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La prima volta che ho incontrato Francesco Di Bella è stato ad una serata di beneficienza del Brancaleone assieme a Sinigallia e Gatti, e mi ha colpito per la delicatezza e la poesia delle sue canzoni, oltre che all’approccio molto intimo nell’interpretazione. Queste sue caratteristiche ritengo siano il suo biglietto da visita e, insieme ad un ascolto attento del suo disco 'Ballads Cafè' e dei precedenti con i 24 Grana, questi ingredienti hanno acceso in me la curiosità di approfondire la sua conoscenza.
Siamo a dicembre e fa molto freddo. Incontro Francesco Di Bella presso Gli Artigiani - studio di registrazione di Daniele Sinigallia - appena fuori città. L’accoglienza è calorosa ma so già che abbiamo poco tempo perché Francesco e Daniele stanno lavorando alle nuove canzoni. Quindi ci accomodiamo subito in sala regia ed iniziamo questa piacevole chiacchierata dove la mia impressione di avere a che fare con una persona con una spiccata sensibilità è confermata dall’iniziale timidezza di Francesco, apparentemente sorpreso di aver attirato la mia attenzione.
Francesco Di Bella…
Bonne soir…
La storia di Francesco Di Bella nasce con i 24Grana, quindi io partirei da li, chiedendoti di raccontarmi come è iniziata e come si è svolta l’esperienza coi 24Grana che è durata tantissimi anni.
Si, l’esperienza coi 24G è durata anche più dei 18 anni che sono gli anni “discografici” della band. Alcuni di noi avevano iniziato con questo nucleo base già verso la fine degli anni ’80, in un garage, come più o meno hanno fatto tutti, facendo un po’ di pratica con pezzi tra il Punk, Rock’n’roll, la New Wave…insomma le cose che ci piacevano…Talking Heads, Ramones… Mi vengono in mente tutti i gruppi di quel periodo che hanno influenzato tutta la mia generazione, e quindi abbiamo iniziato così. Poi verso la metà degli anni ’90, dopo aver prodotto una serie di demo, e fatto la trafila di tutte le band, siamo approdati a questa piccola casa discografica napoletana che in realtà fa capo ad una grande società di edizioni musicali che è La Canzonetta, edizioni musicali di canzoni napoletane, con la quale lavoro ancora oggi. E i 24G si sono inseriti in quel solco che permetteva alle band di trovare un palco nei centri sociali, nei club alternativi, quindi grazie anche alla rete dei centri sociali e di questi club, abbiamo iniziato a suonare un po’ in tutta Italia forti comunque di avere un buon prodotto discografico da portare in giro. Sono stati anni incredibili, intensi perché abbiamo fatto centinaia di concerti, tanti dischi, abbiamo incrociato e abbracciato tante realtà diverse, veramente dal centro sociale allo studio televisivo, quindi ci siamo formati un po’ in una maniera trasversale se vogliamo. I 24G hanno prodotto perlopiù canzoni in dialetto, perché era mia intenzione riportare quello che era il linguaggio un po’ crudo della strada, oltre al chiaro riferimento alla tradizione musicale napoletana, che chiaramente ti influenza tanto perché ti rendi conto che hai un patrimonio culturale dal quale attingere ed è realmente folk. Con questo poi arriviamo a quello che è il mio discorso attuale, che è quello di un nuovo folk napoletano, o italiano, come lo vogliamo definire, chiaramente miscelato con la canzone d’autore e con tutte le esperienze che ho la possibilità di fare grazie a tutti i musicisti che ho conosciuto in tutta Italia. In particolare qua a Roma sono anni che collaboro e condivido il cammino con Riccardo e Daniele Sinigallia…. Non so se sono stato esaustivo però stiamo parlando di vent’anni di musica quindi si rischia sempre di essere un po’ tediosi per cui preferisco la sintesi… (sorride)
Allora cerchiamo di ripercorrere un po’ per gradi questi venti anni. Lo scenario in cui ti muovevi con i 24G, o perlomeno il cuore dell’attività, erano gli anni ’90, quindi ti chiedo di descrivermi la scena musicale napoletana di quegli anni, che sicuramente era diversa da quella romana…
Guarda, noi siamo stati un gruppo napoletano atipico perché ci siamo sempre mossi tantissimo in tutta la penisola, spesso abbiamo avuto anche la fortuna di suonare all’estero, quindi non ci siamo mai sentiti prettamente una band napoletana, ma un gruppo italiano che chiaramente aveva questa peculiarità di cantare in dialetto ma, ripeto, la giustificazione era più il voler riportare esattamente il linguaggio crudo della strada che riprendere poi la tradizione della canzone napoletana, perché erano anche gli anni in cui influenzati dal punk e dal rap, il napoletano era vissuto più come un vero e proprio slang che come una derivazione di tutto quello che avevamo alle spalle noi come tradizione partenopea. Quindi io scrivevo (scrivo) in napoletano perché mi sembrava più efficace.
