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Sono le 19 ed Albert Hammond Jr ancora non si vede… La sua tour manager mi scrive che sono in ritardo per via del traffico, ma non è un problema, perché almeno sono già dentro al Circolo e ad aspettare con me ci sono i miei amici Ricky e Tony di Cornerstone, un bel programma radiofonico che va in onda su Radio Ies, insieme intervisteremo Albert.
Si parla di Strokes, di come abbiano cambiato la vita a tanti e che ridendo e scherzando siano stati probabilmente una delle band più influenti degli anni 2000. La pensano come noi anche i fan già appostati all’entrata, tra cui si mette in particolare evidenza un commosso e commovente Alessandro della band Indie Boys Are For Hot Girls. Superata la prima session di foto e autografi Albert è a nostra disposizione. Siamo gli unici a Roma (ma credo anche in Italia) ad avere l’opportunità di intervistarlo vis-à-vis, ci prepariamo ad accoglierlo nel ristorante del Circolo degli Artisti, adiacente alla biglietteria. Hammond arriva con la chitarra in mano, è lei, la Stratocaster bianca con la tracolla rossa con il fulmine, non l’ha mai cambiata fin dai tempi di Is This It. Ok, non sarà la Stratocaster di Hendrix, ma per noi quello è molto più che un semplice pezzo di legno con magneti e corde… Ci presentiamo, lo facciamo accomodare ma prima di iniziare è lui a farci una domanda: “Vi spiace se intanto cambio le corde della chitarra?”
Per mettere subito le mani avanti, in una scala da 0 a 10 quanto odi le domande sugli Strokes quando sei in tour come solista?
Mah, non è una questione di odio. Parlo anche per le domande che mi arrivano su Twitter, la questione è più che altro che non amo ripetere sempre le stesse cose alle stesse domande. Non potrei odiare nulla riguardo gli Strokes, perché sono i miei migliori amici e sono la band con cui ho avuto successo.
C’è qualcosa riguardo la tua carriera da solista che hai sempre voluto dire ma che nessuno ti ha ancora mai chiesto?
Più che una cosa in particolare mi farebbe piacere che per un attimo la gente ed i giornalisti ascoltassero la mia musica senza relazionarla agli Strokes. Alla fine però non ne faccio neanche una questione di vita o di morte, perché comunque mi ritengo una persona fortunata per poter fare quello che faccio.
Hai invece dei nuovi progetti in veste di regista (AHJ ha studiato regia ed ha diretto il video di "Call Me Back" degli Strokes, ndr)?
Mi piacerebbe, è diverso modo di esprimere me stesso e spero di ricimentarmici presto. Ora per uno dei prossimi video su cui lavoreremo da gennaio ho scritto delle cose che verranno sviluppate da altri miei amici.
Hai mai considerato l’idea di fare un concept che unisca musica e film?
Sarebbe molto fico! Certo, serve l’idea giusta e non è facile, ma mi piacerebbe anche solo fare musica per un film. E’ già capitato che dei miei pezzi finissero in colonne sonore, ma mai di scrivere appositamente per un film. Sarebbe davvero eccitante, magari anche facendo qualcosa di strumentale.
Quando scrivi nuova musica fai delle distinzioni su cosa può andare meglio per il tuo progetto solista o per gli Strokes?
No, non faccio questo genere di distinzione. Si tratta di trovare la soluzione migliore per ogni situazione, quindi si propone tutto, poi si tiene e si scarta.
Che musica o artista ti ha influenzato maggiormente durante la scrittura del tuo ultimo EP?
Non c’è stata una vera influenza, o meglio, non mi succede mai di ascoltare qualcosa e di voler rifare qualcosa di simile subito dopo. Un’ispirazione del genere deve entrarti dentro e deve diventare parte di te, solo in quel modo la puoi elaborare e riproporre. Nel caso del mio ultimo EP però c’è stata della musica che più che altro mi ha ispirato mettendomi l’entusiasmo e la voglia di ricominciare a suonare, ad esempio nell’ultimo anno e mezzo ho ascoltato molto i Wipers, R. Stevie Moore, o i Misfits.
Invece riguardo alla scena di New York, c’è qualche nuova band interessante?
