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Lou Reed ha scritto le pagine più infuocate del Rock d’avanguardia americano della fine degli anni Sessanta, prima con i Velvet Underground di Andy Warhol, insieme a John Cale, Sterling Morrison, Maureen Tucker e Nico, poi nel corso della sua lunga carriera solista, che ci ha regalato dischi straordinari come “Transformer”, “Berlin” e come “New York”. Un rock elettrico e nervoso che nasceva dalle viscere e che dava spazio al lato più oscuro e selvaggio, senza freni inibitori, dell’esistenza. L’intervista che sono andato a recuperare risale proprio ai tempi dell’uscita di quel disco. Un momento di rinascita per Lou Reed, reduce dalle critiche piovutegli addosso dopo la pubblicazione di un album un pò debole come “Mistrial”, ma sempre pronto a rialzare la testa, a conficcare le unghie dentro i tessuti morbidi ed ingannevoli delle convenzioni, delle abitudini, di uno “status quo” che non faceva altro che nascondere i problemi. Lou Reed non ha mai amato confrontarsi con la stampa, non gli sono mai piaciuti i critici musicali specializzati, quindi Barbara e Gianfranco della Wea, casa discografica che rappresentava in Italia la Warner, mi hanno “catechizzato” prima dell’incontro: non fare domande sui Velvet Underground, nessuna domanda su Andy Warhol e meno che mai su Nico. Insomma, dimentica il suo passato, parlate solo del nuovo disco. Benissimo. Non mi sono perso d’animo ed è andata così.
Intervista rilasciata a Roma negli studi della Warner poco dopo la pubblicazione dell’album “New York” - Anno 1989
Come nasce l’idea di registrare un album interamente dedicato a New York?
LR: Erano anni che volevo fare un disco del genere. Non credo di essere mai riuscito ad esprimere con tanta forza i miei concetti. Ci ho pensato sopra tre mesi e ne ho impiegati altrettanti per comporre i brani che hanno dato vita all’album. “New York” è uscito fuori lentamente, ma ogni singolo brano contiene sia nella musica che nei testi la rabbia che lo ha ispirato.
Su “Romeo Had Juliet” descrivi una società marcia in cui regna l’indifferenza assoluta, nella quale esiste solo il tornaconto individuale. Sembra che la civiltà occidentale sia ormai in decomposizione. E’ questo il vero filo conduttore del disco?
LR: Parlo del decadimento dell’ambiente urbano a New York, ma questa città è simile a qualsiasi altra grande metropoli del mondo occidentale.
Su “Last Great American Whale” descrivi una balena che si vendica sull’Uomo, una sorta di rilettura del “Moby Dick” di Melville, e causa un incredibile maremoto che affoga i bianchi e lascia in vita soltanto i rossi…
LR: L’idea mi è venuta un po’ attraverso il libro di Melville, è vero, ma anche da un mito diffuso presso gli Indiani d’America, secondo il quale un’enorme balena di colore nero e con dei riflessi argentati li libererà dalle prigioni in cui sono confinati e renderà loro giustizia. Quelle prigioni sono le riserve dei pellerossa in U.S.A.
Leggendo però attentamente i testi della canzone si nota anche una denuncia, riguardo il più totale disinteresse degli americani nei confronti dei problemi dell’inquinamento..
LR: Sì, è vero. Agli americani non gliene importa niente né della terra né del mare. Non si curano della bellezza della Natura: pisciano nei fiumi, scaricano acidi nei torrenti e poi si lamentano perché in certe zone non possono fare il bagno. Non hanno una coscienza individuale, l’unico loro credo risiede nel mito della maggioranza, che rende tutti i comportamenti leciti ed uniformi.
I testi di “New York” sono molto crudi e diretti, a volte diventano anche feroci e violenti. E’ per questo che non hanno consentito alla WEA la traduzione delle liriche in italiano?
LR: Ciò che ho scritto nelle mie canzoni è quello che accade veramente. Non me la sento di aggiungere altro. Anche delle stazioni radiofoniche americane si sono rifiutate di trasmettere alcuni brani, tipo “Dirty Boulevard”, perché si parla di ragazze che adescano dei poliziotti oppure come “Halloween Parade” dove descrivo una ragazza di SoHo che indossa una T-shirt con su scritto ”io faccio pompini”. Ma succede davvero.
Sull’album parli per ben due volte della presenza di una “Statue of Bigotry” (statua del bigottismo). Puoi chiarire meglio a cosa ti riferisci?