Quindi non l’avete mai ritenuto un limite scrivere in napoletano nei confronti di un pubblico che era più vasto, visto che i vostri tour si svolgevano molto al di fuori della Campania…
No questo no, anche perché ho sempre ascoltato musica in tutte le lingue e quindi non penso ci dovesse essere questo tipo di pregiudizio. Penso anche al reggae; noi iniziammo un po’ con questa forma punk e reggae, e sia nel punk e nel reggae i cantanti si esprimevano in linguaggi che non erano prettamente l’inglese: il punk usava spesso il Cockney per quanto riguarda il punk londinese o le inflessioni dialettali delle varie città di provenienza. I giamaicani usano questa specie di Inglese, questo patois, che alla fine è una specie di napoletano rispetto all’Inglese (ride) quindi mi è sempre sembrato giusto andare aldilà di questa cosa.
C’è stata sempre una certa varietà nelle vostre produzioni perché avete aperto concerti a grandi nomi come Ben Harper, Vasco Rossi, ma avete fatto anche musica per teatro per il San Carlo con numerose repliche…
Si, abbiamo sempre abbracciato cause differenti proprio perché il nostro marchio di fabbrica era un po’ l’originalità. Se ci si poteva confrontare con situazioni nuove che potevano dare degli input diversi noi ci siamo sempre mostrati assolutamente idonei …
Ad un certo punto nel 2003 si dice che c’è un cambio, e che si decide di mettere un pochino più di italiano nei testi rispetto al napoletano…
Questa diciamo che è una favola perché in realtà in tutti gli album dei 24G dal primo all’ultimo ci sono sempre stati almeno 2/3 brani in italiano; tu pensa che il primo singolo dei 24G del ’96 che si chiama Loop è un brano completamente in italiano, che dice “mi sublima pensare al moto circolare delle onde”, che è stato il primo videoclip, ed era in italiano. Il secondo album era 'Metaversus', c’erano un paio di brani in italiano, mi pare di ricordare Rappresento e qualche altra cosa, poi non so perché c’è quest’album che si chiama 'Underpop' dove c’è qualche episodio in più in italiano però non è che ci sia stato un cambiamento così radicale…
Mentre nel 2006-2007 per la lavorazione di 'Ghostwriters' arrivate a Roma dove inizia la collaborazione con Daniele Sinigallia che ne cura la produzione artistica.
Si, Daniele, Riccardo, Filippo Gatti… si c’era qualche brano in italiano proprio per avere la possibilità di lavorare con Riccardo, con Filippo.
Come è maturata la scelta di spostarsi a Roma per questo disco?
E’ stata una scelta normale, sincera, perché è iniziato questo rapporto con loro, era bello andare a registrare fuori, la trovavamo un’esperienza diversa, abbiamo sempre cercato questo tipo di confronto, infatti l’ultimo album dei 24 siamo andati a registrarlo addirittura a Chicago.
