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(segue dalla 3a Parte)
Per un po’ Bowie decide di darsi alla macchia. E quando – quasi due anni dopo – riemerge dal sabbatico, trova intorno a sé una scena musicale che è sensibilmente mutata. Nel 1989 la grande novità è rappresentata dall’hip-hop degli afroamericani, mentre su un piano più puramente rock le follie e i colori della new wave sono stati soppiantati dai fragori del noise, sia nella versione più artistica e cerebrale dei Sonic Youth, dei Swans e dei Big Black di Steve Albini, che in quella più fruibile e melodica suonata da college bands quali Jesus & Mary Chain, Dinosaur Jr e Pixies. Proprio i bostoniani Pixies e il loro stile “quiet/loud” (che di lì a poco ispirerà i Nirvana e parte del movimento grunge) sono la nuova grande passione di David Bowie, che su queste basi decide di buttare al mare il passato e di assemblare una band di cui vuol essere (democraticamente) considerato solo uno dei membri. Nascono i Tin Machine, con Bowie alla voce e chitarra ritmica, il giovane Reeves Gabrels alla chitarra solista, e gli esperti fratelli Tony e Hunt Sales (già collaboratori di Iggy Pop) rispettivamente a basso e batteria. Quando nel maggio 1989 esce il primo disco del gruppo, le reazioni sono discordanti. C’è chi apprezza l’ennesima virata spiazzante di un artista sempre camaleontico, ma in larga maggioranza critica e pubblico restano sconcertati dalla virulenza di un album punkeggiante e a tratti anche heavy in cui il talento compositivo di Bowie risulta soffocato da inutili quanto forzate distorsioni chitarristiche. I Can’t Read, brano che fa pensare ai Talking Heads, è comunque sublime, ma bisognerà attendere ben otto anni per ascoltarne la meno urticante (e migliore) versione, che Bowie realizzerà con altri musicisti per la colonna sonora del film La tempesta di ghiaccio di Ang Lee. Non convince poi l’inedita visione di Bowie rockettaro con barba incolta e chitarra spianata. Molti vivono i Tin Machine come un tradimento da parte dell’artista che per vent’anni era stato per tanti versi l’anti-rock e per tutti gli anni ’80 l’anti-Springsteen. Tanto (falsamente?) genuino e “uomo del popolo” il Boss, quanto artificioso ed elitario Bowie, i due erano sembrati per lungo tempo due poli opposti destinati a non incontrarsi mai. Ed è per questo che desta impressione scoprire, con la pubblicazione a fine anno del box-set Sound + Vision (vera cornucopia di inediti bowiani), che Bowie nel periodo di Diamond Dogs aveva inciso una cover di It’s Hard To Be A Saint In The City dal primo album di Springsteen. E’ una delle più belle canzoni del rocker del New Jersey e - in assoluto - è anche una delle più magistrali interpretazioni di sempre di Bowie, che impersona alla perfezione il guascone perdente delle liriche portando il brano letteralmente su un altro pianeta.
Proprio per promuovere il box-set e le parallele ristampe del proprio catalogo su Ryko Records, nel 1990 Bowie accantona temporaneamente i Tin Machine per fare un nuovo giro mondiale da solista, il “Sound + Vision Tour” in cui – annuncia - eseguirà per l’ultima volta le più celebri canzoni del suo repertorio. In teoria dovrebbe essere qualcosa di stupefacente, ma la realtà – constatata anche dal pubblico italiano quando il tour fa tappa da noi in aprile – rivela che la magia di un tempo si è in parte dissolta. I concerti del “Sound + Vision Tour” - nonostante un repertorio impressionante e un capobanda del livello e del talento di Adrian Belew – risultano freddi e meccanici, con Bowie che per la prima volta da molti anni rinuncia a qualsiasi ambizione di teatralità per restarsene impalato con la chitarra in mano davanti al microfono come un lead singer qualsiasi. Insomma: non il suo miglior spettacolo, ma di soldi ne fa – assai - e i sold-out si susseguono uno dopo l’altro Paese dopo Paese. E così Bowie può tornare alla sua occupazione principale, gli sciagurati Tin Machine, con cui incide un secondo album (II, 1991) - se possibile più heavy ed anonimo del primo - e un dimenticabile live (Oy Vey Baby, 1992) che in seguito rinnegherà entrambi, decretandone l’esclusione dalla serie di ristampe rimasterizzate della propria opera omnia stampate dalla EMI nel 1999.
Sono gli anni del grunge, del crossover e del trionfo della musica alternative, e Bowie, ormai privo di quell’alone di invincibilità che lo aveva a lungo accompagnato, appare come una figura dal fulgido passato ma dall’incerto presente; una di quelle anziane star coccolate dai mass-media più per le vicende personali (il matrimonio con la ex-modella Iman Abdulmajid a Firenze nel ’92, il lancio dei cosiddetti “Bowie-bonds” per autofinanziarsi, la nascita della figlia Alexandria nel 2000, le foto scattate con la carrozzina al Central Park di New York dove ora risiede e ha il proprio centro d’interessi) che per le recenti imprese in campo musicale. Eppure Bowie continua a provarci, indomito.
