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E’ uscito lo scorso 25 settembre il doppio CD La mia generazione, tributo di Marco Ferradini a Herbert Pagani. Pagani, morto prematuramente nel 1988, è uno dei grandi artisti (ingiustamente) dimenticati degli anni Sessanta e Settanta. Nato a Tripoli da genitori italiani di origine ebraica, Herbert Avraham Haggiag Pagani fu un artista cosmopolita stimato sia in Francia che in Italia dove raggiunse la fama prima come speaker radiofonico (indimenticabile il suo programma Fumorama su Radio Montecarlo, antenato di Altro Gradimento di Arbore e Boncompagni) e quindi come paroliere e cantante. Da ricordare, in particolar modo, le sue interpretazioni in italiano di tanti brani della chanson francese (le migliori mai realizzate in Italia), i 45 giri della fine degli anni Sessanta (alcuni dei quali di grande successo, musicati da talenti da lui scoperti quali Edoardo Bennato e Ivan Graziani) e LP storici quali L’amicizia del 1969, Megalopolis del 1973 e Palcoscenico del 1979, tutti da anni in attesa di una sacrosanta ristampa. Pagani era anche pittore e scultore ma, soprattutto, un poeta e uno dei migliori autori di liriche che la canzone italiana abbia conosciuto.
L’album di Ferradini (parte di un ampio progetto che prevede anche un libro di testimonianze e uno spettacolo teatrale) è quindi un’uscita importante, che si propone di far conoscere Herbert Pagani a una nuova generazione – e di rinfrescare la memoria alla “vecchia” – riproponendo in nuove raffinate versioni brani “classici” del repertorio dell’italo-francese quali Albergo a ore, Teorema, Lombardia, Signori Presidenti e tanti altri. Ne La mia generazione, al fianco di Ferradini duettano: Alberto Fortis, Andrea Mirò, Anna Jencek, Caroline Pagani, Eugenio Finardi, Fabio Concato, Fabio Treves, Federico L'Olandese Volante, Flavio Oreglio, Giovanni Nuti, Legramandi, Lucio Fabbri, Mauro Ermanno Giovanardi, Moni Ovadia, Ron, Shel Shapiro, Simon Luca, Syria.
Un’operazione, insomma, decisamente meritoria e che si propone fin d’ora tra le uscite italiane più importanti dell’anno. Per questo motivo ho voluto incontrare Marco Ferradini – che grandi e piccoli, senza distinzioni, conoscono ovviamente per via di Teorema – che mi ha fornito ulteriori dettagli sulla genesi de La mia generazione.
Della tua collaborazione con Herbert Pagani, oggi si ricorda soprattutto “Teorema” del 1981, diventato un “evergreen” del pop tricolore. Ma tu Pagani come e quando l’hai conosciuto?
L’antefatto è che io lavoravo in sala d’incisione come vocalist e lui faceva il dj a Radio Montecarlo. E quindi ci incontrammo a Milano in sala d’incisione (parliamo del 1977-78). Mi ricordo che in sala d’incisione vidi questo personaggio coloratissimo, con questa barba, questi capelli ricci: sembrava quasi un principe russo dell’Ottocento. Molto colorato, molto entusiasta, molto vivace, sempre allegro... Insomma: un personaggio che dentro aveva una specie di pila atomica. Era uno di quelli che non si fermavano mai, ed era in continua creazione, sempre molto attivo. E l’aspetto esteriore era esattamente quello che era interiormente. Quello che prometteva manteneva. Così è stato il nostro primo incontro. Poi sono passati alcuni anni e il mio produttore di allora divenne anche il suo produttore. Parlo di Sandro Colombini, che è stato il produttore di Bennato, di Lucio Dalla, di Ron, e tuttora è il produttore di Venditti. Colombini ci mise assieme, ci fece conoscere e ci disse: “be’, provate a collaborare insieme”. Io scrivevo musiche, non scrivevo ancora testi. E lui invece, Herbert Pagani, era uno che scriveva dei testi bellissimi. E cominciammo a lavorare insieme. Ci trovavamo nella periferia milanese, in Piazza Tirana dove lui abitava, e lì cominciammo i nostri incontri che duravano anche di notte, nel senso che continuavamo ad andare avanti a lavorare come dei matti, presi da questo fervore... Perché poi erano quegli anni pieni di vitalità, Milano era piena di fermento. Per un giovane era una pacchia.
Qui stiamo già parlando degli anni Ottanta.
Sì, gli anni Ottanta, perché prima erano anni di disordine politici. Però sotto sotto c’era anche questo grosso fermento musicale, questa voglia di creare. E una canzone che io ho scritto per questo album, una canzone non edita, è stata proprio dedicata a questi incontri. Si chiama Stelle degli oroscopi e parlo proprio di queste notti passate cercando di comporre delle musiche... molto spesso scorati perché non riusciva a venir fuori niente, poi alla fine ripagati perché veniva fuori una melodia e veniva fuori un bel testo.