Col senno di poi, dato che la collaborazione con gli artisti che hai citato continua ancora oggi, non è stata solo una esigenza di produzione ma è stata la conseguenza di un’amicizia che si era creata.
Eh si…si dice chi si somiglia si piglia… (ride)
Qual è il legame o l’affinità che c’è fra te e Riccardo e Filippo? Sicuramente la sensibilità con la quale affrontiamo la vita e la musica, e i rapporti interpersonali.
Cosa succede poi da quel momento al 2013, quando poi avviene qualcosa di grosso, ovvero che tu lasci i 24G? E’ un periodo in cui tu comunque avevi già iniziato un percorso parallelo in cui ti esibivi da solo con rivisitazioni dei brani dei 24G.
Semplicemente è cambiata un po’ la mia vita, nel senso che logicamente crescendo si inseriscono nuovi fattori all’interno delle cose che fai e quindi la scelta di lasciare la band era anche la scelta di lasciare un modo di intendere la musica. Avevo necessità di fare le cose in una maniera più posata forse, è una cosa che devo ancora elaborare e metabolizzare probabilmente, sentivo che comunque avevo dato tanto come rock band e quindi mi sono dedicato più da solo all’approccio delle mie canzoni, visto che comunque le ho sempre scritte da solo e quindi sentivo che le cose dovevano andare così.
E così a fine 2013 esce il disco 'Ballads Cafè'. A distanza di un anno quali sono le tue impressioni, hai soddisfatto le tue aspettative? E poi, facendo un ascolto parallelo delle canzoni nelle versioni 24G e 'Ballads', in alcuni casi sembrano due cose differenti fra loro, a questo punto quale delle due rispecchia l’idea originale della canzone?
Mah, nell’idea originale, avendole scritte tutte quante più o meno con la chitarra, avevano tutte una natura più intima che è quella che ho voluto tirare fuori con l’esperienza di 'Ballads Cafè'. Sentivo la necessità di ritrovare queste canzoni aldilà del sound che spesso è legato ad un periodo storico, al tipo di musica che vuoi fare, alle sensazioni che vivi, come ti vuoi esprimere. Così adesso, più grande, più vecchio, mi trovo sicuramente meglio a raccontare così le storie che ho scritto. Penso soprattutto che le canzoni debbano sopravvivere agli autori. Era anche un modo per tagliare il cordone ombelicale con la band, ma anche con me stesso perché ad un certo punto le canzoni devono diventare di tutti, e secondo me il pensiero di ogni autore dovrebbe essere quello di cercare di portare queste canzoni aldilà del proprio repertorio. Le canzoni io le considero dei documenti, spesso amiamo canzoni che non sappiamo nemmeno chi le ha scritte, e il folk ad esempio è interessante e bello proprio per questo. Perché magari arrivano canzoni di duecento anni fa che sono ancora documenti cantabili. Come nel caso di uno dei primi singoli dei 24G che si chiama Lu cardillo, canzone della quale non si conosce la paternità perché è una canzone dell’800 che viene cantata e ripresa da oltre duecento anni… Non penso che le mie arrivino così lontano però secondo me l’ambizione di un autore appunto deve essere in questo senso, di creare un documento. So che ”documento” può sembrare una parola fredda, ma insomma… deve lasciare una traccia. La mia generazione probabilmente si sente più piccola di quella precedente ma non deve essere così, le canzoni che si scrivono oggi devono avere lo stesso valore, la stessa dignità di quelle che si potevano scrivere nei ’70-’60-’50.
In questo disco oltre a portarti dietro il bagaglio delle tue canzoni ti porti dietro qualcuno della band, da chi è composta questa nuova famiglia?
