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Dopo l’esordio del 2013, il romano Tommaso Di Giulio, uno dei più talentuosi cantautori della nuova schiera, ha pubblicato il 3 marzo ”L’Ora Solare”, un disco sul tempo e sulle sue contraddizioni. Perché il tempo che passa fa paura a tutti, ma lui riesce ad esorcizzarlo con la disinvoltura e la noncuranza dei grandi chansonnier, in alcuni casi prendendosene gioco con musiche e testi raffinati ed autoironici, in altri aggredendolo frontalmente a colpi di chitarre che spazzano via tutto e tutti. “L’Ora Solare” è la bellezza fatta canzone d’autore. Un lavoro maturo, intelligente, intimo e personale, in bilico tra cantautorato, tradizione, rock e post-punk. Quattordici pezzi che raccontano un’unica grande storia, quella di un uomo in lotta con le lancette dell’orologio. E che noi abbiamo intervistato in una delle pause del tour che lo porterà in giro per l’Italia fino ad estate inoltrata.
Come mai hai sentito il desiderio di parlare del tempo?
E’ stato per assecondare una mia fissazione, visto che mi definisco un soggetto “cronofobico”. Ho voluto esaminare, nella maniera più sincera possibile, sia a livello personale che collettivo, tutte le sfaccettature del tempo, anche nel senso di sincronizzazione con la nostra epoca. Ognuno dei quattordici brani lo fa in maniera diversa. Peraltro, anche il disco precedente era a suo modo un disco sul tempo, seppur intrecciato al concetto di spazio.
A cosa si deve la scelta del titolo?
Il concetto di “ora solare” è ambiguo, perché il suo significato letterale rimanda all’idea di sessanta minuti di luce o di allegria, mentre l’ora solare istituzionale, quando entra in vigore, porta alla notte perché si dorme un’ora in più e fa buio prima, quindi il sole lo vediamo meno.
Nella tua musica si sente molto l’influenza del cantautorato romano. Ti ci riconosci?
Assolutamente sì. Fabi, Silvestri, Gazzè, ma anche Sinigallia, sono stati importantissimi per me. Ma i tre autori con che ho sempre ascoltato di più sono Paolo Conte, Lucio Dalla e Franco Battiato.
Tra l’altro, a proposito di Battiato, sul tuo disco c’è una canzone, “Musica Da Camera”, che ricorda molto “L’Animale”. E’ un riferimento voluto?
Sono contento che hai colto questa cosa. Pensa che quello è mio pezzo preferito di Battiato. Ovviamente sono lusingato dal paragone, lui è veramente un maestro. Tra l’altro l’ho anche conosciuto, perché una volta ho aperto per lui, ed è stato davvero emozionante. Lui è una persona straordinaria, uno che riesce ad alternare discorsi di filosofia e barzellette con una scioltezza incredibile.
Quale altra musica ti ha ispirato?
Tra gli italiani, quelli che ho detto prima. Tra gli stranieri, il pop angloamericano degli anni sessanta, i Beatles, David Bowie. Quest’ultimo, in particolare, per la sua attitudine a non legarsi ad un genere solo. Poi ovviamente anche molto rock alternativo, dai Mott The Hoople agli Husker Du, per i quali condivido l’amore con Giorgio Baldi, che è il chitarrista storico di Max Gazzè e che ha suonato in uno dei brani del disco, “Poveri Posteri”. Con lui abbiamo creato questo arrangiamento duro, aggressivo, nel quale tiriamo fuori il nostro lato hardcore, con le chitarre in primo piano e il cantato con quattro voci urlanti a mò di coro da stadio. Aggiungo che l’intero spettacolo che sto portando in tour ha un tiro molto rock. Anche i brani del primo disco, che pure aveva toni soft, sono riarrangiati in chiave più ruvida.
I tuoi testi sono molto intelligenti e, spesso, autoironici. Ti ispiri alla vita vissuta nello scrivere?
E’ sia vita vissuta da me in prima persona che da altri. E spesso sovrappongo le due cose. Perché il bello è lasciare che tutto resti indefinito e aperto a più interpretazioni. Non credo che sia interessante sapere di che cosa nello specifico parli un musicista nei suoi testi.
Come hai iniziato a suonare?
E’ stato per caso, ed è anche successo abbastanza “tardi”. Nel senso che prima di iniziare il liceo non mi ero mai interessato alla musica suonata. Mi piaceva ascoltarla , quello sì, ma non c’è mai stato alcun incontro da bambino con la chitarra o qualsiasi altro strumento. Poi un giorno alcuni amici mi hanno invitato perché gli mancava il cantante per un gruppo rock, e ho iniziato a cantare. Peraltro eravamo anche abbastanza atipici per essere dei ragazzini di 14 anni, visto che facevamo cover r ’n’ r anni cinquanta, Elvis e Chuck Berry per intenderci. Insomma è stato da lì che è iniziato un certo percorso che poi mi ha portato allo studio della musica vero e proprio.
So che tu hai una grande passione anche per il cinema. Quanto c’è della settima arte nella tua musica?
Tantissimo. A cominciare dalle grandi colonne sonore che ho ascoltato fin da quando ero piccolo. Ma poi anche il fatto che mi sono laureato al DAMS “denuncia” la mia passione cinematografica. Ho sempre amato i film con una trama che fosse riassumibile in una riga, o meglio ancora se non riassumibile. Quei film che lavorano tanto sulle immagini e sulle emozioni. Come il cinema di Monicelli.
Tornando alla musica, tu hai aperto per molti artisti famosi, dallo stesso Battiato a Max Gazzè ai Marlene Kuntz ai Marta Sui Tubi. C’è qualche aneddoto che ricordi in modo particolare?
Ognuno ha avuto i suoi aneddoti. Per i Marta Sui Tubi, ad esempio, ho aperto due volte. Nella prima occasione, ricordo che nel fare il primo accordo della mia prima canzone saltarono due corde della chitarra, le ultime due, il SI e il MI, e mi sono ritrovato a fare un intero concerto in versione punk, suonando power-chord tutto il repertorio. Ma la cosa ebbe un effetto ottimo, a quanto pare, tanto che lo stesso Carmelo Pipitone (il chitarrista dei Marta Sui Tubi, ndr) da dietro le quinte mi incitava ad andare avanti
Per chiudere, un'ultima domanda sul disco. C’è un brano che ti rappresenta più degli altri?
Credo che sia Universo: Ora Zero, il brano di chiusura. E’ quello che sento più mio. E’ venuto fuori in un momento molto particolare per me a livello personale. E pensare che l’ho scritto di getto, con musica e testo venuti fuori quasi in modo automatico.
Articolo del
02/04/2015 -
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