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3X3+1+3. Non è un’equazione né lo schema di una squadra di calcio, ma la formula del disco d’esordio delle I’m Not A Blonde (But I’d Love To Be Blondie). 3 EP, per 3 brani ognuno, più una cover e tre remix. Loro sono un duo electro-art-pop al femminile che propone un’irresistibile e stratificata miscela sonora d’avanguardia, rifacendosi ad artisti come Moloko e Tune Yards ma anche ad ascolti lontani dall’elettronica tout-court. ”Introducing I’m Not A Blonde” contiene i 3 EP che le due musiciste milanesi hanno pubblicato tra settembre 2014 e maggio 2015 – intitolati didascalicamente EP01, EP02 e EP03 – una cover di Battiato e tre remix ad opera di altri artisti. Della loro aspirazione ad essere Blondie ne parliamo con Camilla Matley, una metà della band, in una pausa del mini-tour che stanno tenendo in giro per l’Italia.
Volevo partire chiedendoti dell’inizio del vostro percorso insieme. Ho letto che vi siete incontrate quasi per caso.
Sì, io cercavo una cantante per un altro progetto e un amico comune mi diede il contatto di Chiara (Castello, l’altra metà della band, ndr). Quel progetto, però, di fatto non è mai partito ma nel frattempo avevamo iniziato a provare e registrare insieme e la cosa ci era piaciuta al punto da decidere di andare avanti comunque.
Immagino che vi troviate alla perfezione anche in fase di scrittura. Il che, essendo solo in due, è anche più facile.
Il nostro è un processo a due che può nascere dall’improvvisazione oppure partire da un riff che viene in mente ad una delle due e su cui l’altra si mette a lavorare, improvvisando o aggiungendo qualcosa. Poi il risultato prende la direzione inversa e torna alla prima che aveva avuto l’idea per un ulteriore, eventuale, rimescolamento.
Un continuo rimpallo fra l’una e l’altra, quindi.
Sì, che va avanti finché l’idea non prende una forma definitiva. Devo dire che quando mettiamo mano l’una alle cose dell’altra si spostano nettamente i riferimenti. E questo rimetterci continuamente in discussione è qualcosa di molto bello e forse anche il nostro punto di forza.
Con questo lavoro d’esordio avete fatto un po’ quello che le band facevano negli anni ’60, quando gli LP erano la raccolta dei 45 giri usciti fino a quel momento.
Verissimo. Diciamo che la ragione principale per cui “Introducing I’m Not A Blonde” è composto dai nostri tre EP è che pensavamo fossero dei buoni lavori e non volevamo che cadessero così presto nell’oblio. Allora abbiamo pensato di raccoglierli su un supporto che gli rendesse giustizia, completando il tutto con una cover e tre remix realizzati da nostri amici.
I brani li avete composti tutti insieme e poi rilasciati su EP a scadenze regolari oppure sono stati scritti nel tempo?
Nel tempo. Uscito un EP ci mettevamo a scrivere il successivo. E infatti credo che la differenza si senta. Poi nella scaletta del disco abbiamo mischiato i brani perché nella percezione che ne avevamo ci interessava una suddivisione tematica più che temporale.
Quali ascolti vi hanno influenzato?
Guarda, ascoltiamo così tanta roba che è difficile stabilire a posteriori che cosa ci abbia influenzato in ogni singolo brano o frammento dello stesso. E sinceramente neanche mi ricordo cosa ascoltavamo in ogni fase. Mi ricordo giusto che tra il primo e secondo EP ascoltai molto il disco dei Wild Beasts, anche se paradossalmente questa cosa non arriva molto.
Grandissimi, i WB!
Sì, mi piacciono un sacco di cose di quel periodo, dai Talk Talk – che appunto i Wild Beasts ricordano parecchio - ai Cure. Sono tutte influenze che mi sono portata dietro negli anni, ma poi – come ti dicevo - è difficile stabilirne la misura in quello che fai quando tiri fuori qualcosa di tuo.
Oltre alle influenze dichiarate, voi siete ascoltatrici abbastanza onnivore. Nel giochino di indovinare i riferimenti, nel vostro caso si potrebbe andare avanti all’infinito azzardando anche accostamenti impensati. Per esempio i Garbage…
Sicuramente tra i nostri ascolti anni ’90 rientrano anche loro. Ma c’è pure tutta la scena rock di Seattle – ecco il motivo per cui ci teniamo alla chitarra - e ovviamente la musica elettronica. Ci piace prendere quei suoni e attualizzarli, la nostra ricerca è finalizzata ad adattare le cose passate alle possibilità offerte dalla tecnologia odierna.
Per la cover perché avete scelto “Summer On A Solitary Beach”, che è un brano in italiano, mentre i vostri pezzi sono in inglese?
Volevamo fare qualcosa di diverso dal solito. Sulla scelta di Battiato, il motivo è che è uno dei miei artisti preferiti, uno che ha rivoluzionato la musica italiana, specialmente negli anni ’70. Era un musicista molto moderno per il suo tempo, ha sperimentato e fatto cose che ancora oggi si ravvisano nella musica che gira.
Allora perché non un brano da “Pollution” o “Clic”, che in quanto a sperimentazione erano più avanti dei pur grandiosi lavori del Battiato post-Cinghiale bianco?
Ma a me piaceva Summer…. E poi quando abbiamo deciso di farla eravamo alla fine dell’estate, quindi il mood si sposava alla perfezione.
In casi come il vostro la sfida è anche riuscire a portare le sonorità del disco su un palco, dal vivo. Voi come fate?
Facciamo tutto in due. Campioniamo i suoni col computer e li riportiamo nel live aggiungendoci chitarra, synth e campionamenti della voce. Anche le parti ritmiche sono pre-registrate, quindi neanche del batterista abbiamo bisogno. Almeno per ora, in futuro chissà.
Date parecchia importanza anche al look, mi sembra, specie nei video e nelle foto promozionali. Un look magari non troppo glam ma che si ricorda.
E’appunto una questione di riconoscibilità. L’aspetto visivo è importante, ce lo insegna la storia della musica. Fin dagli anni’70 c’è sempre stato questo legame tra musica e immagine. Per quello che ci riguarda, ci piace sempre indossare qualcosa che resti impresso fin dal primo momento perché in un’epoca come la nostra, dove le immagini e gli stimoli sono moltiplicati a dismisura per mezzo dei social, se riesci ad avere un’identità forte hai più possibilità di essere ricordato. Anche a livello cromatico, per ciò che riguarda il look.
Quali sono secondo te le band italiane con cui sentite di condividere un percorso?
Non ci ho mai pensato, e sicuramente non ci sentiamo parte di nessuna “scena”.
Articolo del
12/02/2016 -
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