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Lo scorso 16 Novembre ho incontrato il maestro Enrico Rava e il chitarrista Francesco Diodati dopo un loro concerto in provincia di Bologna e ne è venuta fuori una chiacchierata sincera sul Jazz e sul mondo della musica.
Quando ascolto jazz ho l’impressione che sia un genere che vive molto di improvvisazione, mi appare come un’anarchia illuminata dove le regole non hanno la stessa importanza che hanno negli altri generi musicali.
Enrico Rava: Eh, parti subito sbagliando. Intanto il jazz non è un genere ma un linguaggio. Poi ci sono un miliardo di regole; come dappertutto; poi uno le può trasgredire; non è più o meno regolato di altre cose; le regole sono le stesse della musica; qualunque musica ha le sue regole. Poi si trasgrediscono; volendo. Francesco Diodati: Ma sì, diciamo che forse c’è di più l’occasione e la possibilità di trasgredirle. Anzi forse ci sono più regole rispetto ad altra musica perché il jazz investe così tanti aspetti della musica che bisogna veramente conoscere e sapere come muoversi all’interno delle variazioni; però appunto bisogna conoscere tante cose perché si varia in mezzo a tante possibilità.
Diciamo che il jazz ha la trasgressione nel DNA.
E.R.: Anche nella musica classica ci sono stati dei compositori che hanno scritto la storia della musica trasgredendo; poi le regole sono arrivate a posteriori; come, non so, Haidyn, Bach, trasgredendo hanno scritto le regole. In altre parole non è una cosa strana, è una cosa come tutte le altre. C’è chi le rispetta e chi non le rispetta; come parlare: si possono usare i congiuntivi oppure no; primo perché non si conoscono poi perché magari è più efficace una frase che trasgredisce le regole; il jazz è un pò come parlare.
Questa trasgressione però, l’ho sempre associata al divertimento, un andare oltre allo scopo di divertirsi.
F.D.: In parte è vero. In tutte le musiche l’obiettivo è sempre quello di divertirsi; forse è l’obiettivo principale, altrimenti non si farebbe musica. E.R.: Se ci pensi solo nella lingua italiana si dice “suonare”; in altre lingue si dice “to play” oppure “jouer”. La musica è un gioco che ti fa tornare bambino. F.D.: Assolutamente, anche perché la musica tira fuori le tue riserve interiori che vanno al di là delle cose tangibili e razionali. All’interno delle regole è bello il fatto di attingere ad una dimensione interna e profonda, un po’ quella dei bambini: giocare, avere fantasia, avere idee, essere spontanei; quindi tutta una serie di cose che sicuramente fanno parte di un mondo giocoso. E.R.: Infatti io non lo definisco lavoro; io mi vergogno a chiamarlo lavoro; il lavoro sono i viaggi per andare a suonare ma quando suono è un divertimento. In questo senso siamo dei privilegiati perché siamo pagati per divertirci; anche se non sempre ci si diverte.
Per esempio quando non ci si diverte?
E.R.: Quando non si suona bene; e questo può succedere a tutti quando … ci sono mille variabili che possono determinare la riuscita o meno del concerto: l’acustica, non sentirsi particolarmente in forma; magari uno solo del gruppo è fuori forma; perché una cosa sia veramente bella ci sono parecchie componenti che si devono verificare; poi chiaramente con il mestiere uno le supera però quando tutto funziona è un super divertimento. Chiaramente è sempre meglio che andare a lavorare in un ufficio.
Spesso si sente dire che il rock è morto, il punk è morto; il jazz come sta?
E.R.: Si sente dire tantissimo anche che il jazz è morto. La differenza è che il punk o il rock sono dei generi all’interno di una cosa che possiamo definire rock’n’roll volendo; anche nel jazz ci sono degli stili, dei generi; si è cominciato con New Orleans, poi lo swing, il be-pop, il free jazz; chiaramente man mano che si evolve la faccenda certi stili, certi generi, passano la mano al genere successivo; è così in tutte le arti: anche nella musica classica; ogni periodo ha la sua caratteristica ma sempre all’interno di un suo discorso; il rock non è assolutamente morto, anzi. Però magari la moda del punk è finita. F.D.: Forse una cosa bella del jazz è che ci sono delle cose di tanti anni fa che sono ancora oggi molto moderne, che rimangono valide a distanza di anni. E.R.: Esatto. Ci sono i classici del jazz che hanno fatto cose grandissime e che sono ancora dei classici; come quello che ha fatto Armstrong; lo stesso vale per Parker. F.D.: Sì, sono artisti fuori dal tempo. E.R.: Certo, perché i geni sono fuori tempo; per esempio Bach, si può dire che è un musicista del 700? Bach è un genio e basta.
