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Il 1 giugno del 2017, Sergeant Pepper’s lonely hearts club band compie 50 anni. In un appassionato articolo in tre puntate, Marco Di Pasquale ripercorre la genesi e i significati di questa opera (seconda parte)
La canzone Sergeant Pepper’s lonely hearts club band apre l’album, e su questo non c’è dubbio, e lo dico perché dubbi ce ne possono essere per la fine. Il testo introduce esplicitamente un'altra band che si esibirà, non i Beatles quindi. Cosa strana da dire subito e che nessuno ha mai notato credo: il cantante introdotto si chiama Billy Shears, accompagnato dalla Band dei Cuori Solitati del Sergente Pepe; tutti pacificamente hanno sempre visto questo alter ego come Ringo Starr, perché canta la canzone successiva, che sembrerebbe proprio quella che canta la band; fin qui tutto ok, se non che il film Yellow submarine, mentre si presenta Shears, viene indicato John Lennon dai tre Beatles rimanenti. Poi nel film parte una censurata With a little help from my friends, sfumata gradualmente fino a non far sentire i versi incriminati che recitano «I get high with a little help from my friends», cioè «mi sballo con i miei amici»; effetto di questa censura (scandalosamente bigotta anche per l’epoca direi) è che la canzone successiva, dopo alcuni minuti di trama senza musica, diventi All you need is love; questo non basta secondo me, perché sicuramente il progetto grafico precede di molto la censura. Qui si commette il solito errore dilettantistico di certa critica musicale: identificare protagonisti della realtà con protagonisti della finzione. Billy Shears non è Ringo Starr e non è neanche John Lennon, così come i Beatles non sono la Band del Sergente Pepe: questa è letteratura, è finzione, è racconto, è fantasia, non una semplice trovata del gruppo o del produttore George Martin. Bisogna iniziare a pensare a queste cose da critica non interessata al gossip o alla corrispondenza tra messaggio e realtà del personaggio. Il film Yellow submarine narra di un posto fantasioso chiamato “Pepperland” in cui regna l’amore; i “biechi blu”, che non vogliono essere felici, cercano di distruggerlo; i Beatles arrivano in soccorso, e incontrano i loro alter ego, la band del sergente Pepper; insieme liberano Pepperland dall’attacco dei biechi blu e invitano anche gli stessi invasori a festeggiare; alla fine del film, l’animazione sfuma in una scena reale dove ci sono i Beatles in carne ed ossa che salutano il pubblico. Tutto risulta come un grande gioco delle parti, in cui il gruppo si sdoppia nelle sue tante personalità, e mette in risalto la confusione tra compositore e personaggio, che proprio con i Beatles (o forse Elvis prima di loro) invade il pubblico del mondo. Ma la loro arte non deve coinvolgere anche le loro personalità.
La canzone quindi apre a un mondo in cui la Band dei Cuori Solitari col suo cantante Billy Shears cantano le canzoni che seguono. La chitarra è distorta alla Jimi Hendrix, e portata a creare una sigla che non suona tale solo per la sua timbrica molto forte: è uno show unico, e al pop che forse non è abbastanza magniloquente si aggiungono i fiati. Il middle height cantato da John Lennon è la frase di Billy Shears che parla al pubblico, l’unica vera e propria sua manifestazione al di là delle canzoni successive; ecco perché nel film si indica lui e non Ringo Starr, perché all’interno di quello stesso pezzo c’è l’unica esplicitazione di Billy:
It’s wonderful to be here, it’s certainly a thrill. You’re such a lovely audience. We’d like to take you home with us, we’d like to take you home.
Detto questo riprende il presentatore impersonato dalla voce di Paul McCartney, e quindi questa canzone non introduce ingenuamente alla successive, ma a tutto l’album, eccezion fatta direi per A day in the life, che trovandosi oltre il reprise, è idealmente fuori dallo spettacolo, e guarda caso si chiama “un giorno nella vita”. Questo è il primo straordinario affresco presentato dall’album: si scontrano i mondi possibili, e c’è tempo anche per un’escursione nella vera e propria realtà. È lo stesso gioco che avviene nel film: i personaggi Beatles che sembrano persone introducono alla Band dei Cuori Solitari, salvo poi diventare i veri e propri Beatles alla fine del film, ma anche qui sono ancora personaggi. Infatti non dobbiamo cadere nell’errore e dobbiamo capire i vari livelli di realtà.
