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Scegliere un titolo come ”Capolavoro” comporta una bell’assunzione di responsabilità. Ma il nuovo album di Pino Marino, quarto nella sua carriera, non è andato così lontano dal mantenere le promesse. Dieci anni dopo “Acqua Luce e Gas”, il cantautore romano torna con un album complesso e animato dalla necessità di raccontare e raccontarsi “in presa diretta”, senza potature e senza omissioni di particolari. Undici canzoni scritte e registrate in luoghi diversi ed in diverse modalità, a beneficio di chi ascoltando il disco chiuderà gli occhi e proverà ad immaginare…
Come mai un titolo così “impegnativo”?
In verità all’inizio il disco non doveva chiamarsi “Capolavoro” ma “Dimenticare Il Pane”, come uno dei pezzi che lo compongono, ma poi ho cambiato idea dopo aver fatto un sogno.
Un sogno?
Sì, la notte prima di andare in stampa ho sognato io che dicevo a me stesso: “Ti dò il titolo del disco” - tipo i numeri al lotto – e il titolo è “Capolavoro”. Però questo è un sogno e quindi domani dovresti ricordartelo”. E così quando mi sono svegliato sono andato in bagno, mi sono guardato allo specchio e mi sono ricordato tutto. Ho chiamato i grafici e, con grande gioia da parte loro, gli ho detto ricominciamo tutto.
Perché all’inizio avevi scelto un altro titolo?
La forma canzone è già di per sé un processo di sintesi, e la scelta del titolo lo è ulteriormente. In genere all'interno dell'opera c’è già il titolo, che sia quello di un brano o un suo capoverso. “Dimenticare il pane” è un concetto che ha che fare con la forma artigianale del pane. Perché il pane in realtà non esiste, si fa. Come il lavoro. Come l'amore. O lo fai o non c'è. Non è come il grano, che lo trovi lì e lo raccogli.
Quindi ti reputi più un artigiano che un artista?
Quello che facciamo noi musicisti “leggeri” non è arte ma artigianato. Praticando tutti i giorni della vita l’artigianato in alcuni momenti si possono toccare punte di arte. E tutte le volte che li tocchiamo sono momenti inconsapevoli, che non abbiamo calcolato.
E la copertina come l’hai scelta?
Anche quella è stata il risultato di una sterzata improvvisa. All’inizio doveva esserci una foto scattata al Teatro Valle di me che “smucinavo” dentro un pianoforte aperto. Ma col nuovo titolo ho pensato che il “capolavoro” era meglio attribuirlo a questo tuffo sghembo compiuto da me con indosso un costume degli anni ‘50. Quell’immagine sospesa tra aria e acqua mi ha convinto di più e a mio avviso ha tolto parecchia gravità ad un titolo che, se combinato con l’altra foto, sarebbe stato forse troppo autoreferenziale.
Come mai il nuovo album è arrivato a dieci anni di distanza dal precedente?
Più che la musica ho tralasciato la discografia. Negli anni mi sono reso conto che se c'è una cosa ancora intonsa che spinge il pubblico verso un artista, anche senza disco, è la capacità dell’artista di inventare spettacoli sempre diversi, di lavorare alla forma spettacolo in posti ortodossi o anche imprevedibili. E così ho preferito dedicarmi di più a questi versanti cercando nel frattempo di capire cosa stesse accadendo al mondo dell’industria discografica.
Tra l’altro alcune canzoni erano già pronte nel 2011.
Ho iniziato a lavorare su alcuni brani già dal 2008, e la raccolta che ne è scaturita è frutto anche di collaborazioni con vari musicisti succedutisi nel tempo.
Tu invece come componi di solito, viene prima la musica o i testi?
Vengono insieme. Di solito quando prende vita una canzone, accanto all'idea del capoverso c'è già uno strumento e la scelta delle parole sta nel suono abbinato. Tutto ciò che inizio a scrivere senza avere fianco uno strumento difficilmente diventerà una canzone. Potrà essere una poesia, un racconto, ma non una canzone. Però dal momento che a volte faccio anche da autore per altri, negli anni ho imparato che è possibile muoversi sulla musica di un altro o musicare una raccolta di parole altrui. Tutte tecniche diverse che uno acquisisce e poi fortunatamente dimentica.
Fortunatamente?
Sì. Tutti noi siamo un pò “autistici”, nel senso che tendiamo sempre a replicarci ogni volta che qualcosa funziona. Dalla tecnica per rimorchiare una ragazza in spiaggia alla battuta al bar con gli amici, tendiamo sempre a usare quegli ingredienti che sappiamo ci garantiranno il risultato. E’ una cosa istintiva, poi c’è chi ce l’ha cronica e chi più temperata. Per evitarlo è preferibile cimentarsi col rischio di non sapere dove si va, di non pensare prima a chi sarà destinata quell'opera. La prevedibilità toglie all’opera quella cecità che deve avere prima di uscire di casa e per evitarlo bisogna dimenticare la grammatica usata.
