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Con ”Vecchia Roma”, il nuovo disco pubblicato a marzo, gli Ardecore hanno attinto a piene mani dalla storia, quella del folk, degli stornelli in rima, della canzone popolare, reinterpretando vecchi brani della tradizione romanesca in chiave moderna, lasciando invariati i testi ma fluttuando liberamente nella scrittura e negli arrangiamenti. Sette canzoni, sette diapositive che sono come cartoline sbiadite di un tempo che fu. E noi, questo tempo lo abbiamo rievocato con Giampaolo Felici, leader e fondatore del progetto che da dieci anni è capofila nella riscoperta di questa romanità oramai dimenticata.
Perché reinterpretare le canzoni tradizionali invece che fare un disco di inediti?
Un lavoro di questo tipo rientra nel DNA del progetto, che è quello di prendere la tradizione romana e portarla ad una dimensione diversa, un pò come se ci fosse stata nella storia della musica italiana una logica conseguenza che dal folk ha portato al rock, che non è una struttura a sé stante ma solo un tipo di folk suonato con approccio più moderno. Che poi, a dire il vero, avevamo iniziato a lavorare su brani inediti, ed eravamo anche giunti a buon punto, però abbiamo cambiato idea strada facendo perché secondo noi era più il momento di fare qualcosa legato alla reinterpretazione che alla scrittura di nuovi brani, filone che è già abbastanza inflazionato e codificato all’interno del movimento neo-folk romano, molto in voga adesso ma dal quale noi ci differenziamo.
Non ti piace la scena neo-folk attuale?
Non parlerei neanche di scena. Perché una scena nasce e si sviluppa attorno ad un approccio condiviso, mentre qui di condiviso c’è ben poco. Per noi scena significa ricerca di un percorso radicale seguendo un’idea progressiva che parte da una radice che esiste molto prima dell’idea stessa.
Cosa che voi, invece, avete fatto.
Quando abbiamo iniziato, nel 2005, eravamo i primi a fare un certo tipo di discorso. E in tutti questi anni ci siamo sempre differenziati. Siamo sempre stati “stonati” in qualsiasi contesto. Nei contesti folk sembriamo rock, e in quelli rock sembriamo folk. Pensa, una volta abbiamo partecipato ad una serata dove il primo guest era David Tibet dei Current 93 e dopo di lui toccava a Nada. Ora, io sfido chiunque a trovare collegamenti tra noi e loro. Insomma, giochiamo sempre in trasferta. La cosa - ovviamente - ha i suoi pro e i suoi contro, perché se da un lato ci soddisfa dal punto di vista artistico, dall’altro non ci permette di vivere di grossissimi numeri. Però quello che conta è che chi compra i nostri dischi sa che quello che facciamo è sentito al 100%, che non scegliamo mai la via più facile. Anzi, mi piace pensare che siamo riusciti a trovare una via difficile a ciò che prima era facile.
Con quale criterio avete scelto i brani?
Ci siamo concentrati sul tema sentimentale, e abbiamo arricchito gli arrangiamenti di pezzi che in principio erano solo chitarra e voce, “vestendoli” con abiti che definirei quasi gospel. Ovviamente un gospel in versione italiana.
Tra le date del tour col quale state promuovendo l’album c’è stata quella di Roma, che immagino per te abbia avuto un sapore particolare.
Suonare a Roma è sempre una sensazione unica, perché di fronte hai gente che sente la cosa molto di più. E poi, suonare al Teatro Vittoria, in pieno Testaccio, è stato bellissimo. Ad ogni modo, c’è da dire che anche in altre città abbiamo un pubblico molto legato al progetto e che vi si riconosce pur non essendo romano.
Fin dall’inizio, in questo progetto hai coinvolto Geoff Farina, ex-leader e fondatore dei Karate. Com'è nata questa collaborazione?
Il nostro primo incontro risale a prima degli Ardecore, quando feci da spalla ai Karate con il mio progetto precedente, una one-man band che proponeva un gospel molto sporco, quasi noise. Da lì è nata un’amicizia che è sfociata in questa collaborazione. Il primo album degli Ardecore lo abbiamo addirittura suonato insieme dal vivo in più di un’occasione, con lui che ci raggiungeva sul palco come ospite.
Immagino che abbiano influito anche le sue origini italiane.
Credo di sì. Oltre all’amicizia che ci lega, credo che anche questo sia stato determinante. I suoi nonni erano italiani, e per lui era difficile restare indifferente ad un discorso legato proprio alla tradizione italiana. C’è poi da considerare che storicamente poche band in ambito indie e post-rock si sono dedicate alla riscoperta delle radici folk nella forma cantautorale, e per giunta dialettale, che è ancora più di nicchia. Forse oggi la cosa è stata in parte sdoganata, ma dieci anni fa fu una scelta abbastanza forte.
Articolo del
21/04/2015 -
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