Cantante blues, r’n’b, rock e pop, autore di canzoni, attore di cinema, Tv e teatro, conduttore di programmi radiofonici, “cristiano rinato” teso alla diffusione del Gospel (termine da intendere in entrambi i sensi): Paul Jones, storico frontman dei Manfred Mann e della Blues Band, oggi ha superato i 70 anni ma ha ancora energia da vendere e si mantiene impegnato su più fronti.
Il tuo vero nome è Paul Pond ma hai scelto di chiamarti Paul Jones. In pratica hai fatto la scelta opposta rispetto ad altri Jones che hanno optato per nomi d’arte meno comuni.
Per la verità quando [alla fine degli anni 50] ho scelto di chiamarmi Jones, quasi tutti nel mondo della musica pop, nel Regno Unito, si stavano dando dei nomi inventati molto bizzarri: Tommy Steele, Georgie Fame, Duffy Power, Eden Kane… E all’inizio io ho pensato: “Diventerò Paul Smith”… Ma non mi piaceva tanto Paul Smith. Così ho pensato: “Qual è il secondo cognome più comune? Jones! Diventerò Paul Jones”. Mi piaceva come suonava. Avrebbe potuto essere un “nero”, se non fosse stato per le fotografie.
Ma non hai pensato che ti si sarebbe potuto confondere con altri?
L’unica persona che aveva un nome piuttosto ordinario a quei tempi era Joe Brown [uno dei primi cantanti inglesi di Rock and Roll, n.d.r]. Ma la cosa curiosa è che non ci sono molti “Joe Brown”. Però ci sono centinaia, o migliaia, di Paul Jones! Ma non ha poi una grande importanza. O meglio, ha importanza solo perché se fai una ricerca su di me su Wikipedia o su ogni enciclopedia sulla musica popolare di ogni tipo, mi troverai confuso con una lista di altri Paul Jones.
O con John Paul Jones, dei Led Zeppelin.
In effetti, su Amazon vengo confuso con John Paul Jones. Ma poi Amazon mi confonde anche con [il bluesman americano] Paul “Wine” Jones. E l’enciclopedia della Penguin del “Blues su Cd” – o come è chiamata – fa la stessa cosa. Una volta ho anche parlato con uno dei responsabili e gli ho detto: non è molto bello per me, perché…mettiamola così: [Paul “Wine” Jones] diceva molte più parolacce di quante non ne dicessi io (ride, n.d.r.). Non ne ero molto contento.
Tu sei cresciuto a Portsmouth. E durante la tua adolescenza sei stato folgorato dal blues. Parliamo della metà degli anni 50…
All’inizio non ero davvero in fissa con il blues: a me entusiasmava il jazz. Intorno al 1956 mi innamorai moltissimo in particolare del jazz tradizionale - il cosiddetto Trad Jazz - e anche di alcune delle big band dello swing. La scintilla fu il film 'The Benny Goodman Story' [del 1955, uscito in Italia con il titolo 'Il Re del Jazz', n.d.r.] che mi fece diventare un fan di musicisti come Gene Krupa, Lionel Hampton e Teddy Wilson, il grande pianista, Da lì mi spostai verso Count Basie, e ovviamente Count Basie aveva Jimmy Rushing che cantava con lui… Insomma, mi iniziò a piacere quel tipo di jazz. Però mi resi conto di preferire i dischi cantati rispetto a quelli strumentali. E fu solo in seguito che mi resi conto che mi piacevano perché erano blues! Così non divenni un vero e proprio fanatico del blues fino a qualche anno più tardi. Probabilmente intorno al 1960, o la fine degli anni 50.
In fondo non eravate in tanti a seguire il blues a quei tempi. Tanto è vero che vi conoscevate un po’ tutti…
Be’, sì, era una cerchia piuttosto ristretta. Pensa che nel 1960 misi insieme un gruppo blues mentre ero all’università (al Jesus College di Oxford), e - può sembrare ridicolo a dirlo adesso - ma pensavo che il mio fosse l’unico gruppo blues in Gran Bretagna in quel periodo. Non è stato fino a quando Alexis [Corner] ha aperto l’Ealing Club – ossia nel 1962 – che iniziai a vedere tutta quest’altra gente che veniva da posti come Newcastle, Liverpool, Birmingham… Non erano solo musicisti blues, erano musicisti blues davvero bravi. Mi resi conto, allora, che si stava muovendo qualcosa di serio. E se ne rese conto anche Alexis.