A parte Daniele Sinigallia, c’è Alfonso Bruno, Alessandro Innaro, Andrea Pesce, Cristiano de Fabritiis, Marjorie Biondo, che è un po’ il team di lavoro con il quale porto avanti le mie cose
Nel tuo percorso musicale ci sono state molte influenze; volevo citarne una in particolare perché ti ho sentito cantare una sua cover e so che spesso e volentieri hai rifatto le sue canzoni, ed è Sixto Rodriguez. Volevo sapere se quello che ti affascinava di lui era semplice apprezzamento per la sua musica o interesse per il personaggio di musicante che improvvisamente sparisce, poi stranamente diventa famoso in Sud Africa, ritorna in auge e diventa di nuovo una star mondiale… Sicuramente c’è un mix delle due, ma principalmente il fatto che trovo le sue canzoni assolutamente… come ti devo dire… sai, quando c’è un vestito che ti calza bene? Perché comunque lui aveva questo sguardo verso il ghetto di Detroit, verso le situazioni più borderline che sono le cose di cui ho sempre scritto anch’io. E anche nel sound, questa unione tra suggestioni folk e psichedeliche che è il tipo di cosa che a me suggestiona di più. Ho trovato una palestra incredibile approfondire Sixto Rodriguez e l’ho trovato proprio… come dire… aderente a quello che faccio e a quello che vorrei fare… e poi questo fatto che lui in un certo senso era un meridionale, era messicano quindi… penso che mi riesce bene cantare le canzoni di Sixto Rodriguez… (ride)
Sempre parlando di influenze, tornando ancora più indietro avevo letto di una vostra cover di una canzone dei Joy Division, tra l’altro non una tra le più famose (Passover), e poi ti ho visto duettare con Joe Lally (Fugazi)…
Be' si, i Fugazi sono stati una band importantissima anche per i 24G per quanto riguarda il sound, questo fatto di creare un punk rielaborato, un punk evoluto. Perché loro hanno squarciato la rigidità del punk aprendola con degli elementi assolutamente free e questi elementi c’erano anche nei 24G. Anche l’etica di una band come i Fugazi, loro hanno sempre avuto un rapporto stretto con il pubblico, la loro ragion d’essere andava aldilà dei contratti discografici e del fatto di avere richieste di concerti. Loro questa cosa la facevano in maniera assolutamente sincera cercando di mettere i fan a proprio agio anche con la politica del prezzo dei biglietti, del prezzo imposto sui dischi; secondo me in questo senso i Fugazi sono stati una band seminale e noi all’epoca abbiamo accolto questo seme e fatte nostre alcune di queste istanze. Conoscere e poi lavorare con lui è stato come chiudere un cerchio, era la strada giusta perché c’è stato un incontro casuale e da li si è sviluppata un’amicizia incredibile…
Sempre in tema di amicizia, riferendomi a Riccardo e Filippo, spesso e volentieri vi siete incontrati sui palchi, ognuno sul palco dell’altro. L’ultima occasione è stata il concerto di Riccardo all’Auditorium dove oltre te c’era anche Filippo Gatti. Però vi ho visti altre volte insieme, vi incrociate, i vostri musicisti sono spesso gli stessi, e si vede che c’è una grandissima affinità quindi sappiamo che vi vedremo spesso insieme. A parte loro, con chi altro ti piacerebbe collaborare, fare un disco o anche solo una serata? Un grande nome o un emergente, italiano o straniero? Ma sai, io ho tanti “eroi”… Perché così considero chi decide di fare determinati percorsi… provo una grande stima per chi decide di fare musica in un certo modo. In questo momento non mi viene in mente un nome perché spesso la voglia ti viene quando conosci una persona e scopri che si possono sviluppare dei discorsi insieme. Io non ho mai avuto idoli se non quelli da adolescente ma molti di quelli là non ci stanno più, e poi sarebbero irraggiungibili (sorride). Nel panorama italiano io sono soddisfatto delle collaborazioni che ho fatto. A parte questi, anni fa ho partecipato ad un tour con Francesco Mannelli e Ginevra di Marco che si chiamava Stazioni Lunari dove sul palco creano questo spettacolo invitando di solito 4 cantanti e la backing band suona cose del repertorio di ciascuno. Questa cosa l’ho fatta con tantissima gente, da Peppe Servillo, poi c’era Max Gazzè, Morgan, Bugo, Cristina Donà… Io in generale mi trovo bene con le persone. Però è chiaro, scrivere insieme, registrare insieme, è diverso. Io Riccardo e Filippo siamo un po’ mosche bianche.