(Livello 0: Beatles persone reali) Livello 1: Beatles di A day in the life Livello 2: Beatles che presentano Livello 3: Band dei Cuori Solitari del Sergente Pepper
Al livello 0 non si è interessati per far critica sull’opera, a meno che non si voglia dare qualche informazione interessante, come dire che Lennon e McCartney erano stati a concerti di Jimi Hendrix in quel periodo, e la sua influenza sullo stile chitarristico si evince palesemente nell’album. Ma non c’è bisogno del livello 0 per dirlo, tutt’al più un confronto di date per sapere se questo sia possibile. Anche se non fossimo a conoscenza del reale contatto, si sarebbe evinto lo stesso.
Tornando a noi: l’album comincia quindi al livello 2, e la canzone in questo modo introduce al repertorio intero della band; ecco che il concept album comincia qui. I Beatles ci portano a un concerto, e facciamo finta di assistere al livello 3: è da vent’anni che si prepara la Band, e ora finalmente è pronta per esibirsi. Un bel coro sulla parola “Shears” ci porta al pezzo successivo.
Ecco il primo vero pezzo della Band, siamo all’inizio del nostro livello 3, e lo spettacolo che ci si presenta davanti è emozionante: With a little help from my friends non è stato trasformato in inno da Joe Cocker, ma nasce come tale proprio nel suo non essere inno. Il suo carattere profetico e i suoi versi misteriosi sono entrati nella storia. La scelta di Ringo Starr è spia della giocosità, ma anche della sua sacralità: per il pezzo d’apertura si è scelto di usare una voce insolita, una che non si sentirà più nel resto dell’album, o almeno non da sola. E di sacro questa canzone ha tante cose: la sua normalità per così dire, il suo essere un classico esempio di pop moderno, di rock anche per la sua timbrica, fuori dagli standard soliti dei Beatles e di tutti i suoi imitatori, ma ancora negli standard. Come se si fosse compiuto già un lungo percorso attraverso tutto quello che sarà la storia del rock, della musica del novecento, delle ribellioni sociali, del ’68, del pacifismo: tutto questo sembra appartenere al passato anche se inizia qui, con queste frasi enigmatiche di Ringo Starr. «“Che cosa vedi quando spegni la luce?” Non posso dirtelo, ma so che è mio.» Questi sono i versi che entreranno nella storia, che diventeranno un inno insieme a qualcun altro di A day in the life. Che cosa si vede quando si spegne la luce? La morte? Il sogno? Il nulla (che, come disse qualcuno, già sarebbe qualcosa)? Oppure è la luce della ragione? Quando spegni la parte conscia del tuo cervello ti ricongiungi con te stesso. Il lume della ragione finalmente si spegne, e tutto appare avere un senso, tutto ci appartiene. La canzone è anche permeata di amore, e la frase prima diceva proprio: «”Credi nell’amore a prima vista?” Sì, sono sicuro che accade sempre così».
Il vero amore è irrazionale, è a prima vista, senza l’uso della ragione; ecco perché a luce spenta non riesce Ringo Starr a dire che cosa vede, perché non ha la ragione che glie lo fa razionalizzare ed esprimere, ma sa che gli appartiene, sa che è l’amore perché lo sente in altro modo. E nel paradosso c’è la poesia più pura: l’amore a prima vista si manifesta quando si spegne la luce. Mi piacerebbe citare: “ora che ho perso la vista ci vedo di più”, oppure una battuta di Bergonzoni decontestualizzata, “il terzo occhio mi esclude gli altri due?”. Sentire veramente con l’anima, e non coi cinque sensi. Chi ha voglia poi di parlare del Livello 0 vorrà spiegare questo sentire come la meditazione che stavano intraprendendo, o se maligni con l’assunzione di droga. Si è incapaci quando si spiegano razionalmente queste cose, di essere d’accordo con chi crede in un sensismo infantile, nell’amore del neonato. Sull’infantilismo i Beatles hanno costruito almeno un decimo del loro repertorio: Hello goodbye, Yellow Submarine, All togheter now, O-bla-di O-bla-da, Octopus’ garden e molto di questo album. E anche nei loro repertori solisti, tutt’e quattro hanno sempre continuato questa vena infantile fonte di ispirazione e di senso, perché staccata da un eccessivo uso della ragione.