Bowie (finalmente) scarica i Tin Machine e si rivolge ai produttori dei suoi giorni di gloria. Il primo a essere contattato è Nile Rodgers, con cui collabora facendo uscire nell’aprile ‘93 Black Tie White Noise ispirato dal matrimonio con Iman. E’ un album dal sound superbo e modernissimo, black con alcune tinteggiature jazzate (vedi l’assolo di tromba di Lester Bowie degli Art Ensemble Of Chicago nel brano Looking For Lester) ma che rivela qualche blocco compositivo dell’autore, sottolineato dall’elevato numero di cover versions presenti. Forse le canzoni migliori Bowie le riserva alla colonna sonora del film Buddha Of Suburbia tratto dal libro di Hanif Kureishi, che esce a fine anno passando un po’ sotto silenzio e che denota anche un ritorno alla sperimentazione d’antan: “the great lost Bowie album”, lo chiamerà in seguito una parte della critica, probabilmente (anzi sicuramente) esagerando un po'.
Intanto c’è un mini-Bowie revival in atto: i Nirvana, nuovi divi del rock alternative, nel novembre 1994 pubblicano il loro album Unplugged comprendente una cover di The Man Who Sold The World, che diventa un inno della grunge generation; e in Inghilterra nello stesso periodo esplodono i Suede, che rispolverano le tipiche sonorità glam degli Spiders From Mars. Quando l’anno seguente si diffonde la voce che Bowie è tornato a collaborare con Brian Eno, le aspettative sono grandi. Nel prodotto finale del rinnovato connubio, il concept Outside.1 (uscito a settembre 1995) Bowie torna a cimentarsi con l’elettronica e con una sperimentazione dal taglio industrial in un tentativo non sempre convincente – e anche, in parte, insincero – di restare rilevante e farsi amare (anche) dalle nuove generazioni. Brillanti canzoni - come Hallo Spaceboy - Bowie è ancora capace di scriverle. Ma vengono puntualmente massacrate dalla sua smania di restare sonicamente all’avanguardia, tendenza peraltro esasperata dal suo principale collaboratore di questo periodo: quel Reeves Gabrels unico superstite dal naufragio Tin Machine, fermamente convinto che sia cosa buona e giusta lanciare il guanto di sfida agli emergenti adrenalinici Nine Inch Nails e Smashing Pumpkins e a tutta la truppa della musica techno. L’”Outside Tour” riporta Bowie in Italia, ma stavolta non sono rose e fiori: il 9 luglio 1996 la data allo Stadio Olimpico di Roma si rivela un flop, sia per il deludente riscontro al botteghino (appena 5.000 spettatori con larghi spazi vuoti) sia per il comportamento del cantante che dopo un’ora scarsa di concerto abbandona sdegnato la scena, decurtando di mezz’ora la prevista scaletta. E i fischi, neanche a dirlo, si sprecano.
Grazie (anche) al nefasto Gabrels, il successivo disco di Bowie lascia tutti interdetti: Earthling, prodotto dal tastierista dance Mark Plati e uscito nel febbraio 1997 – oltre ad avere una delle più orribili copertine della storia della musica – vede Bowie alle prese con il drum’n’bass e con la techno, oltre che con l’ormai solito sound alternative a lui poco consono. L’impressione – netta – è che Bowie abbia definitivamente smesso i panni dell’innovatore e si limiti a seguire la scia. Quanto di meno bowiano si possa fare al mondo.
Ma il fondo Bowie lo tocca nella primavera del 1998, quando si reca in Italia, in Garfagnana, per recitare la parte di un pistolero psicopatico nella pellicola Il mio West di Giovanni Veronesi a fianco del comico Leonardo Pieraccioni (!) e dell’esordiente attrice Alessia Marcuzzi (!!). Per quale motivo si faccia coinvolgere in un siffatto progetto è a tutt’oggi incomprensibile: forse unicamente per concedersi una vacanza in Toscana interamente spesata. Infatti, come prevedibile, neanche la presenza di un dignitoso Harvey Keitel nei panni del padre di Pieraccioni riesce a salvare dal naufragio quello che è uno dei peggiori spaghetti-western mai concepiti e realizzati, paesano e a tratti anche volgare, e con una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti. Da Il mio West, cine-panettone del Natale 1998, la reputazione di Bowie (mai credibile nella parte del villain per colpe da dividere anche con gli autori) esce in mille pezzi, con colui che 20 anni prima era l’algido, irraggiungibile Duca Bianco ridotto alla stregua di una macchietta. Buon per lui che il film non varca i confini italici (anche se ne esiste una versione inglese in DVD dal titolo The Gunslinger’s Revenge, di non facile reperibilità): con l’impietosa critica anglosassone sarebbero dolori, certo più di quanto siano stati nel 1986 dopo la sua stravagante interpretazione di Jareth re dei Goblin nella storia per bambini Labyrynth.
All’alba del 1999, Bowie appare in difficoltà, avendo peraltro dilapidato tutto l'immenso status acquisito come padrino, prima del glam negli anni '70 e poi di tutta la variegata scena post-punk negli '80. E invece “it’s not dark yet”, per prendere in prestito il titolo di una canzone di uno degli artisti che più aveva ispirato Bowie all’inizio della carriera, Bob Dylan.
(continua nella 5a parte)
Articolo del
14/01/2013 -
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