Un progetto dal sapore internazionale che si aggancia alla musica degli anni ’70 e alla libertà espressiva di quel periodo. Si presenta così Fusion Rebirth, disco d’esordio degli Ozone Park, pubblicato dall’etichetta Emme Record Label nel settembre del 2017.
La band è composta da quattro musicisti sardi quali Giuseppe Chironi (piano, E-bass, Clavi, Organs, Rhodes, Synyhetizers), Alessandro Masala (Drums), Davide Nicola Buzzo (Saxophone & EWI), Gianluca Cossu (Congas, Timbales, Vibraphone).
Giuseppe Chironi ci ha raccontato questa avventura che quasi paradossalmente è nata fuori dai confini dell’Italia, proprio nei pressi della Grande Mela…
Per cominciare partiamo dalla nascita del progetto. Tutto cominciò durante un seminario che avete fatto insieme vicino New York. Volete raccontarci i dettagli? Un viaggio sorprendente. Siamo partiti con poche risorse e molta voglia di imparare e siamo tornati in Italia con un progetto musicale imprevisto. Il seminario si è rivelato noioso e didatticamente insoddisfacente fin dal primo giorno. Il fatto che fosse solo teorico, ha fatto crescere in noi il desiderio di suonare realmente a fine giornata. Abbiamo preso in affitto una sala prove per sfogare la frustrazione accumulata ma la location ci ha ispirato un sound inaspettato. Sono venuti fuori i primi pezzi quasi per gioco e al ritorno in Italia abbiamo deciso di costruire un intero disco che abbiamo completato in pochi mesi. Sicuramente l’atmosfera della grande mela ha influenzato molto l’avvio del progetto Soffermiamoci ora sul disco: all’interno di esso si respirano certamente gli anni ’70 e le sonorità di quel periodo. Ci volete descrivere Fusion Rebirth? Fusion Rebirth è un disco internazionale nella sua composizione, e questo lo si nota ascoltando i brani. Bocius e Fusion Rebirth, i primi due anche nella playlist, sono ispirati a sonorità tipicamente americane, esprimendo una fusion più classica a cavallo tra il funky e il jazz. Kimberly Dreams è invece nata in parte negli States ed è stata ultimata in Italia. E rappresenta il momento di passaggio, nel disco, tra la Fusion “tradizionale” e la Progressive anni 70, espressa più chiaramente negli altri brani
Parlando di stili, invece, quali sono i linguaggi musicali che possiamo ritrovare all’interno di Fusion Rebirth? Faremmo prima ad elencare i linguaggi mancanti. Ci sono innumerevoli ritmi, stili, e richiami. Quelli preponderanti ricordano la Progressive italiana degli anni 70, vari ritmi latini, il funky, la musica elettronica, il rock, la fusion di stampo americano, lo swing e più in generale il Jazz
Se prendiamo in considerazione gli anni ’70 e la fusion in generale, qual è il retaggio musicale di quel periodo presente nella musica di oggi? Siamo tra i pochi, attualmente, ad unire tutti questi generi proponendo brani inediti. Ma soprattutto, chi fa ancora concerti è quasi sempre chi li faceva 40 anni fa. Sono rarissimi gli esempi di gruppi musicali nuovi, che ripropongano quelle correnti con le influenze della musica attuale
Cosa vi attrae maggiormente di quegli anni? I baffoni, i pantaloni a zampa d’elefante, le basette pronunciate, i colori sgargianti, automobili e moto, le insegne dei negozi, le donne. Scherzi a parte ne amiamo la libertà d’espressione artistica, che veniva esaltata da produttori i quali consideravano la musica Progressive come un genere popolare, investendo i loro soldi nei progetti di questo tipo ed ottenendo sempre una grande risposta del pubblico. Oggi questo coraggio non esisterebbe più, se non fosse per l’audacia di persone come il nostro produttore, Enrico Moccia, che ha creduto nel progetto e l’ha fortemente sostenuto. La musica POP di oggi, non è certamente progressive, poiché il livello dell’ascoltatore medio è costantemente e notevolmente calato negli ultimi 40 anni. Il nostro è un tentativo di risollevare questa media.
Nel disco abbiamo notato l’assenza del basso elettrico, perché questa scelta stilistica? E soprattutto qual è l’effetto a livello di sound del gruppo? Ci vuole una grande sezione ritmica per sostenere un bassista virtuale. In realtà poi il bassista non è virtuale, la maggior parte delle frasi non sono campionate ma suonate dal vivo. In alcune frasi che vanno in ‘looping’, la grande capacità del batterista è quella di non perdere mai il contatto ritmico con la base di basso. Il sound nel disco ricorda quasi sempre quello di un basso reale, dal vivo siamo riusciti ad ottenere un risultato molto soddisfacente al punto che, quando pensiamo ad un nuovo componente del gruppo, normalmente non immaginiamo che sia un bassista
Una domanda di attualità adesso: perché secondo voi il genere Fusion negli ultimi tempi ha avuto una perdita di appeal a livello numerico ed è diventato un genere più di nicchia? Perché nell’immaginario collettivo la musica fusion è quella americana espressa da grandissimi virtuosi dello strumento, ai quali una generazione intera di musicisti si è ispirata o ha solo sognato di imitarne le gesta. In realtà, nel tentativo di emulare quelle strade, pochi si sono seduti a tavolino per progettare e concretizzare quanto appreso in un progetto personale perché estasiati più dalle capacità tecniche di questi maestri, che dal loro reale messaggio musicale. Una intera generazione ha osservato, bramato, ma non prodotto. La musica fusion è in realtà molto altro, perché volendone estendere il termine, non è altro che il Jazz con qualunque altro genere musicale scelto dall’artista. Noi abbiamo avuto il coraggio di rendere concreto questo concetto con le nostre personali idee musicali
Il disco è appena uscito e chiaramente l’aspettativa è quella di suonare il più possibile: ci volete dare qualche coordinata riguardo i prossimi impegni? Siamo impegnatissimi nella promozione ed abbiamo presentato il progetto in anteprima, prima quindi che il disco uscisse, in un importante festival jazz nazionale. Ci pervengono richieste da svariati Jazz club italiani (e non solo) e stiamo preparando un tour invernale del quale presto pubblicheremo le date sul nostro sito web, www.ozone-park.com
Articolo del
16/10/2017 -
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