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Capita spesso di imbattersi in cantautori che si sentono il nuovo De Andrè e parlano come se avessero scoperto loro l’esistenza delle sette note. Antonio Prestieri, in arte Maldestro, però è tutto il contrario, e prima di un bravo musicista è una persona umile e dall’animo nobile. La sua è una storia come tante di ragazzi nati a Scampia. Ma lui non è uno qualunque: è il figlio dell’ex-boss della camorra, ora pentito, Tommaso Prestieri. Torbidi natali che però Antonio ha sempre ripudiato diventando negli anni paladino della legalità impegnato in campagne per la sensibilizzazione dei giovani alla cultura come fulcro per sconfiggere la criminalità organizzata. Impegno che onora e promuove anche con la sua musica. ”Non Trovo Le Parole”, il suo disco d’esordio, è uno splendido concentrato di poesia, impegno e musica d’autore, dove alla fiera rivendicazione della propria napoletanità si affianca l’attenzione ai temi sociali.
“Non Trovo Le Parole”, ma le parole sembri averle trovate benissimo. Come descriveresti il tuo disco?
Sono dieci storie. Storie di uomini, storie vere. Io amo raccontare storie, siano esse riguardanti me o qualcun altro. E' il vissuto di tutti i giorni ad ispirarmi.
Com'è nata l'idea di fare un disco?
In seguito agli ottimi riscontri ottenuti nel 2013 con “Sopra Il Tetto Del Comune”, che ho inserito nell'album. E' stato un lavoro duro, ci sono voluti quasi nove mesi per terminarlo, ma alla fine il risultato mi sembra onesto.
Avevi già i pezzi pronti quando sei entrato in studio?
Sì, e i dieci brani dell'album sono il risultato di una scrematura del materiale che avevo inizialmente per le mani.
Come nascono le tue canzoni?
In genere le scrivo alla chitarra, ma non di rado compongo anche al piano.
Accennavi a “Sopra Il Tetto Del Comune” (che parla di un operaio licenziato che dà luogo ad una singolare protesta, ndr). A cosa ti sei ispirato nello scriverla?
Guarda, il nostro è un periodo storico molto particolare. Di storie come quella sono pieni i TG. E per una di cui se ne parla, ce ne sono un sacco che ignoriamo. La canzone non è ispirata ad un fatto in particolare, ma avendo avuto molti conoscenti nella stessa situazione ho sentito l'esigenza di scriverne. Come dico sempre a chi mi chiede di questo brano, è una canzone che non avrei mai voluto scrivere.
Ma per fortuna l'hai fatto. E la cosa che, secondo me, la rende così bella è che parli di un tema pesante con piglio leggero.
Massimo Troisi diceva che se vuoi dire a qualcuno una cosa seria devi farlo ridere.
Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
All'inizio ascoltavo molto i cantautori nostrani, Gaber, De Andrè, Fossati. Poi ho ampliato il raggio e sono passato a Jacques Brel e a quello che considero il più grande di tutti: Leonard Cohen.
Mi ricordi molto anche Paolo Conte.
Me lo dicono in tanti, ma onestamente l'ho ascoltato poco. Magari lo ricordo un pò nella voce.
Nel disco hai intitolato una canzone a George Mèliès. Come mai?
La sua è una storia affascinante. Io credo che sia stato lui, e non i fratelli Lumière, il vero inventore del cinema. E' lui che vi ha introdotto l'elemento della fantasia, è lui che ha inventato i trucchi e gli effetti speciali, è lui che ha inventato i set cinematografici. Prima di lui il cinema non raccontava storie ma la realtà. La famosa locomotiva dei fratelli Lumière era un fatto reale, quasi un documentario.
Tornando ad oggi e all'Italia. Com'è il tuo legame con Napoli?
E' qualcosa di unico, che non si può recidere. Sarebbe come tagliare il legame con la propria madre. E' un rapporto di odio-amore, ma più amore che odio. A Napoli, bene e male confluiscono e danno vita a qualcosa di grande. Nelle mie canzoni c'è molto di questo. Napoli pullula di storia. Io poi vengo da Scampia, un quartiere molto particolare dove però c'è tantissima umanità. A Scampia il novanta per cento è brava gente, ma purtroppo a fare notizia è sempre l'altro dieci.
Accennavi alla madre. Nel booklet del tuo disco c'è una poesia che hai dedicato alla tua. Come mai?
Perché sentivo di farlo. In casi come questo è facile scadere nella retorica, ma per una volta ho deciso che non m'importava.
Di te è noto l'impegno che profondi nella lotta alla criminalità organizzata, e la tua è una testimonianza quanto mai attendibile, visto il cognome che porti. Come combatti la tua battaglia?
Coi mezzi che ho a disposizione, la musica in primis. E poi vado a parlare coi giovani nelle scuole e nei carceri minorili, portando la mia storia come esempio per fargli capire che esiste sempre un'altra strada. E ogni volta questi incontri arricchiscono me per primo.
Hai ancora rapporti con tuo padre?
No, è da qualche anno che non ci sentiamo. Con lui mi sono sempre scontrato perché io sono cresciuto con tutt'altri valori, e ciò grazie a mia madre che ci ha sempre inculcato idee diverse.
Un'ultima domanda volevo fartela sul giudizio che dai al come è trattata la musica in Italia.
Hai una domanda di riserva (ride, ndr)? E' agghiacciante il modo in cui qui da noi sono riusciti a mettere da parte la musica e a far emergere tutt'altro. Ciò si riflette anche sulle leggi. In Francia, ad esempio, le radio devono passare per legge il 70% di musica autoctona, mentre qui da noi della musica italiana non gliene frega niente a nessuno. Se le major dessero la possibilità di far capire che esiste anche musica non commerciale la gente avrebbe più possibilità di scelta, perché se tu lasci intendere che c'è un solo tipo di musica la gente non si abitua alle cose nuove e ogni volta che ascolta qualcosa di più elaborato la rifiuta.
Articolo del
25/05/2015 -
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