Infatti, sicuramente voi siete delle mosche bianche da questo punto di vista. Secondo te volendo fare un raffronto fra la “classe cantautoriale” degli anni ’70 e la “scuola” degli anni ’90 alla quale appartenete voi, c’è qualche similitudine? In particolare mi riferisco alle differenze tra quelli che sono diventati famosi (oggi diremmo più mainstream) rispetto a quelli che hanno seguito la loro coerenza e son rimasti sempre in seconda fila nonostante la qualità della musica che proponevano?
Io penso che c’erano condizioni di lavoro molto differenti. Prima quelli che conosciamo, di cui sappiamo qualcosa… ci sono quelli di cui conosciamo tutte le canzoni, tipo De Gregori, De Andrè, o a Napoli Pino Daniele, Bennato; e poi quelli un po’ più nascosti, più interessanti, Claudio Lolli, Tenco… anche all’epoca c’era uno spartiacque tra chi aveva fatto il botto e chi rimaneva un po’ di nicchia. Però forse prima c’erano meno cantanti, oggi ce ne sono tantissimi… un po’ tutti vorrebbero fare musica…
A proposito di questo, cosa ne pensi di questa facilità da fare musica e di fruire musica. Una volta ti dovevi comprare il disco, adesso a parte milioni di radio, c’è lo streaming, il download selvaggio, la musica digitale vince su tutto il resto. Secondo te questo è stato un bene perché ha fatto diffondere il prodotto musicale o è stato più uno strumento di appiattimento della qualità del prodotto?
Io innanzitutto devo premettere che sono affezionato ai miei vecchi metodi di approccio e conoscenza, come facevo negli anni 80-90: quando mi piace qualcosa cerco di comprarmi il disco, non ho mai scaricato nulla da Internet in vita mia, lo dico sinceramente. Ma non perché non voglio che gli altri lo facciano. Pure io da adolescente quando non avevo i soldi per comprarmi l’ultimo album di questo o di quello, tranquillamente me li doppiavo su una cassetta…praticamente è la stessa cosa! Però evidentemente oggi è più difficile scegliere perché ti arriva una pletora di prodotti incredibile, quindi non è semplicissimo. Ognuno ha il proprio modo di orientarsi, io poi non sono giovanissimo quindi non so nemmeno i ragazzi di oggi che strumenti hanno per orientarsi, sento parlare di queste enormi banche dati dove gli album si confondono; ad esempio cerchi Neil Young e ti escono tutti i pezzi di Neil Young insieme non divisi per album e quindi magari non arrivi ad approfondire il periodo o il concetto che ci può stare alla base di un album. Io continuo ad avere l’approccio ai dischi come quello che ho ai libri, per me un disco è un racconto. Se un prodotto ha quel tipo di fascino allora me lo prendo lo ascolto lo studio; e poi chi fa il mio mestiere ha anche un approccio più didattico all’ascolto dei dischi. Sia per la canzone che per la produzione e quindi non potrei stare là con Spotify a sentire tutto. Quando ascolto musica la ascolto con un certo grado di approfondimento. Difficilmente accendo la radio mentre faccio… che ne so, mentre cucino… Dato che ho tonnellate di vinili comprati ancora da ascoltare, quando ho possibilità di ascoltare musica mi vado ad ascoltare quelli. A me questa cosa del vinile mi prende ancora parecchio. Poi oltre ad ascoltare questo, mi arrivano sempre un sacco di CD, proposte da persone che ho incrociato, ragazzi al primo album, quindi ci ho sempre un sacco di roba da sentire, per questo non ho ancora trovato la necessità di usare una cosa come Spotify, ma magari lo farò la settimana prossima… (sorride)
Invece parlando di emergenti, vista la tua esperienza, cosa diresti a chi si vuole buttare oggi a fare il musicista, il cantante, il cantautore, e cosa pensi di quello che è oggi il panorama degli emergenti (o se segui i contest dai quali dovrebbe uscire i nuovi nomi)?
