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Antonio Frisino, in arte Frisino, è un cantautore pop raffinatissimo che se da un lato ossequia la grande tradizione italiana dall’altro suona moderno con un piglio melodico squisitamente fresco e a presa rapida. Prova ne è il suo disco d’esordio ”Tropico Dei Romantici”, che il musicista pugliese trapiantato a Roma sta presentando in una serie di concerti dal vivo e di cui ci parla in questa intervista rilasciata prima della data romana del 4 ottobre.
Intanto volevo chiederti come sta andando il disco.
E’ ancora un po’ presto per dirlo, ma i primi riscontri sembrano positivi, sia le recensioni che i live di presentazione, dove la risposta del pubblico finora è stata più che buona.
Com’è lo spettacolo dal vivo che stai presentando?
In pratica è la riproposizione tout-court del disco. La band sul palco conta quattro elementi - me incluso - tutti romani tranne ovviamente il sottoscritto, anche se vivo a Roma da quattro anni.
Come giudichi la scena romana in quanto a locali per la musica dal vivo?
Saprai meglio di me che qui è meglio non suonare a distanza di poco tempo tra una data e l’altra, specie nello stesso posto, perché chi è venuto a vederti la prima volta difficilmente ci torna subito una seconda o una terza.
Il nuovo disco è molto vario, anche se “Non Deve Finire” - il singolo apripista - ne era un po’ un’anticipazione.
Assolutamente. Ci sono un sacco di situazioni musicali diverse che ho voluto portare dentro per spaziare e rendere il discorso musicale il più vario possibile. O per lo meno spero di esserci riuscito. La classica forma canzone – strofa, ritornello, strofa - è sempre alla base di tutto, come si sente ho dato molto spazio alla melodia e i pezzi riflettono tutti questa vocazione radiofonica, nel senso buono del termine. Alcune persone dicono che è orecchiabile, ed è vero, perché questo è il mio modo di concepire la musica al momento. I brani sono nati tutti dal ritornello, poi ci ho costruito intorno tutto il resto, e infine ci ho messo le parole.
Com'è nato il disco?
Sono andato dal mio produttore artistico Antonio Filippelli con una sessantina di bozze scritte da me, bozze che poi insieme abbiamo ridotto fino ai dieci pezzi che si sentono sull’album.
Quanto tempo hai impiegato per tutto il processo?
I brani sono nati subito. In genere se una melodia resiste nella mia testa almeno due-tre giorni vuol dire che vale la pena arrangiarla, altrimenti la cestino. Poi – per carità - può anche succedere che la porti al produttore e lui mi dica che fa cagare.
Quella di Filipelli è stata una figura centrale anche nella scrittura dei brani?
Antonio, nel mio caso, è stata una figura utilissima e imprescindibile in quanto orecchio esterno deputato ad offrire un parere obiettivo. E poi è servito anche a mettere dei paletti. In musica a un certo punto devi fermarti, come quando scrivi un articolo credo. Io invece tendo sempre a rimettere le mani su quello che faccio perché ogni volta trovo qualcosa che non va, e allora giù a smussare, aggiungere, togliere, ecc.
Quindi ti ha aiutato in questo lavoro di cesello?
Sì, più che altro negli arrangiamenti. Nella composizione vera e propria, invece, sono sempre io da solo. Anche se poi è in fase di registrazione che si analizza e prende forma il tutto.
C'è qualche pezzo per cui ti sei dovuto “imporre” contro il suo parere?
Direi di no, la sintonia è stata completa e siamo quasi sempre stati sulla stessa lunghezza d'onda.
Tu sei un autore abbastanza derivativo nello stile, seppur originalissimo. Quali sono stati i tuoi riferimenti principali?
Il faro che ho sempre avuto è stato Paolo Conte. Lo ascoltava sempre mio padre, tanto è vero che all’inizio nutrivo una sorta di “repulsione” nei suoi confronti prima di vincere le resistenze e lasciarmi sedurre dalla sua magia. Tra gli altri invece direi tutta la scena cantautorale italiana degli anni ‘60, in particolare Luigi Tenco, un vero anticipatore di mode e modi di scrivere, e poi Lucio Dalla, Battisti, Bindi, Endrigo, Lauzi. Sono stati e sono tuttora ascolti importanti per me. Ad esempio adesso sto ascoltando parecchio un album di Dalla che trovo sensazionale, “Viaggi Organizzati”, che se non sbaglio è del 1984. Vedi, le cose che si sentono oggi provengono quasi tutte da quelle passate. Per dirti, nei vari Pharrel Williams, Daft Punk e compagnia bella ci ritrovi lo Stevie Wonder degli anni ’70. E’ sempre stato e sempre sarà così.
Al di fuori dei cantautori che musica ascolti?
Un po’ di tutto, dalla musica africana al jazz nordeuropeo fino ai Sigur Ros. Dirò un'ovvietà ma la musica è tutta bella quando è bella.
Che rapporto hai invece con i social e come influiscono nella promozione di te stesso?
Oggi investire su se stessi attraverso i social è diventato il lavoro che una volta facevano le case discografiche. Bisogna crearsi un personaggio perchè – ahimè - la musica oggi si fa anche su Instagram. Tanti follower vuol dire tanta gente che ti ascolta e che viene a vedere i tuoi concerti. Chi oggi non sposa questa causa è fuori. Non bisogna mai essere indietro, fosse anche di pochi secondi, sulla timeline di Twitter, Facebook e affini. Poi sta a te decidere in che modo affrontare questo discorso, se in modo ironico, serioso, impegnato o chissà cos’altro. La gente capisce molto di te da un tuo singolo post.
Un’ultima curiosità. Suonare lo fai come lavoro o come passione?
E’ una passione, per il resto faccio un lavoro d’ufficio normalissimo. E credimi è difficile armonizzare le tue 8-9 ore giornaliere con l’attività di musicista, con le prove e tutto il resto, tanto più in una città come Roma.
Articolo del
13/10/2015 -
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