Sembrerà assurdo, ma non ho mai saputo di nessuna scena. Ai primi tempi con gli Strokes abbiamo provato a farci degli amici, ma con le altre band non c’era un clima amichevole… Mikey (Hart, ndr), uno dei miei chitarristi ha diversi amici musicisti a Brooklyn, credo che lì ci sia una sorta di “scena”, ad ogni modo io non mi sono mai sentito parte di nessun tipo di scena. I giornali specialmente inventano questo genere di storie, parlano di scene e si immaginano situazioni come quando ruotavano tutti intorno al CBGB’S, non c’è nulla di tutto questo.
Che tipo di partecipazione ha avuto invece Julian Casablancas nel tuo lavoro, oltre a produrlo ha partecipato attivamente suggerendoti qualcosa?
Beh sì, è ovvio. Qualcosa me l’ha suggerita, poi abbiamo valutato cosa potesse andare bene o meno.
Magari qualcosa che virasse verso quel sound più anni 80? Julian sembra quello più proteso verso quel tipo di sonorità...
Lo dici perché Comedown Machine somigliava al suo disco solista?
Beh, sì...
E’ qui che vi sbagliate tutti! Avete tutti questa convinzione, in realtà le sonorità anni 80 non vengono da lui, almeno quando siamo con gli Strokes, siamo cinque persone in una stanza, chi propone una cosa e chi un’altra fino a trovare un punto di accordo, le cose non sono bianche o nere.
Julian sta preparando qualcosa di nuovo da solista invece?
Non ci crederai, ma giuro che non lo so!
Ricordi quale fu il primo disco che ti ha fatto innamorare della musica e che ti ha spinto ad iniziare a suonare?
Il primo disco che ricordo di aver ascoltato credo fosse una compilation natalizia di Alvin & The Chipmunks…! Comunque ricordo che il disco che mi fece sentire qualcosa per la musica come quando ti innamori di una ragazza fu un album di Buddy Holly. E’ stato lui a farmi scattare quel meccanismo in cui dici “Ecco, io voglio fare questo!”
Tuo padre ti ha aiutato in qualche modo nella tua maturazione?
Mio padre mi ha aiutato a diventare un uomo. Lavorava molto sulla sua musica e non ha mai voluto mischiare il padre con il musicista.
Quindi non ti ha mai spronato a suonare...
No, mai. Non ha mai cercato di farmi piacere la musica. Chiaramente è stato contento del fatto che io ce l’abbia fatta con la musica, ma non mi ha mai spinto o forzato… magari da piccolo avrebbe preferito che avessi imparato a suonare il piano…
Ma è vero che in California non piove mai? (Riferimento di Riccardo alla canzone di suo padre Albert Hammond "It Never Rains In Southern California", ndr)
(ride) Beh, c’è quasi sempre bel tempo, ma più che un fattore meteorologico, la canzone ha più un significato metaforico, che ogni tanto le cose brutte succedono, ma poi passano e torna il sereno.
Tra le canzoni che hai scritto, sia da solo che con gli Strokes, ce n’è una che consideri il tuo capolavoro o qualcuna di cui vai particolarmente fiero?
Non ci ho mai pensato in realtà, ma sono stato particolarmente soddisfatto di One Way Trigger nell’ultimo e di Rude Costumer.
Quest’ultima è una domanda un po’ maligna, c’è chi dice che "Comedown Machine" sia stato più che altro un obbligo contrattuale con la RCA al quale avete adempito, ma nulla più, perché poi non lo avete portato neanche in tour, come se non ve ne importasse… E’ vero?
No, non è vero, per noi è stato un album speciale e che ci piace. Sì, è stato il nostro ultimo con la RCA, ma stiamo parlando dell’etichetta con cui usciva Elvis… Non l’abbiamo fatto tanto per farlo. In realtà ci fa ridere che la gente pensi che lo abbiamo fatto male per qualche motivo o che non ci siamo impegnati, perché in realtà non è vero.
Twitter: @MrNickMatt
(Foto di Flavia Di Vincenzo - da sinistra: Albert Hammond Jr, Nicholas Matteucci, Riccardo Carotenuto Jr, Antonio Garofalo)
Articolo del
18/12/2013 -
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