Tu iniziasti come cantante ma anche come armonicista, giusto?
Be’, ho iniziato come cantante… Però una volta ascoltati i dischi di Jimmy Reed e Muddy Waters, seppi che volevo suonare l’armonica. Purtroppo, non riuscivo a capire per quale motivo non riuscivo a produrre lo stesso suono che producevano loro. Jimmy Reed era il musicista che riuscivo ad imitare meglio, e la ragione è che lui suonava principalmente in “prima posizione” [con un’armonica che è nella stessa tonalità del brano, n.d.r.]. Ma io volevo riprodurre lo stesso suono di Little Walter. A questo punto incontrai Brian Jones… Non ricordo bene quando lo conobbi, ma fu prima che Alexis aprisse l’Ealing Club [il 17 marzo 1962, n.d.r.], perché ricordo che la prima volta ci andammo insieme, quindi dovevo averlo conosciuto in precedenza. E ricordo che Brian mi disse: “Stai sbagliando tutto”. Frase memorabile. Io gli chiesi: “In che senso?”. E lui: “Quell’armonica che stai tenendo in mano, in che chiave è?” Gli risposi: “E’ in Do”. “E tu in che chiave la stai suonando?” “Be’, in Do”. E lui disse: “No no no, suonala in Sol”. E non mi ha aperto solo una porta, mi ha aperto tutte le porte che mi servivano per suonare l’armonica. Quella frase dettami da Brian Jones è stata una svolta.
Quindi confermi che Brian Jones era un passo avanti a tutti nella conoscenza del blues?
Brian era molto più musicista di quanto lo fossi io. Anche se io avevo cantato nei cori delle cattedrali - avevo cantato il Messia di Handel alla Royal Albert Hall - ma lui era molto più bravo dal punto di vista della tecnica musicale di chiunque altro conoscessi.
All’Ealing Club, in quei giorni, hai conosciuto anche gli altri futuri Rolling Stones.
Sì, ho incontrato lì per la prima volta Mick [Jagger]. E Keith [Richards]. Ma è stato tutto per via di Alexis. A me non piace la parola “guru”, ma lui era davvero il centro di tutto, per quel che riguardava il blues in Inghilterra. C’erano altre persone che avevano suonato il blues – in particolare Chris Barber e Lonnie Donegan - ma Alexis era proprio l’epicentro di tutto quanto. In parte era per via del fatto che aveva una band fantastica. Ma aveva una band fantastica perché aveva… Come diceva sempre Charlie Watts: “[Alexis Korner] ha il miglior paio di orecchie che ci sono nel giro di miglia. Riesce a “sentire” chi dovrebbe essere nella band e chi non dovrebbe”. Inoltre era così generoso, e pieno di affetto e di incoraggiamento per persone più giovani di lui che speravano di emergere.
Com’erano le serate all’Ealing Club? So che si svolgevano delle vere e proprie jam con chiunque volessi esibirsi sul palco.
Alexis dava un’occhiata a questa fila di persone ammucchiata davanti al palcoscenico, davanti a lui… C’erano Mick, Keith, Brian, c’ero io, c’era Andy Keiller [futuro leader della band Influence, n.d.r.]... e persone che cantavano e suonavano nella band di Screaming Lord Sutch e roba del genere: in band di rock and roll perché, sai, era più facile suonare il blues in un gruppo rock and roll in quei giorni piuttosto che trovare un gruppo blues. E così… tutta questa gente se ne stava lì, e Alexis semplicemente ti indicava e ti faceva cenno: “Sali su e fai” - che so – “Kansas City o I’ve got my mojo workin’”… No, pensandoci bene non ti chiamava per fare Mojo perché quella era pertinenza di Alexis (e di Cyril Davies).
E’ vero che avresti potuto essere tu il cantante dei Rolling Stones?