Quale migliore conseguenza di questo vedere con la mente se non un caleidoscopio di immagini fantasiose quale Lucy in the sky with diamond: questa canzone chiude il trittico d’apertura, e lo fa in maniera esemplare, arrivando anch’essa a un punto di svolta nella storia del Rock, elevandolo per musica e testo a qualcosa di alto, qualcosa con del valore. La polemica tra musica colta e popular music ha qui il suo duello da scena madre a favore della seconda, anche se probabilmente non è l’ultimo duello. Non che la popular music abbia bisogno di giustificarsi alle orecchie della musica classica per esistere, ma insomma poter sbattere in faccia Lucy in the sky with diamond è una bella soddisfazione. Il riff iniziale con la strofa e il ponte è ciò che musicalmente la rende alta eppure coi piedi per terra, fantasiosa ma accessibile a tutti, complessa ma non complicata. Senza andare eccessivamente nel tecnico, il riff è costruito sull’armonia della strofa, ma l’inizio ne contraddice la logica discendente, cioè la strofa è costruita sulla progressione armonica discendente che vede gli accordi di LA, LA7 che quindi ha il basso SOL, RE che quindi ha il basso FA#, e un FA oppure RE- che comunque avrebbe il basso FA; il riff elude la scala discendente dei bassi (LA SOL FA# FA) perché fa iniziare il primo accordo con il basso MI, quindi la conclusione dell’ipotetica scala, che andrebbe anche bene, ma poi chiaramente l’arpeggio è sul LA, e anche la strofa lo sarà. È un tentativo di smarrire l’ascoltatore che inconsciamente vorrebbe all’inizio una scala che parte dall’ultima nota, cioè in questo caso MI SOL FA# FA, ma poi la canzone dopo il breve riff parte con la scala LA SOL FA# FA, e non sembra strano perché in effetti l’armonia dell’arpeggio era su questa base. Oltre a questo il 3/4 che non è un valzer (e neanche un valzer lento), ma qualcosa di sospeso, e di inusuale perché i 3/4 erano stati usati sì dai Beatles, ma sempre per middle eight o parti secondarie, e anche dagli altri gruppi di questo genere. Qui ci si discosta da entrambi i lati, cioè dalla tentazione classica di un valzer su cui ballare, e un 4/4 che osa il dispari solo più tardi, e invece vedremo che sarà il contrario perché il ritornello è proprio un tempo pari.