Avete citato musicisti prettamente americani, quelli che hanno fatto nascere il jazz. Oggi però si parla molto di musicisti europei. Come mai il talento jazzistico si è spostato verso l’Europa?
F.D.: Non è che si è proprio spostato perché in America continuano ad esserci molti musicisti che suonano bella musica e nuova, però la scena in Europa si è allargata e ci sono più musicisti di prima. Forse questo genera un’attenzione di tipo diverso. Prima gli artisti europei si contavano sulla punta delle dita; per esempio Enrico che suonava con gli americani era un caso unico in Italia. Invece negli ultimi vent’anni anche grazie a queste connessioni, queste collaborazioni, piano piano è cresciuta la scena delle nuove generazioni anche in Europa e ci sono molti musicisti che sono altrettanto validi, che producono musica nuova e interessante. E.R.: Ai miei tempi vivere di jazz era praticamente impossibile; per cui i grossi talenti, i giovani talentoni, finivano nella musica leggera, nei night; gente come Piergiorgio Farina, Engel Gualdi, stiamo parlando di gente davvero strepitosa che invece ha fatto il mestiere della sala da ballo, mentre invece da parecchi anni in Italia si può vivere di jazz. Oggi ci sono centinaia di musicisti in Italia che vivono solo di jazz, alcuni bene, alcuni malissimo, però ci vivono mentre ai miei tempi che vivessero solo di jazz eravamo io e pochi altri. Ce n’erano tanti bravissimi ma dovevano suonare nelle orchestre. Il fatto che adesso sia un lavoro fa sì che i grandi talenti invece che andare nelle orchestre si mettono a suonare musica; e il jazz in questo modo cresce, crescono i ragazzi che la suonano. Si è creata una situazione molto favorevole rispetto agli anni ‘50, ‘60. Non c’è paragone.
Adesso vorrei chiedere a Francesco di spiegarmi il significato della copertina del suo nuovo disco; cosa vi è rappresentato?
F.D.: Un telaio birmano con una finestra illuminata sullo sfondo; l’ho scelta perchè rappresenta questo movimento che c’è nell’album a livello musicale; questo andare verso un qualcosa di non chiaramente definito ma comunque andarci, buttarsi, rischiare e trovare poi un equilibrio lì in quel punto.
Infatti si percepisce la ricerca di un suono nuovo che è un po’ il tuo obiettivo.
F.D.: Guarda, io suono una musica che è mia; poi magari sono influenzato da tante cose ma la mia musica rispecchia molto quello che sono, i miei gusti; per forza di cose si va a finire in qualcosa che esce dagli schemi troppo definiti.
Com’è nata la scelta di utilizzare il bassotuba al posto del basso o del contrabbasso?
F.D.: In realtà il bassotuba è nato prima del contrabbasso. E.R.: Assolutamente; inizialmente i musicisti che suonavano il bassotuba suonavano anche il basso; per marciare nelle bande usavano il tuba, quando suonavano da fermi nei locali suonavano il basso. F.D.: In realtà è come prendere un suono che richiama l’antichità e rimetterlo in mezzo ad una produzione musicale nuova e contemporanea. E questo crea un contrasto che mi piace molto. Poi il bassotuba ha molte possibilità timbriche e dinamiche che il contrabbasso non ha. Volevo sfruttare queste possibilità; infine ho incontrato Glauco Benedetti, un tubista straordinario e ho voluto sfruttare le sue qualità.
So che lei, Rava, è un appassionato di letteratura americana; cita spesso Fitzgerald e Kerouac; questo amore è nato nel periodo in cui ha vissuto nel Village newyorkese?