LR: No, non posso. E’ vero, l’ho scritto, ma non mi va di ribadire cose che ho già espresso nelle mie canzoni.
Non è per caso che la vecchia Statue of Liberty si è trasformata in una Statue of Bigotry?
LR: Può essere una corretta interpretazione.
Ha ancora un senso parlare di New York e più in generale dell’America come la Terra delle Opportunità che si credeva fosse al’inizio del secolo?
LR: No, non più sono diventate la Terra dell’Iniquità delle disuguaglianza. Il sistema di vita che è in atto non soltanto non aiuta le famiglie più povere, i diseredati, ma contribuisce ad umiliarli ulteriormente.
Su “Good Evening Mr Valdheim” e su “Busload Of Faith” compaiono aspre critiche verso la Chiesa cattolica, che si allea troppo spesso con ogni forma di potere costituito, e nei confronti della religione ufficiale. Cosa ne pensi di Papa Giovanni Paolo II?
LR: Niente. Dico solo che è una persona poco sensibile.
Poi però verso la fine dell’album su “Dime Store Mistery” scrivi testualmente “ Vorrei non aver buttato via così tanto tempo nelle cose umane/ e così poco in quelle divine”…
LR: Devo dire che hai studiato attentamente il disco. Beh, sono le parole più belle che abbia mai scritto fin qui. Si riferiscono al mio bisogno di spiritualità, la religione - vista come dottrina - non c’entra più.
Penso che un brano come “There’s No Time” sia forse quello più rappresentativo - sia sotto il profilo musicale che delle liriche - di un disco di denuncia come “New York”. Basta con le celebrazioni, con le strette di mano, con i giri di parole, basta con la fuga in direzione di alcol e droga. Non c’è più tempo, a questo punto bisogna agire
LR: E’ così. Si tratta di una canzone dura, ma deve essere letta in senso positivo. Quando vedi troppa gente che muore di fame per strada, tutto il resto non conta più.
Sei anche molto critico nei confronti del “music biz” che detta legge anche in campo artistico, nel tuo lavoro..
LR: Sì, ma fortunatamente io non vendo molti dischi (sorride) quindi la cosa non mi tocca più di tanto. Però devo dire che il mondo della musica in generale è diventato come una grande fabbrica che produce miti facili, che portano in cassa molti dollari, ma che sono incredibilmente poveri di contenuto, direi assolutamente vuoti.
Recentemente ho letto che ti sei impegnato personalmente per migliorare le condizioni di questa città..
LR: E’ vero. Ho organizzato un concerto con il mio amico Paul Simon per raccogliere fondi che contribuissero sia alla ricerca per sconfiggere l’AIDS sia ad un centro di ricovero per quanti hanno già contratto la malattia.
Quale pensi che sia il modo migliore per apprezzare un album come “New York”?
LR: Vorrei che fosse visto come un libro o come un film, che abbia un tema portante, un obiettivo preciso. Ma anche come un disco con delle sonorità fisiche, naturali, che sono proprie dell’elettricità dell’ambiente. Un qualcosa che soltanto il “pick up” di una chitarra Fender è in grado di comunicare. Niente trucchi, niente sovra incisioni, solo il vibrare della chitarra e il racconto attraverso la mia voce.
Intervista rilasciata la mattina del concerto organizzato dai sindacati a Piazza San Giovanni, in occasione della celebrazione del 1° Maggio - Anno 1994 Lucido e determinato, disposto al confronto più di quanto potevamo aspettarci, mister Louis Firbanks, di professione musicista, in arte Lou Reed spiega i motivi che lo hanno convinto a partecipare al concerto del 1° Maggio, in Piazza San Giovanni a Roma. LR: Mi è stato chiesto e mi è sembrato giusto partecipare, considerata poi l’attuale situazione politica italiana.
Che cosa ne pensi di quanto sta succedendo in Italia?
LR: Non vivo qui e quindi non sono la persona più qualificata a parlarne. Però non posso fare a meno di sottolineare l’assurdità di affidare il governo di una nazione ad un imprenditore che possiede sia testate giornalistiche che televisioni. Ci dovrebbero essere delle leggi che vietino una possibilità del genere. Ma in effetti sono io a dover porre delle domande: come avete fatto a combinare tutto questo?
Avevi avuto dei segnali del cambiamento del clima politico nel nostro Paese?