Diciamo che seguo più la scena della mia città quindi chiaramente gruppi nuovi e cantautori nuovi napoletani, e anche con personaggi nuovi sto sviluppando una serie di affinità, e quando posso cerco di promuoverli… Ad esempio adesso posso citarti i Foja che sono sensibilità molto affini alla mia e con i quali spesso mi trovo a fare qualcosa.
Per te ogni occasione è utile per fare musica e promuoverla, ad esempio hai partecipato anche ad una puntata di Edicola Fiorello.
Sì, lui ti coinvolge in questa attività mattutina, e quindi sei lì, hai questo piccolo spot sicuramente divertente. E poi io dall’inizio ho sempre considerato la possibilità di esporsi in maniera trasversale, non ho mai pensato che fai musica da centro sociale oppure fai musica indie, penso ci sia anche la necessitò di essere trasversali quindi quello che consiglio io ai giovani è di non essere troppo spocchiosi e seguire anche un po’ l’istinto e il sentimento. Poi sulla musica sono un po’ rigido, non penso che la debbano fare necessariamente tutti perché a volte senti veramente delle cose improbabili, gente che si illude un po’ di avere un rapporto reale con la musica ma poi…. Nu je la fanno! Poi sicuramente ci sono tantissimi diamanti grezzi e quindi non possiamo scoraggiare nessuno.
Per concludere torniamo a te. Siamo alla fine del 2014 un anno che per te è stato intenso. E’ stato un anno di grazia! Perché ho avuto la possibilità di partecipare a cose che coi 24G erano state inibite, tipo il Primo Maggio che è stata una grande soddisfazione perché con la band ci avevamo provato più volte ma…
Quindi bilancio positivo per il 2014. Quindi che previsioni, cosa stai facendo ora e cosa ti aspetta per il 2015?
Sto preparando un disco nuovo e spero di riuscire a completarlo per la primavera, o anche prima, e poi promuoverlo nella maniera più adeguata. Poi il lavoro è sempre in divenire, ti vengono idee mentre stai facendo, molto dipende dalla verve che ci metti nelle cose. Io però come sempre sono felicissimo di poter fare dischi, di poter fare ascoltare le mie canzoni e di poterlo fare con collaboratori che stimo. I compagni di viaggio sono sempre gli stessi… sicuramente questo lavoro è un po’ la prosecuzione di 'Ballads Cafè', non necessariamente dal punto di vista dello stile però il team di lavoro è quello, penso di avere la fortuna di avere bei musicisti, belle persone intorno a me, che per me sono grandi. Già il fatto che vengono qua e registrano le loro cose insieme a me, vengono in tour con me… Meglio di loro… non saprei! C’è stato questo passaggio secondo me dovuto in cui ho sentito la necessità di portarmi dietro delle cose importanti e per ricominciare…quindi l’appuntamento è per la prossima primavera con un disco di tutti inediti.
----------------------------------------- Ed in effetti c’è molta attesa per l’uscita di questo disco che sarà, presumibilmente, il vero trampolino di un nuovo inizio per Francesco Di Bella.
(La foto di Francesco Di Bella in sala d'incisione è d Maria Grazia Umbro).
Articolo del
16/01/2015 -
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