Sì, Brian una sera è venuto da me e mi ha detto: “Sto formando questa band e ti piacerebbe essere il cantante?” In realtà io in precedenza avevo chiesto a lui di essere il chitarrista nella mia band (perché avevo un chitarrista ma se n’era andato). Avevo bisogno di un chitarrista, e conoscevo Brian, così lo chiamai… Ma lui disse di no: “Non voglio far parte di nessuna band a meno che non ne sia io il leader”. In seguito, quando lui mi chiese se mi volevo unire alla sua band, ho detto io di no. Ma non fu perché volevo essere io il leader. Fu perché: a) pensavo che Brian fosse troppo ottimista sulla possibilità di potersi guadagnare da vivere con una blues band. E b), perché avevo appena fatto un’audizione per una band – una dance band – e, può sembrare strano, ma mi era stata fatta una promessa da parte dell’uomo che mi aveva fatto l’audizione. E in effetti c’erano un centinaio di tizi giovani che ambivano a far parte di questa band. A me non è che interessasse molto il discorso della band da ballo, ma pensai: “E’ una porta. E’ una porta che potrebbe aprirmi altre porte”. E a essere sincero, ho imparato moltissimo da quella band, sia dal punto di vista musicale che di quello della presentazione sul palco.
Come si chiamava questo gruppo?
Oh, era Gordon Reece And The Adelphians. Era una formazione da ballo.
Una cover band?
No... O meglio: dovevo cantare alcuni dei successi da classifica, ma per la maggior parte si trattava di vecchi standard. Cose come Can’t We Be Friends, [ride, n.d.r.] o Our Love Is Here To Stay, o A Foggy Day In London Town. Venivano suonate un sacco di canzoni di questo tipo. Ma ricordo di aver dovuto cantare una hit di Joe Brown chiamata I Only Have A Picture Of You. E anche “Roses are red my love, violets are blue…” , (ride, n.d.r.).
Rimpianti per non aver accettato la proposta di Brian Jones?
La risposta è no. La ragione per cui è no è che se avessi accettato, probabilmente avrei rallentato la loro ascesa. Quel gruppo è diventato davvero i Rolling Stones quando sono arrivati Mick e Keith e si sono uniti con Brian. Ma sai una cosa? Un anno dopo, all’inizio del 1963, con Manfred Mann avevamo una residency al Marquee Club di Londra che era una specie di jazz club che stava iniziando ad aprirsi al blues. Suonavamo tutti i lunedì. E un lunedì pomeriggio i Rolling Stones la stavano usando come sala prove, perché di lì a poco sarebbero dovuti apparire in televisione. E [quella volta] chiesi a Mick: “Hai già iniziato a comporre canzoni?” E lui rispose: “Nooo, macché, io non so scrivere canzoni. Facciamo già delle belle canzoni… canzoni scritte da altri”. E io gli dissi: “Ma Mick… devi provarci!” E la storia famosa è che Andrew Loog Oldham [a un certo punto] ha chiuso lui e Keith a chiave in una stanza minacciandoli: “Non vi faccio uscire finché non avete tirato fuori qualche canzone”. Fu allora che iniziarono a comporre. Ma è successo molto dopo che io avessi detto a Mick: “Devi scrivere canzoni”.
Tu hai cominciato presto.
Sì, io scrivevo già canzoni. In effetti, ho iniziato a scriverle quando ero ancora con Gordon Reece. Ma mi ci misi davvero con impegno quando iniziai a stare con Manfred Mann, Mike Hugg e tutti loro.
Come sei passato da Gordon Reece a Manfred Mann?