E’ da questi incontri che scaturirono le canzoni del tuo Q-Disc (un disco di 4 canzoni) “Schiavo senza catene” del 1981, quello che conteneva “Teorema”. Poi cosa accadde?
Da lì poi la nostra collaborazione è andata avanti per parecchio tempo, anche lavorando in sala d’incisione perché lui faceva jingle pubblicitari... Ci si trovava, insomma. Però poi la cosa si è interrotta perché io ho preso la mia strada, lui ha preso la sua strada, lui ha smesso di fare canzoni, io ho iniziato a scrivere da solo i miei testi... E poi ci siamo ritrovati nell’88 prima che lui scomparisse – è morto a 44 anni di leucemia fulminante. E’ stato uno shock per tutti perché è stata una grossa perdita, non solo per la musica ma per tutta la cultura italiana, perché lui non era solamente un cantante. Quella era una piccola parte della sua creatività. Lui sapeva disegnare, scriveva, dipingeva, era uno scultore... Era un poliedrico creatore di comunicazione. Era un grande, veramente un grande. Io che l’ho conosciuto bene posso dire che rispetto a tanti altri artisti, lui era proprio il massimo. Gli altri purtroppo impallidiscono. Allora io mi sono anche posto una domanda: come mai un personaggio di questo calibro è stato dimenticato?
Il suo momento di massima fama, comunque, coincise con la seconda metà degli anni Sessanta. Quando l’hai incontrato tu, verso la fine degli anni Settanta, era già un po’ uscito dal grande giro musicale, perlomeno in Italia.
Sì, è verissimo. Questo è dovuto probabilmente a tante cose che io non so. Lui è stato un po’ allontanato dalla televisione... Anche perché era un tipo con un carattere forte, cioè ti diceva in faccia quello che pensava. E in questo mondo di compromessi qualche volta è sconveniente farlo.
Andò in Francia per un periodo. Ci fu il progetto “Metropolis” nel 1973...
Metropolis è stata una cosa avveniristica. Lui è andato in Francia con questo progetto che era una specie di musical sul futuro dell’umanità. L’umanità che perde completamente la sua energia, che non ha più fonti energetiche e tutto crolla. E quindi questo mondo è una specie di antenato di Bladerunner. Lui si era costruito questo spettacolo dedicato a questa metropoli in completo disfacimento. Era un messaggio essenzialmente ecologista, perché lui era un ecologista convinto, prima ancora che se ne parlasse. Lui diceva che il mondo era crollato, cioè che gli interessi dei potenti ecc ecc., avevano sfruttato talmente tanto il mondo, che il mondo non riusciva più a sfamarsi, non riusciva più a stare in piedi. Pensa te la genialità di quest’uomo, cos’aveva in testa già negli anni Settanta...!
I testi di Pagani, in particolare, sono sempre stati di un livello superiore.
Quando io ho letto i suoi testi, ho detto: “Cazzo, voglio scrivere io così!”. Io l’ho visto all’opera, davanti a me. Io con la chitarra strimpellavo una melodia, m’inventavo una melodia, e lui si inventava ‘sto testo. Ma non un testo qualsiasi, banale. Una roba che, ragazzi, piena di significati! Era secondo me geniale. E quando hai queste persone davanti, impari veramente molto. Ecco, quella è stata una vera scuola. L’unica scuola che ho fatto è stata quella.
Ed è per questo che hai iniziato ad assemblare questo tributo che trovo, fra l’altro, molto rispettoso degli originali di Pagani. E mi sembra importante il fatto che tu abbia coinvolto nel progetto persone legate a vario titolo con Herbert, come Caroline Pagani (sorella, oggi attrice teatrale) e Anna Jancek.
Sì, Anna Jancek era una amica-collaboratrice, con la quale Herbert ha scritto uno dei primi pezzi che ha cantato in Italia. Lei è stata molto importante per la realizzazione di questo progetto, ha subito detto: “Bello, finalmente una persona che si interessa di Herbert, che vuole prendere in mano il materiale e dargli una nuova vita... Allora facciamolo insieme!”. Lei è stata veramente fondamentale, Anna. Tutte le persone che collaboravano con Herbert io le ho contattate perché fonti di aneddoti e di storia.
Si tratta in tutto di 21 brani. Com’è avvenuta la lavorazione?