LR: Sì, è stato qualche anno fa, nel 1989 dopo aver pubblicato “New York”. Avevo deciso di far tradurre i testi in tutte le lingue. Soltanto dall’Italia mi è arrivato un divieto. Che riguardava in particolare sei canzoni inserite in quel disco. Vedi, a volte si parla di fascismo in maniera astratta o lo si definisce soltanto come una mancanza di libertà di espressione. Ma non è soltanto questo, è di certo più pericolosa l’intolleranza, che apre la strada all’individualismo e al razzismo.
Come è andata a finire la storia delle traduzione dei testi delle canzoni?
LR: Non se ne è fatto più niente. Ho lasciato tutto in inglese. Ma ancora non riesco a capire il perché di quel rifiuto. Forse dipendeva dal testo di un brano come “Busload Of Faith”, dove invitavo la gente a non dipendere da niente e da nessuno, né da un Dio, né da un Capo di governo.
Il rock and roll e la musica, in generale, possono ancora cambiare il mondo?
LR: Recentemente ho incontrato Havel, il presidente della Cecoslovacchia e abbiamo parlato proprio di questo. La musica non può cambiare il mondo, ma può influire sul comportamento delle singole persone che poi agiscono nel mondo e prendono decisioni che contano.
Cosa suggerisci a quanti vogliono ancora cambiare le cose?
LR: Non perdete più tempo in chiacchiere, perché mentre voi discutete sul da farsi, mentre vi dilungate in lunghi dibattiti intellettuali, i vostri avversari trovano subito un accordo fra loro. Sanno benissimo quello che devono fare. Non c’è bisogno di idee nuove quando si deve soltanto gestire, o spartire, un potere.
Cosa suonerai questa sera?
LR: Vorrei che fosse una sorpresa, quindi ti anticipo soltanto che sarà un “set” acustico che conterrà brani del passato come “Satellite Of Love” e “Sweet Jane” accanto a canzoni più recenti come “Dirty Boulevbard” e “Busload Of Faith”, il brano a cui mi riferivo prima. E’ un’occasione troppo grande per mettere in chiaro alcune cose e non voglio lasciarmela sfuggire, davanti a migliaia di persone.
A che cosa stai lavorando in questo periodo?
LR: Sto registrando una nuova versione di “September Song” di Kurt Veil e contemporaneamente sto lavorando ad un nuovo album. Ma ci vorrà del tempo prima che sia finito. Inoltre, come chitarrista, sto collaborando con Laurie Anderson e anche con gli Smithereens.
Ti senti stretto nei panni di una rockstar?
LR: No, perché non mi sono mai ritenuto tale. Non sono una star del rock and roll, e devo dirti che non mi sento né un eroe negativo, né tanto meno un dannato. Però ti confesso che nel profondo io adoro essere confinato in queste categorie. La quantità di intelligenza sprecata per attribuire delle etichette, mi sorprende sempre (sorride)
Il Rock è ancora una forma di arte?
LR: Fin tanto che continuerà a significare qualcosa nella vita delle persone, credo proprio di sì
Ottobre 2013
Il 27 Ottobre 2013 Lou Reed muore a causa di alcuni tumori sopraggiunti al trapianto di fegato che aveva effettuato nella primavera dello stesso anno. Se ne è andato a 71 anni, a casa sua, con accanto Laurie Anderson, l’artista di musica elettronica e sperimentale che aveva sposato nel 2008 . Era consapevole che il suo viaggio stava finendo, era tranquillo. Infatti era proprio lui - lucido come sempre - a consolare Laurie nelle ultime ore. Avrebbe voluto realizzare altre cose, si stava impegnando in altri progetti. Ci lascia invece come testamento un album straordinario e potente come “Lulu”, realizzato insieme ai Metallica, come colonna sonora dell’opera teatrale omonima di Bob Wilson.
Questo il saluto di Iggy Pop, che insieme a Lou Reed e a David Bowie aveva conosciuto la stagione straordinaria del “glam rock” e che ha sempre considerato un disco come “Rock And Rol Heart”, di Lou Reed, uno degli album più influenti della sua vita. «Ti volevo bene, Lou. L’ho sempre ammirato molto. Era una persona vera e sincera. Si è sempre comportato bene nei miei confronti. Il suo talento era un qualcosa di straordinario e io ho sempre tratto un immenso piacere e un grande beneficio sia dalla sua musica che dai suoi consigli. Ha avuto una vita fantastica, degna di essere vissuta, e sapevo che avrebbe voluto stare al mondo ancora più a lungo. Lui e sua moglie Laurie erano davvero una bella coppia». Iggy
Articolo del
02/11/2013 -
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