Come ti ho detto, Alexis era quello che incoraggiava i giovanotti pieni di speranze. E io ero uno di loro. Verso la fine del 1962 lui aveva una residency al Marquee Club. E ovunque fosse Alexis, c’ero anch’io. Io ero semplicemente in mezzo al pubblico, pagavo il biglietto come tutti quanti. Però lui continuava a chiamarmi sul palco per cantare una o due canzoni. Manfred e Mike Hugg a quel punto suonavano jazz ma non riuscivano a guadagnarcisi da vivere, così avevano deciso di fare un compromesso e buttarsi sul blues. Una sera andarono al Marquee e chiesero: “Stiamo cercando un cantante, non è che ne conoscete uno che non sia già in una band?” C’era un simpatico maestro di cerimonie al Marquee chiamato Bill Currie, e disse loro: “C’è questo tipo chiamato P.P. Jones” – non mi chiamavo ancora Paul Jones a quei tempi – “Perché non provate lui?” Non so come mi abbiano rintracciato, perché in quei giorni non avevamo i telefoni cellulari, e io non avevo nemmeno il telefono nell’appartamento in cui abitavo. Comunque ricevetti un messaggio da Bill Currie, dal Marquee, che diceva: “Queste persone ti stanno cercando, chiama questo numero”. Così sono andato alla cabina telefonica, per strada, e ho chiamato. Il tipo ha detto: “Sai chi è Manfred Mann?” E io: “Sì, è quello che scrive degli articoli su Jazz News” – che era una specie di fanzine – “Perché?” “Lui e il suo amico Mike Hugg stanno mettendo su una band rhythm’n’blues e hanno bisogno di un urlatore”. E io ho detto: “Ma io sono un cantante” (ride, n.d.r.). Lui comunque ha detto: “Faresti un’audizione?” E io, dentro di me, ho pensato: “Però io sono più famoso di loro…!”. Perché io avevo fatto su e giù con Alexis Corner… Comunque risposi: “Ok… farò l’audizione”…. E fu così che ottenni il lavoro. Poco tempo dopo firmaste con la EMI. E tu fosti fin da subito un elemento prezioso per Manfred Mann. Anche perché, oltre ad avere una bella voce e presenza scenica, eri anche un songwriter.
Ma non era solo il fatto che scrivessi, era anche il fatto che conoscessi un sacco di pezzi blues, che loro ignoravano. Sai, fino ad allora avevano suonato roba tipo Modern Jazz Quartet. Così, in effetti io insegnai loro, gli dissi: “Queste sono le canzoni che dovremo fare”. Ad esempio: Stormy Monday di T-Bone Walker. E quindi, fui una importante risorsa per loro all’inizio, perché altrimenti avrebbero brancolato nel buio. Gli mostrai cosa andava fatto se dovevamo essere una band rhythm’n’blues. E poi - è vero - scrivevo dieci volte più canzoni degli altri membri del gruppo in quei giorni.
La grande svolta di Manfred Mann fu il singolo "5-4-3-2-1" che all’inizio del ’64 divenne la sigla del popolare programma Tv Ready Steady Go.
Quel pezzo fu proprio commissionato come sigla. Noi a quel punto avevamo un manager. E loro [quelli della Tv] si misero in contatto con lui verso la fine del 1963. A quel punto avevamo pubblicato due 45 giri: Why Should We Not?, che era uno strumentale, e Cock-A-Hoop (che avevo scritto io, come anche la B-side). Questo tizio della Rediffusion Television – com’era chiamata in quei giorni – chiamò il nostro manager e disse: “Abbiamo bisogno di una nuova sigla per questo programma relativamente nuovo chiamato Ready Steady Go e ci piacerebbe incontrare il [tuo] gruppo”. Così abbiamo fatto questo incontro. Lui ha detto: “Questo è ciò di cui abbiamo bisogno”. E ci ha dato delle istruzioni. E’ stato molto più simile a fare una pubblicità che un brano musicale. Perché lui ha detto: “Deve avere una parte strumentale prima che arrivi la voce; deve avere un conto alla rovescia; e in teoria il conto alla rovescia dev’essere ripetuto; e inoltre, ci piace moltissimo il ritmo che avete usato su Cock-A-Hoop” (Be’, quello era un ritmo alla Bo Diddley…) E disse: “Forza, mettetevi sotto e scrivetela”. Cioè, voglio dire, questa cosa era già mezza scritta…Tutto quello che dovemmo fare fu pensare a qualche strofa… Perché aveva già la melodia discendente: Five four three two one… In pratica ce l’avevano già scritta loro! E comunque: la componemmo (io, Manfred e Mike Hugg), la mettemmo insieme, andammo in studio e la incidemmo. E poi registrammo un’altra (mia) canzone per il lato B.
Quel singolo arrivò al n.5 delle classifiche e vi fece diventare delle star, quasi a livello di Beatles e Stones.
Verissimo. Ci lanciò ai vertici, dopo che i primi due singoli erano stati dei flop. Però credo che i Beatles fossero già troppo più avanti di noi per poterli riacciuffare.
Ad ogni modo, per la scena blues e r’n’b da cui provenivi i Beatles non rappresentavano granché. Giusto?
