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Toh, e che è successo agli Ustmamò! Li avevamo lasciati nel 2003 con Memobox, Cosa Conta e Kemiospiritual, e li ritroviamo nel 2015 in versione “americana” e per giunta coi testi in inglese. C'è da dire, però, che la reunion del gruppo emiliano a dodici anni dallo scioglimento è solo parziale, nel senso che al momento coinvolge solo Luca Alfonso Rossi e Simone Filippi, mentre l'altra metà della band è ancora ai box. Ed è la metà che include Mara Redeghieri, la cui voce fece la fortuna di un sound che negli anni novanta spaziava tra pop, rock e trip-hop e che segnò indelebilmente la scena italiana di quel periodo. Qui, degli Ustmamò come li conoscevamo non c'è nulla. ”Duty Free Rockets” è un concentrato di blues, country e roots come non se ne sentono più; è un impasto di rockabilly e Sun Records, Elvis e Tennesse; sa di whisky, cowboy, polvere e tramonti. E' un omaggio alle radici, quasi un tributo. Ma trattarlo come un disco di cover (benché ce ne siano effettivamente un paio) non gli renderebbe giustizia, visto che i pezzi di spessore non mancano e la scrittura ha tutte le potenzialità per aprire una via “western” all’alternative-pop italiano.
Partiamo dal titolo. Perchè Duty Free Rockets?
Al titolo ci sono arrivato quando il disco stava per essere finito, perché cercavo le parole adatte, e leggendo un quotidiano ho trovato un’intervista al ministro della guerra (o della pace, non ricordo) israeliano che parlava di “duty free rockets”. Ho cercato di capire cosa significasse. All’inizio pensavo si trattasse di una zona protetta, nell’ambito di un conflitto, dove non cascavano razzi e bombe; ma poi leggendolo attentamente ho capito che intendeva il contrario, cioè che Gaza era un posto pieno di razzi e che quindi andava bombardata.
Una giustificazione, insomma.
Esatto. E’ un’espressione dal duplice significato. Per chi viene bombardato è un posto sicuro, per chi bombarda è un posto sicuramente da bombardare.
E come mai ti sei interessato a questo?
Avevo letto la storia di un soldato, la title-track dell’album è nata proprio così. E poi ho frequentato blog, letto storie, interventi, testimonianze. Per il disco avevo in mente fin dall’inizio quest’ambientazione western un po’ alla Pat Garrett.
In effetti, il tema della guerra ricorre abbastanza, a partire dalla copertina.
Ci sono periodi in cui si parla molto della guerra e la TV ce la porta in casa a tutte le ore, e altri periodi in cui questa pressione e minore. Ma c’è sempre.
Parlavi di influenze western. Nel sound degli Ustmamò non ci sono mai state, come mai escono fuori solo adesso?
Beh sai, prima eravamo in quattro e le dinamiche erano diverse. Qui invece le canzoni sono nate quasi tutte con la chitarra acustica, quindi è più facile che escano fuori cose così. Da solo, basta mettersi a suonare in una stanza. E poi prima erano altri tempi, una volta usavamo campionatori, sintetizzatori e tutta quella roba lì, mentre adesso io faccio fatica a rimanere davanti ad un computer per molto tempo.
Era finito un percorso?
Sì, tanto è vero che ci siamo sciolti proprio perché non eravamo più molto soddisfatti della cosa, eravamo diventati un gruppo pop, c’erano altre dinamiche che alla lunga possono diventare nocive, e noi non ne potevamo più. Questo, al contrario, è un disco fatto per passione, nato dalla passione.
Vi eravate lasciati bene?
Benissimo. Con Ezio (Bonicelli, ndr) nel 2011 siamo anche tornati a suonare insieme nel tour di Giovanni Lindo Ferretti. Se Ezio non ha potuto suonare nel disco è solo perché non aveva proprio tempo fisico per partecipare.
Avete lasciato la porta aperta ad un’eventuale reunion della formazione al completo?
Apertissima. E comunque, anche se fosse chiusa, tutti hanno le chiavi.
Anche Mara?
Assolutamente sì. Con lei ho insistito parecchio dal 2012 al 2014 perché ritornasse con noi. Il fatto è che in passato riusciva a svincolarsi più facilmente dai suoi impegni lavorativi. E tra l’altro, da un po’ di tempo ha preso anche parte ad un progetto di musica popolare.
Ma, legalmente, il marchio Ustmamò a chi appartiene adesso?
A tutti e quattro. Dal 2011 ho iniziato a cercare di riportare tutti insieme, ma per vari motivi non è stato possibile. Allora ho detto agli altri che se per loro non era un problema io il disco me lo facevo comunque, e sono stati tutti super-disponibili e contenti che io e Simone andassimo avanti.