E.R.: Beh non ho vissuto a NY negli anni di Fitzgerald; sono andato là nel 1967, gli anni della Factory di Andy Warhol; ma più di Kerouac mi piacciono Carver e John Fante. Comunque non amo solo la letteratura americana; amo molto anche Proust e Thomas Mann. Diciamo che sono onnivoro. Un autore che per un certo periodo mi è piaciuto molto è stato Carver. Poi amo anche certi italiani come Fenoglio. Siccome sono un uomo di altri tempi, non amo la tecnologia e faccio le cose che si facevano una volta, quindi leggo i libri; mi piacciono i libri, mi piacciono gli oggetti; non ho nemmeno l’I-pod; non mi piace la musica liquida; mi piace l’oggetto, la copertina. Mi intristisce enormemente quando dicono che il disco sta sparendo. Col jazz ci stiamo salvando un pò perché rimane l’amore per il vinile ma la musica commerciale … oggi si scarica tutto; per me non esiste avere 30.000 brani in un affarino piccolo; già è difficile scegliere cosa ascoltare avendo molti dischi come nel mio caso. Quando ero ragazzino, 14, 15 anni avevo i 78 giri che duravano tre minuti e mezzo per facciata ed era meraviglioso perché questi dischi erano un tesoro pazzesco; quindi li ascoltavo mille volte; i dischi di allora, oggi, li posso fischiare dall’inizio alla fine perchè li ho ascoltati mille volte. Adesso che ho migliaia di CD non so mai cosa ascoltare. Troppo, too much. Immagino poi con l’I-pod o strumenti di questo tipo. Come si fa? Infatti in macchina ho il lettore e quando faccio un viaggio lungo decido cosa ascoltare e prendo due, tre CD e li ascolto magari due o tre volte. E’ un ascolto più mirato, più consapevole; l’abbondanza in certi casi anzichè essere libertà è una prigionia. Giuro che ho nostalgia dell’epoca dei 78 giri, ma non perché ero un ragazzino ma perché mi godo i dischi molto di più di quanto me li goda adesso.
Infine vorrei parlare di un musicista meraviglioso, Michel Petrucciani con cui lei ha suonato.
E.R.: Poco purtroppo.
Qualche anno fa ho visto un documentario su di lui e mi hanno colpito la sua passione per la vita e la sua forte personalità; nonostante la sua malattia proclamava di sentirsi bellissimo e amatissimo, soprattutto dalle donne.
E.R.: E’ vero; non è che si sentiva, lui ERA amato dalle donne. Aveva sempre un sacco di donne bellissime; quando l’ho conosciuto aveva 17, 18 anni ed era come un bambino indifeso. Quindi suscitava tutta la tenerezza di un bambino e allo stesso tempo era assolutamente geniale; allora c’erano queste due cose insieme: l’ammirazione per il genio e poi la tenerezza per il bambino indifeso, uno che lo mettevi lì e potevi ammazzarlo con un dito. Aveva questa malattia congenita, aveva le ossa fragilissime per cui quando suonava troppo forte si rompeva le dita; però nel giro di tre o quattro giorni guariva; era molto strano perché le sue ossa fragili erano come cartilagini che si danneggiavano in fretta. Tutti quelli che lo conoscevano, uomini e donne, sentivano la necessità di aiutarlo e gli volevano bene. Lui si faceva volere bene da subito. Era irresistibile. Poi era divertente, spiritoso e suonava da Dio; si sentiva amato perché era amato. Pensa che quando aveva 18 anni voleva andare negli Stati Uniti, un suo amico lo portò in California, e dopo pochi giorni era triste perché non poteva suonare; questo suo amico conosceva il giardiniere della villa di Charles Lloyd, un sassofonista bravissimo e visto che Charles Lloyd era a New York e la casa era vuota, lo portarono lì per suonare e studiare; quando arrivò cominciò a suonare e combinazione arrivò la moglie di Charles Lloyd che doveva essere a NY, lo sentì, e subito chiamò il marito dicendo: “Charles stai cercando un pianista? Ce l’ho io”. Lui tornò a casa e dopo una settimana suonavano già insieme. E da lì è partita una carriera strepitosa. Era un vero fenomeno.
Articolo del
15/12/2015 -
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