La melodia sospesa e sognante che canta John Lennon è la ciliegina sulla torta: al costo di sembrare fastidiosa la melodia rimane su quelle note un po’ alte, scostandosi di poco su quest’armonia fragile, e incastra un testo d’autore con immagini poetiche e sognanti su una metrica molto raffinata per essere un 3/4. «La ragazza che ha gli occhi caleidoscopio» è l’immagine principale che può riassumere questo testo, che vede uno sdoppiamento di persona della protagonista, come se lei vedesse se stessa in queste immagini da favola. So cosa state pensando: è la droga, e Lucy in the Sky with Diamonds è l’acronimo di LSD. Sì, potrebbe essere, nel senso che al Livello 0 ci potrebbe essere un’ispirazione dovuta all’assunzione di acidi. Sì ma quindi? Se vi basta questo per placare le vostre coscienze da una spiegazione, accontentatevi pure, in realtà ci vorrebbe un’esegesi più particolare dei versi, con varie ipotesi non campate in aria. Brevemente io posso ricondurre sempre all’esperienza della meditazione, del capire se stessi fuori di sé. Il vedersi vivere della filosofia buddista, con la coscienza dell’anima fuori dal corpo sofferente, e per questo sognante, è parte della musica della strofa. Mentre il ponte è il rientro nel corpo: il suo 3/4 che diventa sempre più pressante per il basso e per le percussioni, con la melodia che smette pian piano di essere sognante, fino a quando scende sul verso «and she’s gone», come a dire che quella persona sdoppiata sia scomparsa. E poi il famoso ritornello che tutti dicono sembri giustapposto alla canzone: un 4/4 con un’armonia normalissima e una melodia scontata, e che ripete solo le parole del titolo. E in effetti musicalmente lo stacco sembra netto, con quei quattro colpi di timpano solitari che collegano le due parti; ma il finale del ritornello no, perché armonicamente fa tornare conseguentemente alla strofa, in un’ascesi mistica quasi. E nella dialettica tra classica e popular ecco lo schiaffo morale: non c’è bisogno di altro per essere giustificato, il pop può essere se stesso alla fine.
E il tutto, spiegato così, spero sia chiaro anche a voi. Lucy in the sky with diamonds racconta del viaggio mistico di una persona, in questo caso una donna, ma potrebbe anche essere un uomo che vede se stesso nella sua componente femminile. La canzone comincia dal mezzo dell’ascesi ormai in atto, torna pian piano nella dimensione materiale, anche se poi si sente quasi un tonfo dell’anima che cade nel suo corpo e sembra che rimbalzi come una palla che cade a terra (i quattro colpi di timpano). Una volta tornata nel suo corpo, l’anima riesce solo a dire, forse a desiderare, quello che ha visto, cioè una Lucy che brilla nel cielo con delle stelle o dei diamanti. E con questo desiderio e un po’ di concentrazione torna nell’ascesi. Compie di nuovo lo stesso percorso, poi torna nell’ascesi dalla quale cade con il tonfo e senza la gradualità, e quindi rimane nel corpo, perché la Band dei Cuori Solitari deve continuare a suonare di cose più pragmatiche, e infatti Getting better sarà un ritorno alla terra.
Inizia quindi poi la parte centrale, il repertorio del centro della band e che contiene fino a Lovely Rita delle canzoni non sempre ineccepibili. Anzi, facendo un rapido resoconto preliminare, non sono un granché considerando i lavori precedenti di Revolver e Rubber soul, e ancor più dei successivi come Abbey road: Within you without you è forse la peggiore canzone di Harrison dentro un album dei Beatles; Lovely Rita sembra un singolo di un gruppo di sedicenni; She’s leaving home è una brutta, direi bruttissima copia mal riuscita di Eleonor Rigby; Getting better e Fixing a hole se non sono degli inni alla droga, sono comunque delle canzoni mediocri; invece Being for the benefit of Mr. Kite e soprattutto When I’m sixty-four sono dei capolavori degni della cornice dell’album. In ogni caso non sono canzoni dei Beatles (parlando di finzione), ma della Band del Sergente Pepe, e tali si devono considerare nel leggere il testo. Data questa condizionale ribadirei il disappunto del mondo di fronte a Lovely Rita, che pur con tutti gli sforzi da fan, è notoriamente una canzone che sembra ripescata dai primi album dei Beatles, e messa lì senza alcun senso, se non quello di far risaltare per inventiva e bellezza la successiva Good morning good morning. Sul mito di si potrebbe quasi scrivere un libro, presa sempre come esempio di un passo falso del gruppo proprio mentre stanno compiendo il loro capolavoro, e quindi poi resa immeritatamente famosa, e quindi scambiata per pezzo da ricordare nella discografia beatlesiana. Ma è proprio la confusione tra arte e realtà (che stavo accennando più su) che porta al mito senza passare per un giudizio critico. Come un chewing-gum masticato da Paul o John, Lovely Rita si è insinuata nel collezionismo fanatico di chi vuole la gomma più masticata, non quella più buona. Tra tutti i documenti e i documentari che possono far capire cosa abbiano fatto i Beatles al mondo, suggerisco alle nuove generazioni che non conoscono bene il fenomeno, di guardare un film di finzione: Allarme a New York: arrivano i Beatles, una storia divertente che mette in luce la realtà meglio del resoconto dei fatti, un po’ quello che fa quest’album.