Per me fare questo doppio CD è stato un grande divertimento. Cioè: ho passato due anni faticando, però su del materiale veramente forte con dei testi bellissimi. E ho realizzato questo album insieme a Jose Orlando Luciano, un arrangiatore e carissimo amico. Lui è argentino, suona la fisarmonica e il pianoforte. Ci siamo chiusi in sala e abbiamo realizzato dei provini (che poi sono diventati il disco) completamente acustici: pianoforte, fisarmonica, chitarra, mandolino e quartetto d’archi. Tutto l’album ha questo sapore. Non c’è batteria, non c’è basso. E’ un album acustico, però suonato nel modo ferradiniano, se vogliamo. Ma poi i testi sono talmente belli... Io trovo che molto spesso con i testi nella musica italiana, se tu ci metti il basso, batteria, e tutti gli strumenti, e riempi questo “giardino” di strumenti, alla fine non viene fuori il “fiore” che è in te. Io voglio dare espressività al canto e alle parole. Per me quelle sono le cose fondamentali. Il vestito che ho dato a questo album non è attuale. Di fatti tutti i giornalisti che lo hanno ascoltato hanno detto che è bellissimo. Non lo so, io l’ho fatto spontaneamente, con grande passione, ed evidentemente fuoriesce questo contenuto.
Dovrebbe scaturire da questo progetto uno spettacolo musical-teatrale. Che cosa intendi fare?
L’abbiamo già sperimentato due volte ed è stato molto bello, perché le canzoni di Herbert sono delle storie, e sono praticamente la “sua” storia. E io ho messo insieme i brani che lui ha cantato e che si è fatto scrivere da altri, e quelli che abbiamo scritto insieme (Teorema, Weekend, Bicicletta, Un letto in riva al mare, Fratello mio) e formano questo spettacolo, formano questa storia. Io racconto Herbert Pagani tramite le sue canzoni. Ed è bellissimo perché racconto una storia vera (che ho vissuto in parte anch’io) che serve a far ricordare... ma anche a far capire la bellezza di quell’arte e di come si scriveva la musica quella generazione. Di fatti lo spettacolo si chiama La mia generazione proprio perché in quell’epoca particolare (che secondo me non tornerà più) si scriveva in un certo modo e si ascoltava la musica in un certo modo. C’era un certo modo di rapportarsi e di stare assieme. E io semplicemente voglio essere testimonianza, grazie a Herbert, di quel periodo.
“Teorema” è stato un grande successo popolare, il tuo più grande. Ma per tanti versi, per te non è stato anche un po’ una fregatura? In fondo oggi se uno pensa a Marco Ferradini, gli viene automaticamente in mente (solo) “Teorema”.
Hai ragione, ma quando uno sconosciuto ottiene un successo simile si traccia un solco che dopo è difficile copiare ed eguagliare. Però, sai, è meglio avere questi handicap che non riuscire a fare niente. O a essere ricordati per una cretinata. Io almeno sono ricordato per una cosa sostanziosa.
La cosa strana è che si iniziò a sentire parecchio tempo dopo l’uscita del disco...
Avevo realizzato un album [il Q-Disc del 1981 “Schiavo senza catene”, n.d.a] che era un piccolo concept dove raccontavo una storia vera: io che ero stato abbandonato dalla mia donna e anche Herbert dalla sua, e decidiamo di andare in montagna a fare un weekend. Un weekend in cui parliamo e discutiamo di donne. Schiavo senza catene racconta questa storia vera in quattro canzoni: Schiavo senza catene, Weekend, Teorema e Questa sera (che però non era scritta da Herbert). E cos’è successo? Che noi, quando siamo usciti con questo album, abbiamo puntato su Schiavo senza catene. Una canzone molto raffinata. E Teorema l’abbiamo un po’ tenuta, forse ci sembrava che strizzasse un po’ troppo l’occhiolino al grande pubblico. C’era un atteggiamento un po’ snob da parte nostra, non so come dire. E invece, quando il Q Disc uscì in primavera e feci il Festivalbar, andò così così... benino ma non successe niente. Arrivato alla fine dell’anno andai a Roma a fare una trasmissione che era Domenica In con Pippo Baudo, dove lui all’interno della trasmissione aveva uno spazio di un minuto per presentare un cantautore. Allora c’era una specie di gara: si faceva fare un minuto a me, un minuto a un altro cantautore, e chi vinceva faceva due minuti. Una roba drammatica veramente. E alla fine io non vinsi, perché vinse un altro cantautore, e io tornai a Milano veramente disperato da questo smacco. E però arrivò improvvisamente il successo grosso. Sette-otto mesi dopo l’uscita del disco.
Il brano poi esplose definitivamente grazie alle radio private.
Le radio private sono state fondamentali, perché sono state loro che l’hanno scoperto. Hanno fatto, cioè, quello che non si fa più adesso. Adesso le radio private cosa fanno? Non gliene frega niente. Secondo quello che gli viene detto fanno le playlist. Una volta i dj ascoltavano i dischi e avevano potere su quello che mandavano in onda. Adesso sono delle macchine. Mi dispiace per loro ma è la verità.
Articolo del
05/11/2012 -
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