L'hanno ascoltato il disco?
Sì, e gli è piaciuto un sacco. Anche se secondo Mara avrei dovuto cantare in italiano.
Ma tu hai provato a farlo?
Sì. A dire il vero all'inizio ero quasi certo che Mara avrebbe cantato, poi quando ho capito che non c’era niente da fare ho cambiato. Un pò perché non sono capace di scrivere in italiano, il mio italiano non è all'altezza; un pò perché l'italiano avrebbe distolto l'attenzione dalla musica. Ho ascoltato parecchio blues anni ‘40-50, canzoni abbastanza semplici, che raccontavano storielle, aneddoti. Allora ho pensato vabbè, al limite posso provare a fare un esperimento del genere. Anche perché non volevo trasmettere alcun messaggio ma solo, appunto, raccontare delle storie.
Ho letto che l’ispirazione per uno dei brani ti è venuta da Brian Eno.
Sì. Lui ha espresso un concetto abbastanza complesso riguardo l’ispirazione. Molte persone pensano che quelli che scrivono canzoni siano dei geni. In realtà, con un pò di allenamento, di esercizio, e nella situazione giusta, le canzoni nascono da sè, le parole vengono fuori da sole. In I Play My Chords racconto proprio questo, parlo di me mentre sto suonando, descrivo me stesso in modo quasi didascalico mentre mi trovo in una stanza in quel preciso istante, con in braccio la chitarra.
Nel disco ricorre spesso anche la figura di tuo padre. Ne parli più da figlio o guardi a lui come una figura storica, un archetipo di una precisa fase della memoria condivisa italiana?
Entrambe. Nel senso che nel disco ci sono un sacco di riferimenti agli anni ‘50, e lui, che emigrò per lavoro in nord Europa proprio in quel periodo, rappresenta quella generazione. E’ il modo che avevano di vivere ad essere interessante e anche molto coraggioso. Le canzoni del disco sono tutte piccole storie di piccoli personaggi come lui, come nelle ballate folk-blues americane. Anche mio nonno era un personaggio da film. Era un mito. Sarebbe stato benissimo in una pellicola dei fratelli Coen.
Com’è nata l’idea delle due cover che hai inserito nel disco?
Sono pezzi che scoprii da ragazzo, e ascoltarli dopo quarant’anni mi ha fatto un certo effetto. Don’t Go To Strangers di JJ Cale, in particolare, mi è venuto quasi spontaneo rifarla. Ho spinto “rec” e ho registrato. Hambone di Rayburn Anthony, invece, ho cercato di capire come fu registrata, perché suonava da paura, ma quel suono era difficile ricrearlo e così mi sono accontentato del mio.
Ma se la famosa porta della reunion con tutta la band non dovesse riaprirsi, continuerai su questa strada?
Sicuramente sì, ma spero di no. Probabilmente cercherei di scrivere canzoni migliori, ma sempre partendo da me, dalla mia voglia, e da un approccio minimale. Voce, chitarra batteria e basso: strumenti tradizionali, da microfonare e basta.
Che panorama musicale italiano hai trovato dopo 12 anni?
Peggiore. Prendi me, ad esempio. Io adesso vorrei fare dei concerti ma mi sembra di capire che non è così automatico. Una volta riuscivi a suonare con molta più facilità. Partivi senza che ti conoscesse nessuno e dopo tre-quattro mesi qualcuno magari si ricordava di te. Adesso è più difficile, non lo puoi più fare. E a me, quello di suonare dal vivo è l’aspetto che interessa di più.
Che reazione ti aspetti dal vecchio pubblico degli Ustmamò?
Francamente non ne ho idea. E sinceramente non m’interessa. Per certo, so che molti diranno che questi non sono gli Ustmamò, che era meglio far uscire il disco senza il loro nome. Ma questo e ciò che si vede da fuori. Quello che accade nella nostra band lo sappiamo solo noi quattro. Io spero che questo disco piaccia e che qualcuno ci trovi del bello e ne tragga giovamento. Poi se avrò o no il beneplacito del pubblico degli anni novanta fa lo stesso.
Anche i Bluvertigo, che più o meno si sciolsero nello stesso periodo vostro, sono tornati insieme e hanno annunciato un nuovo album.
Loro erano incredibili. Morgan è un grande. “Canzoni Dell’Appartamento” era un disco pazzesco. Se lui suonasse di più farebbe bene a se stesso e a quelli che lo ascoltano. E’ un bene che abbiano deciso di tornare insieme. Ma loro erano molto più potenti di noi, sul palco erano fortissimi.
Articolo del
04/06/2015 -
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