Procediamo quindi in ordine con Gettin’ better, la quale affronta, abbiamo già accennato, problemi più pragmatici, anche se per questo non meno importanti. Paul McCartney costruisce una canzone che rimane sempre molto ritmica anche quando la batteria si ferma per un po’, e ci lascia un senso ambiguo di ironia: non si sa se le cose stiano andando meglio o no, forse perché peggio non potrebbero andare. Questi miglioramenti nei rapporti sociali sono sempre rapportati a un io che si confronta con una donna, come spesso accade nelle canzoni dei Beatles. La vicenda del reale si inserisce nella micro dimensione quotidiana: la situazione dell’oppressione scolastica e del maltrattamento delle donne è anche la storia dell’io a scuola e con la sua donna. Canzone ambigua quindi, di passaggio se vogliamo, che ci porta nella parte centrale ricca di temi lontani da quelli profondi della cornice; in questa spensieratezza When I’m sixty-four risulterà con la sua semplice ironia l’approdo migliore. Ma prima c’è altro.
C’è Fixing a hole che quasi sembra fare coppia con Getting better per stile e composizione pianamente ritmica. La reciproca indifferenza qui si riversa nell’indifferenza dell’io verso ciò che accade nel mondo esterno. Il protagonista del pezzo sembra impegnato ad aggiustare un buco nel suo tetto da cui entra la pioggia, e non si accorge che aggiustare solo il proprio tetto non serve a niente se fuori le persone continuano a litigare per cavilli ideologici che non riguardano chi pensa solo al proprio tetto. Anche qui l’allusione alla droga sembra involontaria se c’è, e come sempre poco pertinente alla costruzione del significato. Certo che se devo scegliere la canzone più vicina all’ispirazione da sostanze stupefacenti, non ho dubbi su questa, in barba a Lucy Sky Diamonds: se leggiamo il buco come quello dall’eroina, l’ago che aggiusta, la pioggia che non cade più ovvero il pianto e la sofferenza (e qui un collegamento malizioso alla canzone precedente in cui qualcosa ci fa sentire meglio), e poi la mente che in questo modo non vaga più, ecco che il discorso sull’indifferenza e l’isolamento prende una piega molto sinistra. Ma sono letture forse forzate, e l’atmosfera positiva dell’album ne impedisce una conferma. Questa è tutt’al più la disamina dell’uomo nella società, da cui cerca di fuggire per tornare al suo momento ascetico, consapevole che la dimensione terrena non si può abbandonare e ci sarà sempre.
Come annunciavo, She’s leaving home è uno dei momenti più bassi dell’album. Sia musicalmente, con la sua riduzione di Eleonor Rigby a maniera, ma regredendo, e si confronti la varietà melodica e armonica delle due canzoni nel ritornello. Sia per il testo: la vaghezza della storia lascia un po’ perplessi, nonostante sia abbozzata con tratti finissimi di descrizione; ma il tema della ragazza che se ne va di casa poteva essere meno didascalico nel rapporto tre lei e i genitori. Risulta comunque sempre un momento funzionale dell’album, per la sua tematica sociale lontana da ascesi mistiche, e quindi nel punto giusto.
