delle decisioni a livello di scrittura, dà dei suggerimenti, interviene in modo anche più completo e complesso nel fare musica. Per cui io non so se sarei in grado di svolgere questo ruolo. Sicuramente preferisco un'idea acerba, però sincera, a qualcosa di artefatto e studiato. Ci sono dei gruppi che mi piacerebbe produrre quello sì. Preferirei lavorare con dei ragazzi giovanissimi che non arrivino ai 23 anni, totalmente sconosciuti e che fuggono dalle modalità di Mtv e da certe dinamiche musicali abbastanza consuete. Ecco... se io dovessi produrre qualcuno, preferirei produrre uno sconosciuto piuttosto che qualcuno già conosciuto perché, partendo da una prima esperienza, si potrebbe creare quel tipo di legame particolare di cui parlavo prima.
A cosa stai lavorando al momento?
Al nuovo Distorsonic. Sto scrivendo delle cose nuove, perché le idee le devi prendere quando ti arrivano, ed è probabile che entrerò in studio a registrarle quanto prima.
Grazie.
Grazie a te.
Articolo del
21/08/2012 -
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