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Quella degli Appaloosa, band livornese sulla scena da più di quindici anni, è un’avventura che ha raccolto consensi sia in Italia che all’estero grazie ad una miscela sonora ad alto tasso di sperimentazione che si è affinata nel tempo. ”BAB”, in uscita a febbraio su Black Candy, è il loro sesto lavoro ed è un ulteriore passo compiuto dalla formazione labronica nella definizione di un sound unico e riconoscibile. Una formula ibrida a base di rock ed elettronica che qui trova sostanza in undici tracce cupe, stranianti, sporche, ritmate. Ne parliamo con il batterista Marco Zaninello.
Se “Trance44” era in parte influenzato da sonorità orientaleggianti, quali ascolti vi hanno maggiormente ispirato a questo giro?
Cosa ci abbia inspirato in particolare non saprei dirtelo, rispetto a “Trance44” questo disco è orientato verso un suono scuro e sporco e c’è molta più presenza di elettronica nelle canzoni. Negli ultimi periodi le cose che abbiamo ascoltato insieme magari in furgone o nel tempo libero sono state Talking Heads, Devo, Death Grips, Four Tet, Aphex Twin, Angola 70’s , Movie Star Junkies, Koonda Holaa, Scorpion Violente.
Spesso gli album venuti fuori durante i tour nascono dall’esigenza di incanalare in qualche modo l’energia dei live. E’ stato così anche per “BAB”? Penso che avendo composto e registrato il disco durante le pause tra i concerti il lavoro è stato influenzato da tutto quello che un tour ti lascia addosso, quindi i live, i viaggi, i posti visitati, i concerti visti e le persone conosciute, ogni volta vedi o succede qualcosa che ti colpisce. Anche lo stress e la stanchezza sono molto ispiratorie. Il disco si chiama così in onore di un nostro grande amico e promoter svizzero, che gravita all’interno di un interessante circuito di base alla Chaux de Fonds. In questi due anni abbiamo suonato spesso là e visto parecchi concerti, davvero una bella scena molto fuori di testa, tra cui il Freak Show, che è un circo itinerante il quale gira tutta Europa con concerti, spettacoli e performance di ogni tipo a cui abbiamo partecipato la scorsa estate durante una pausa dalla produzione del disco. Penso sia stato tutto di grande ispirazione.
Ho l’impressione che questo lavoro abbia un pò meno a che fare con la componente psych/trance/ipnotica – pur presente - e col concetto del “suonare-come-un’unica-traccia”, e si presenti invece più “masticabile”, seppur ancora lontano dalla forma-canzone.
Non ci siamo prefissati di produrre un disco più o meno masticabile, ne di seguire particolari schemi e concetti. Ad un certo punto delle produzioni ci siamo resi conto che le canzone erano tutte tendenti ad un suono più scuro e sporco del passato e a quel punto abbiamo come esasperato questo aspetto.
Le atmosfere sembrano più notturne e penetranti dei lavori precedenti, penso a brani come ‘Longimanus’ o ‘Ketama Gold’. Siete d’accordo?
D’accordissimo. Anche se non ci siamo prefissati niente, era da un po’ che bolliva nella nostra testa di fare un disco del genere, distorto e scuro.
Musica elettronica e registrazione in presa diretta: in effetti sembra un ossimoro. Come siete riusciti a conciliare questi due aspetti apparentemente agli antipodi in un disco che peraltro suona parecchio “synth”?
Il fatto di aver usato suoni e campionamenti molto sporchi e aggressivi ha fuso bene la parte elettronica con la nostra base strumentale che è sempre stata tendente alla “non pulizia” in termini di suono e ad una certa tensione e intensità. Una cosa su cui abbiamo giocato molto è stata distorcere più o meno tutto, la batteria i synth, l’elettronica e i bassi, e cercare di far suonare le parti elettroniche il meno pulite e chiare possibile. Questo ha dato al disco una pasta omogenea, almeno era quello che cercavamo come sound.
Anche in BAB c’è totale assenza di parti cantate, ad eccezione del biascichìo indistinto di ‘Creepy’. Pensate che prima o poi lavorerete su questo aspetto?
In più di 10 anni non è ancora successo, ma mai dire mai.
Un vostro concerto è innanzitutto un’esperienza fisica, e l’interazione col pubblico avviene in maniera automatica, vera, senza preamboli né finte strizzatine d’occhio. Volevo chiedervi come riuscite a creare questa empatia e in che modo percepite la risposta del pubblico mentre suonate.
Noi semplicemente suoniamo, ci divertiamo e ci sfoghiamo tantissimo. Il nostro fidato fonico Fabio Fantozzi lavora per far uscire tutto questo al meglio dall’impianto. Cerchiamo di fare scalette evitando pause e momenti morti ed usando intermezzi che uniscono le canzoni così che la tensione non cali mai nemmeno a noi. Non parliamo molto né interagiamo col pubblico perché è un aspetto che non ci viene spontaneo, sarebbe innaturale farlo, cerchiamo di far fare tutto alla musica.
Tornerete in tour dopo le date europee di fine 2015?
Si, il tour italiano inizierà a fine febbraio e quello europeo a metà aprile.
Da alcune foto on-line degli ultimi concerti ho visto che curate parecchio anche la componente visiva dei vostri show, le luci in particolare. Molte band non prestano la dovuta attenzione a questo aspetto, rivendicando la primazia della musica sul resto, ma secondo me è una parte essenziale dello spettacolo.
Certo la componente visiva è molto importante, penso che per funzionare non debba per forza essere una cosa complessa, anche con scelte molto minimali si può ottenere un ottima atmosfera. Stiamo ancora studiando il nuovo spettacolo che proporremo tra poco in Italia.
Voi siete una delle poche band italiane ad esibirsi regolarmente anche all’estero. Che differenze ci sono in termini di cultura musicale tra il pubblico italiano e quello – chessò – tedesco o francese? C’è una differente educazione all’ascolto e apertura verso le cose nuove?
Penso di sì, per la nostra esperienza in Europa abbiamo impiegato 3 anni a fare quello per cui in Italia ne abbiamo impiegati 10. Se in un posto il concerto viene apprezzato, le volte che torni il pubblico cresce esponenzialmente. Siamo entrati in contatto con molti circuiti, con promoter che curano un certo tipo di programmazione, con proposte spesso di progetti sperimentali molto fuori dagli schemi, e il pubblico è abituato e sempre ricettivo. In Italia le situazioni ci sono e anche il pubblico, ma in media non è molto interessato a proposte diverse, c’è molta meno curiosità e apertura mentale. Si nota anche dai dj-set e dalle selezioni musicali la differenza tra quello che viene proposto qui e quello che c’è fuori dal confine.
Ci sono, secondo voi, band italiane che negli ultimi anni hanno raccolto e tenuto testa alla sfida di unire rock ed elettronica come fate voi? Penso agli Aucan, ad esempio, ma anche alla scena toscana, che senza dubbio conoscerete a fondo.
Con questo approccio ci piacciono molto i Quasiviri, con cui abbiamo suonato ultimamente. Davvero un progetto interessante.
(foto © Igor Grbesic)
Articolo del
19/02/2016 -
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