La canzone successiva è una delle tante genialità di John Lennon, Being for the benefit of Mr. Kite: è noto che l’ispirazione venga da un manifesto da circo d’epoca vittoriana, di cui studiosi hanno anche riportato il testo, che ha ispirato parte dei versi. La genialità di voler riprodurre il suono degli oggetti, o meglio di un’atmosfera incontra la genialità del produttore e musicista George Martin, che fa assumere alla musica già bella esplicativa una connotazione da circo vittoriano, grazie alla timbrica di suoni originali dell’epoca. John Lennon era solito voler riprodurre l’atmosfera sonora di alcuni oggetti, ad esempio un’arancia, come ebbe a chiedere una volta. Si mette così un altro mattone nel muro del rock, e la metafora non è casuale: questo modo psichedelico di riprodurre le sonorità ha qui la sua prima consacrazione, mentre contemporaneamente i Pink Floyd e pochi altri stanno tentando gli stessi esperimenti. Certo la produzione che hanno alle spalle i Beatles li aiuta ad ottenere risultati più veloci, e nonostante lo studio di John Lennon sia più breve come durata temporale, i risultati arrivano prima. Si vuole dire che sembra quasi un’ingiustizia che il lento lavorio dei Pink Floyd abbia bisogno di anni per arrivare a un risultato soddisfacente, mentre i Beatles passano dal cantare lo stupido amore adolescenziale alla mimesi artistica degna di Vivaldi e Couperin nel giro di un anno (e anzi, tra un po’ arriverà Lovely Rita, quindi in realtà non hanno ancora abbandonato l’ingenuità dei Beatles for sale). L’intuizione è quella di un testo che dà connotazione definitiva al pezzo, cioè che faccia uscire la musica dalla sua polisemia per entrare nell’imbuto di un’oggettiva significazione. Tutto ciò senza raccontare una vera e propria storia, ma ricreando un’atmosfera quasi pubblicitaria, e Good morning good morning con A day in the life concluderanno questo filone mimetico in maniera sublime, e infatti si può quasi ricavare una sottotrama nascosta dallo stesso Lennon in questo senso, che cerca di produrre tre diversi stadi della mimesi musicale: la riproduzione dell’oggetto in sé qui, il sentimento che suscitano gli oggetti in Good morning…, e invece l’effetto dei sentimenti sugli oggetti alla fine dell’album.
Nell’economia dell’album Being for the… sembra quasi uno stacco pubblicitario di uno spettacolo successivo, estraneo alla Band dei Cuori Solitari, e siamo infatti alla metà esatta dell’album, e quindi a un’ipotetica pausa del gruppo che aspetta dietro le quinte la fine dello spot; un Livello 2, quindi non Livello 3, in cui sembra parlare il presentatore. È solo un caso che la canzone successiva cominci con «we were talking about», come se si volesse riprendere il discorso lasciato in sospeso con la pubblicità?
E di cosa parla Within you without you? Come molti hanno scritto, è la parte del sermone, l’esplicitazione della superiorità dell’introspezione sul materialismo. Insomma una canzone didascalica che non era necessaria. Il manicheismo tra i buoni spirituali e i cattivi materialisti è qui spiattellato, realizzazione pop della filosofia musicale indiana. Per trovare interessante questo pezzo consiglio l’ascolto de L’eterna lotta tra il bene e il male di Elio e le Storie Tese, in cui il didascalico inventato da Harrison (e in parte da Lennon) funge da contraltare a una bieca spiritualità italiana cristianizzante che ha solo del superstizioso. Tornando a Within you…, certo la musica indiana è molto interessante per un pubblico a digiuno, con i suoi tempi dispari che si mischiano ai pari, con le sue armonie diverse dalle occidentali, e i suoni tipici di quella zona. Ma per chi un po’ ascolta e ama quella musica (e mi vanto di essere tra questi), è solo un inglese che cerca di imitare qualcosa di grande, scordando di farlo suo. Infatti non sarà l’unico esperimento di Harrison in tal senso, ma casualmente, proprio in quest’album sarà il meno riuscito, e il testo certo influenza il giudizio mio e unanime di molti. D’altronde, che io sappia, la canzone non ha mai subito cover, o rifacimenti dal vivo, o qualsiasi momento di interesse fuori dall’album, in cui la sua funzionalità è ben presente, anche se appunto didascalica: l’io che parla fa sempre un discorso da terrestre, perché abbiamo detto che qui siamo sulla terra, fuori dall’ascesi
(segue terza ed ultima parte)
Articolo del
19/05/2017 -
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