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Il nuovo album di Daniele Sepe, più che un disco è una specie di trattato sulla musica leggera. Nato da una serie di incontri-laboratorio che il grande jazzista napoletano ha tenuto tra il 2013 e il 2014, ”A Note Spiegate” è un’opera con dentro di tutto, da Mingus a Zappa passando per Bob Marley, Led Zeppelin e Weather Reports. Ovviamente reinterpretati in chiave jazz da una delle più grandi firme nostrane in materia.
Perchè “a note spiegate”?
Perché la musica è come un viaggio, in particolare per me che amo il mare. E poi stare sempre in movimento serve a tenersi svegli, vigili, curiosi. Io non faccio parte del gotha della musica mondiale, non sono uno di quelli che decide di andare in tour dal giorno X al giorno Y. Per me la musica è sempre, il tour non finisce mai: d'inverno suono nei club, d'estate all'aperto. Non sarei proprio capace di stare più di dieci giorni senza suonare.
Come nasce l'idea del disco?
Da alcuni laboratori musicali che tenemmo nel 1995 a Napoli in cui oltre a suonare insegnavamo al pubblico, fatto di semplici ascoltatori o musicisti curiosi, a riconoscere emotivamente stili e strutture del jazz. Al tempo fu una bella novità, e così un paio d'anni fa abbiamo deciso di riprendere quel discorso e organizzare appunto altre dieci serate a tema in cui abbiamo suonato un po' di tutto per un totale di ottanta-novanta pezzi tra cui ne abbiamo scelti dieci per questo album.
Una sorta di “lezioni di jazz”, quindi.
Non le chiamerei lezioni, anche perché non mi reputo un professore. Diciamo che l'unico intento era quello di spiegare il jazz senza quell'aura mistica che spesso lo circonda, quella patina radical-chic in cui si crogiola, e riportarlo alla dimensione di musica popolare e dal forte significato sociale, da un lato analizzando tecnicamente i brani e dall'altro spiegando il contesto sociale in cui stili e generi nascevano e si sviluppavano.
Parli del jazz anche come legato all'emotività umana.
Sì, all'emotività e alla naturalezza di un genere considerato spesso come materia esoterica, per pochi eletti o per signori un po' pazzi in contatto col Creatore. Il jazz, al contrario, è nato nei bassifondi delle grandi città americane…New Orleans, New York, Chicago…Era musica sottoproletaria, suonata da gente della classe operaia o anche peggio….ladri, magnaccia, truffatori, a volte anche ex-assassini. E poi era una musica d'uso, per ballare, di massa. Le cose ovviamente cambiarono con l'avvento del rock n'roll, e io ho voluto semplicemente riportare il jazz lontano dal senso elitario che gli si è dato a partire da allora.
Tra l'altro ti sei finanziato con il crowdfunding.
Sì e a dire il vero non pensavo che la cosa andasse così bene. In sole 24 ore, grazie alla gente che ancora mi vuole bene, ho raccolto tutti i soldi necessari. Il crowfunding è un'ottima cosa perché oltre a permettere la realizzazione di un progetto rende anche possibile una maggiore partecipazione del pubblico trasformandolo in parte attiva del processo, specie oggi che l'industria musicale langue e i negozi di dischi stanno scomparendo.
Nell’album sono presenti due brani di Joe Zawinul, o comunque dei Weather Reports, vale a dire “Mercy Mercy Mercy” e “Palladium”. Come valuti la figura di Zawinul e quale disco dei Weather Reports consiglieresti ad un neòfita?
Lui è stato un figura imprescindibile per la musica moderna, un artista davvero trasversale che non si è mai fatto problemi di generi musicali e suonava quello che gli pareva. Lavorò, tra gli altri, con molti musicisti africani e importantissimo è stato il suo contributo a quella che oggi chiamiamo “world music”. Sui Weathers non saprei, come peschi, peschi bene. Ma se devo sceglierne due dico “Black Market” e “Heavy Weather”.
Meno trasversali ma ugualmente importanti sono stati i Led Zeppelin, presenti nel tuo disco con “Out On The Tiles”.
I Led Zeppelin sono stati una delle band più interessanti degli anni sessanta/settanta. Il loro suono anticipò quello delle band heavy-metal che uscivano dalle catene di montaggio americane, band i cui componenti e il cui pubblico erano il più delle volte operai. Quella musica è stata spesso trattata con sufficienza e, a torto, ritenuta rozza. Io poi fin da piccolo sono stato affascinato da John Bonham e dal suo drumming grave e possente grazie all'uso di una cassa orchestrale in sostituzione di quella ordinaria. Aveva un modo inusuale di suddividere e accompagnare i brani, spesso usava tempi dispari disorientando l'ascoltatore con improbabili divisioni. Tutto questo lo rende un caposcuola le cui lezioni si possono ascoltare ancora oggi in molte band di successo, vedi Rage Against The Machine ad esempio.
Che mi dici invece di “E La Luna Bussò”?
Quello fu il primo tentativo di introdurre le sonorità reggae in Italia ricalcando la struttura armonica del genere portato al successo da Bob Marley, un artista che ha segnato la mia esistenza di piccolo musicista che all’età di 17-18 anni inizia a muovere i primi passi.
E invece che disco di Daniele Sepe consiglieresti a chi non ti conosce?
Intanto basterebbe prendersi la mia antologia “Viaggi Fuori Dai Paraggi” per avere una panoramica abbastanza esauriente. Se poi mi si chiede un singolo album direi “Vite Perdute”, “Suonarne 1 Per Educarne 100” e “Fessbuk”.
Lavorare stanca, invece, come lo collochi? Più che un disco fu una vera e propria inchiesta sul mondo del lavoro in Italia.
Sì, e da allora le cose sono cambiate in peggio. Il mondo del lavoro ormai è scomparso. Da trent’anni stanno facendo in maniera di non permettere più ai giovani di pensare cosa faranno da grandi. Si è cancellata l’idea di futuro a lunga scadenza, si vive giorno per giorno, senza prospettive. Oggi tutto è precario: il lavoro, le relazioni, gli amici….è tutto “americanizzato”.
Saliresti ancora sul tetto dell'Italsider per protesta?
In verità non fu una protesta, ero lì per caso. La storia è nota. Il giorno della dismissione dell’Italsider, mentre tutte le autorità erano riunite giù di sotto, io mi trovavo sul tetto del laminatoio insieme ad un operaio che mi stava raccontando le sue vicissitudini. Sperava che un giorno anche suo figlio sarebbe stato assunto lì. Chissà che fa adesso. Insomma, a un certo punto mi chiede di suonargli qualcosa e io scelgo l’Internazionale. Tu immagina adesso il presidente della Regione, quello della Provincia, il prefetto e tutti gli altri, che all’improvviso sentono partire l’Internazionale ma non riescono a capire da dove arrivano quelle note. Una cosa irreale e per questo entrata nell'immaginario di quei giorni.
Tornando ad oggi, come giudichi l’attuale scena musicale napoletana?
C’è un sacco di fermento, una situazione davvero molto florida. Dal punto di vista cantautorale, ad esempio, c’è una bella realtà post-Pino Daniele. Per non parlare del rock, del busking e della scena hip-hop.
Articolo del
21/07/2015 -
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