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Simone Olivieri è un giovane cantautore romano che con il suo secondo lavoro, ”Apotheke”, uscito a gennaio, ha confermato le ottime cose che si dicevano di lui, e soprattutto il fatto che inquadrarlo in un genere è quanto di più arduo si possa tentare. Perché il suo stile somiglia a tutto e niente. E’ folk, pop, cantautorale, ma a guardare bene non si riescono a trovare riferimenti immediati. Perché la buona musica l’impronta ce l’ha di suo, e anche se la tradizione non si cancella è ancora possibile inventare nuovi modi d’espressione.
Partiamo dal titolo del tuo nuovo lavoro. Come mai “Apotheke”?
Perché etimologicamente è il termine da cui deriva il nostro “farmacia”. In passato erano chiamati così, anche in Italia, quei luoghi angusti e misteriosi dove si poteva trovare tutto quel campionario di boccette e boccettine al cui interno erano contenuti i veleni e gli antidoti. E il contrasto veleno/antidoto è anche il tema che fa da collante al disco. Perché ci vuole sempre una goccia di veleno per fare un antidoto.
I suoni sembrano essenziali, ma ascoltandolo bene è un disco molto suonato.
Le recensioni che ho letto in giro dicono che è un disco minimale, ma in realtà è pieno di strumenti. In Incespico, ad esempio, c’è qualcosa come 25 tracce di roba: altro che minimale! Ma in fondo lo prendo come un complimento. Se metti tanta roba e sembra che ce n’è poca vuol dire che hai fatto un buon lavoro. Mi diverte pensare che se uscisse oggi un singolo dei Beatles verrebbe etichettato come minimale.
E come mai questo desiderio di sembrarlo, minimale?
E’ stata una scelta, perché come molti giovani musicisti vengo da una storia di gruppi rock, col rumore, le distorsioni e tutto il resto. Per cui avevo voglia di ridurre il volume al minimo e dare più armonia, allargando il ventaglio sonoro a strumenti diversi e poco comuni. Mi piace molto il suono del disco perché non mi ricorda niente nello specifico. Sono riuscito a fare una cosa molto personale senza somigliare a nessuno in particolare, anche se in musica tutto quello che si fa risente sempre dell’influenza di ciò che si ascolta.
A quali modelli ti sei ispirato?
Se dovessi elevare qualcuno al rango di modello direi i Beatles. Per me sono una bibbia, un’enciclopedia che tengo sempre aperta e consulto ogni volta che mi serve. Ma sono anche un vorace ascoltatore di musica, oltre che appassionato lettore di biografie. Proprio nei prossimi giorni devo iniziare un’autobiografia di Brian Wilson. Ho sempre ascoltato molte cose degli anni sessanta, Bob Dylan, Kinks, Rolling Stones; ma anche parecchia musica degli anni novanta, tipo Smashing Pumpkins, Mudhoney, Dinosaur jr. E ovviamente i Nirvana. Il mio amico Paolo Testa, che suona con me nel disco, li chiama i Beatles col distorsore.
E i cantautori italiani?
Non ho molta dimestichezza col genere, mi fermo ai primissimi dischi di De Gregori. Tra gli italiani mi piacciono solo i Verdena e gli album d’esordio di Morgan e Tricarico, lavori che peraltro sono stati delle mosche bianche anche all’interno delle loro discografie.
Da cosa parti nella costruzioni dei brani, musica o testo?
Parto sempre dalla musica. Mi rendo conto che c’è un pezzo solo quando c’è la melodia, quel qualcosa che ti arriva da chissà dove nell’universo e all’improvviso ti senti come posseduto. E’ difficile da spiegare. Se ho una melodia significa che a quella bozza iniziale posso continuare a lavorare. A volte per scrivere un pezzo impiego due o tre giorni, altre volte meno. Però di solito, quando metto a fuoco un’idea, poi la lascio un po’ da parte e ci torno dopo qualche giorno per ragionarci a mente fredda e capire se vale la pena tenerla o se è da scartare. Passato questo primo esame, poi, inizio a lavorare in modo più razionale agli arrangiamenti, per capire se in un certo punto, ad esempio, ci vuole il piano o la chitarra acustica, se serve la batteria o no. E qui di solito devo prestare la massima attenzione, perché se faccio una scelta sbagliata rischio di storpiare un buon pezzo.
Suoni tutti gli strumenti da solo?
Sì, faccio quasi tutto io, chitarra, basso, piano. Tranne la batteria, perché non sono molto bravo e dovrei avercene una a casa per migliorare, ma vivendo in un condominio non è facile, quindi vado sempre a rompere le scatole a qualche amico batterista. Per il resto, a mano a mano coinvolgo nel processo qualche amico, vedi il già citato Paolo testa, oppure il tecnico di studio, o il fonico. Poi c’è qualche caso di violino, violoncello. In Apotheke c’è addirittura un bassotuba registrato da un signore venuto da fuori Roma che è stato gentilissimo a prestarsi.
Qual è il pezzo di “Apotheke” a cui sei più legato o quello che preferisci suonare dal vivo?
Direi Settembre, a cui sono legato in modo particolare, un po’ per il testo, un po’ per la “vita” che gli ho dato dal vivo mettendola a fine concerto a mò di saluto.
Come mai l’hai messa in chiusura dell’album?
L’ho messa dopo Tempesta perché in effetti ha un po’ quell’effetto da quiete dopo la tempesta. È una canzone che ho capito fin da subito dove collocare. Non mi sono mai piaciuti i dischi che hanno le canzoni più belle all’inizio e le altre a fare da riempitivo. Mi piacciono i dischi con tutti potenziali singoli, che abbiano un’omogeneità di fondo e formino un percorso che non deve avere punti di debolezza.
Hai in programma concerti a breve?
Il 16 maggio suonerò a Roma, al Monk, per la festa di Radio Città Aperta. E poi il 1 giugno a Milano, al Gattò. Infine stiamo lavorando ad un’altra cosa per metà giugno ma non c’è ancora niente di ufficiale.
Farai un tour?
Per ora solo qualche data sparsa, poi forse per settembre/ottobre un tour vero e proprio.
Articolo del
11/05/2015 -
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