Tra i pezzi del nuovo album ce n’è uno, Dimenticare Il Pane, che ricorda molto alcune cose di Renato Zero. E’ un riferimento voluto?
E’ la prima volta che mi sento accostare a lui. Mi sono state attribuite le influenze più varie, addirittura nel 2001 qualcuno disse i Portishead. Diciamo che Renato Zero non rientra tra le mie principali fonti d’ispirazione, però è anche vero che nella vita ho ascoltato di tutto, da De Andrè a Gaber a Fossati, e anche Renato Zero, per cui può darsi che involontariamente qualche riferimento vi sia. A riguardo posso dirti che ho lavorato spesso con Maurizio Fabrizio, e il suo mondo è molto vicino a quello di Renato Zero. Per dire, è stato lui a scrivere I Migliori Anni Della Nostra Vita. Per cui sì, può darsi che l’anello di congiunzione sia stato quello.
A proposito dei Portishead, c’è anche dell’elettronica nel tuo lavoro.
L’elettronica per me è una questione di necessità, di abbigliamento.
In che senso?
Non si esce di casa nudi. Anche il più povero o il meno dotato di acquistabilità vestiaria, una cosa addosso se la deve mettere per uscire di casa. Prima parlavamo di influenze e una delle persone più vicine a me nel mio lavoro è Andrea Pesce. Ebbene, per Resilienza – che all’inizio aveva un andamento molto più acustico – Andrea aveva concepito un tappeto elettronico che doveva insinuarsi nella ritmica della chitarra, ma quando abbiamo iniziato a mixare il pezzo ho chiesto di mutare completamente la chitarra e ho sentito che questo magma elettronico concepito senza la pretesa di essere importante funzionava meglio da solo poichè riusciva a sostenere la narrazione amplificandola. Quindi ho tolto la chitarra e l’elettronica è diventata l'unica cosa a sostegno del cantato.
Tu in passato hai lavorato con Daniele Silvestri e Niccolò Fabi. Cosa ne pensi del loro progetto insieme a Max Gazzè?
Ne penso bene quando riesce bene e male quando non avviene. Semplice. Se scrivono cose belle OK, altrimenti no. Io però credo che nel loro caso si tratti più che altro di un’idea di tipo mercantile. Mettere insieme quel progetto, raccogliere tre personalità ben distinte in un momento così complicato per l’industria musicale e proporre un divertimento è un idea che ha a che fare più col mercato.
Ti convince la loro scrittura a sei mani?
Ma io credo che la scrittura sia stato anche per loro un aspetto condotto in solitaria, o perlomeno che abbiano attinto a cose scritte in solitudine e tirate fuori per l’occasione. Però non penso ci sia una regola generale, tutto sta nel non seguire dogmi.
Dalla musica alle altre tue iniziative. Tu sei stato tra i fondatori dell’associazione culturale da cui è nata l’Orchestra di Piazza Vittorio, concepita attorno alla figura di Pino Pecorelli. Cosa ne pensi de La Batteria, il suo nuovo progetto musicale?
A dire la verità non l'ho ancora ascoltato. Provvederò al più presto.
Puoi parlarmi invece del tuo progetto “Brigata Preneste”?
E’ una delle follie perpetue che ogni tanto mi permetto di pensare per me e per gli altri. Sai, in un collettivo esiste la possibilità santa di indietreggiare col proprio nome ed avanzare con un’insegna comune. La Brigata Preneste è un gruppo ciclistico e letterario nato due anni fa a Roma nella zona del Pigneto, dove vivo, ed è un’idea legata al viaggio in bici insieme ad altre persone durante il quale si raccontano storie. La prerogativa è pedalare ma anche raccogliere testimonianze e raccontarle, oltre a mappare e cartografare il tutto in modo fruibile ad altri ciclisti e scrittori. Nel 2013, ad esempio, abbiamo fatto una corsa da Roma a Siena vestiti come una brigata partigiana degli anni ’40 e durante le soste raccontavo del bombardamento del quartiere San Lorenzo avvenuto settant’anni prima.
E’ un’iniziativa aperta a tutti?
Da pochi giorni è diventata una ASD, quindi c’è un tesseramento ed uno statuto che stabiliscono le modalità e le linee comportamentali da seguire per poter aderire.
Articolo del
07/07/2015 -
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