Vero. Anche se nel lato B di Cock-A-Hoop, che era un pezzo intitolato Now You’re Needing Me, puoi sentire l’influenza dei primi Lennon e McCartney. Però non è la mia canzone preferita, ah ah. Ma è vero che non aveva grande importanza per me, quello che stavano facendo i Beatles. Anche se c’erano dei bravi musicisti nel giro del Mersybeat – in particolare nei Merseybeats (ride) – erano tutti bravi… E ricordo che passai una serata fantastica, nel 1967, quando uscì SGT. PEPPER… Avevo appena comprato una bellissima casa a Londra, ma lo stereo che avevo era quasi una specie di mangiadischi, un piccolo giradischi mono. E una sera avevo organizzato un dinner party con alcuni amici, uno dei quali era Peter Asher, di Peter & Gordon. Con Peter ci eravamo visti un paio di giorni prima di questa cena e lui mi aveva chiesto: “Andrebbe bene per te se Paul McCartney facesse un salto? Non per cena ma potrebbe passare tipo per il caffè”. Perché a quell’epoca Paul era fidanzato con la sorella di Peter, Jane Asher. E io gli dissi: “Ma certo”. Saremo stati probabilmente solo 8 persone. Avevamo appena finito di cenare, sentimmo bussare alla porta ed era Paul. Veniva direttamente da Abbey Road dove era passato a ritirare questi dischi con l’etichetta bianca dell’album che avevano fatto. Avevano la musica solo su una facciata, questi white labels. E così, mise su la prima facciata, ci sedemmo tutti in religioso silenzio e ascoltammo tutto SGT.PEPPER fino all’ultima nota di piano di A Day In The Life. Fu assolutamente fantastico. Restammo tutti in silenzio, nessuno disse nulla. E io pensai: “Be’, è casa mia, devo essere io a prendere la parola”. E gli dissi: “Paul, questa cosa è assolutamente meravigliosa”. E lui: “Embe’ sì, vero?”, ah ah. In altre parole, a me piacevano i Beatles, ma non hanno mai influenzato la mia musica.
Con i Manfred Mann aveste notevole successo anche negli USA insieme a tutta la pattuglia della “British Invasion”…
Be’, Peter & Gordon, per fare un nome, ebbero più successo di noi. Però noi avemmo un n.1, Doo Wah Diddy. Fu un po’ come portare il ghiaccio agli eschimesi, perché quella canzone era già stata nelle charts americane – credo che fosse arrivata al n.24 – ma Manfred fu molto scaltro. Io amavo il disco degli Exciters e lo portai in sala prove, dicendo: “Mi piace davvero tanto, perché non la facciamo?” E Manfred aveva questo orecchio per arrangiare un brano musicale e renderlo istantaneamente attraente per la gente.
Tanto che oggi "Doo Wah Diddy" è uno di quei pezzi considerati sinonimo dei Sixties.
Sì, ma come canzone in sé non era particolarmente potente, altrimenti sarebbe andata al n.1 la prima volta, c’era qualcosa nella maniera in cui la suonavamo… E chiaramente, quelli a cui piacevano i gruppi vocali americani di musica nera – come me – dissero: “Oh, molto probabilmente l’hanno accelerata”. Ma non era così, in verità anzi l’avevamo rallentata.
Siete stati anche una delle prime band a realizzare cover di Dylan. Nel ’65 incideste prima "With God On Our Side" e poi "If You Gotta Go, Go Now", che arrivò al n.2 delle classifiche UK.
Ma non è merito mio. Credo che fossero Mike Hugg e Manfred i “dylaniani”. Manfred era sempre alla ricerca di qualcosa che fosse insolito ma allo stesso tempo “commerciale”. La prima che portarono in sala prove fu With God On Our Side. La gente pensava che fosse una sorta di “epifania religiosa”, ma non lo era. Parlava di pacifismo. Era una canzone contro la guerra, e sull’ipocrisia del dire: “Ok, combatteremo questa guerra perché Dio è dalla nostra parte” quando, be’, non gliel’avete mica chiesto (ride, n.d.r.). Così, be’, era contro la guerra e contro l’ipocrisia, e queste erano due buone ragioni per cantarla.
Con i Manfred avete avuto un sacco di successo a livello di singoli. Ricordo anche "Pretty Flamingo", un altro numero 1 in UK. Meno a livello di album. Chi era il vostro produttore?
Oh, era John Burgess. E sono piuttosto sicuro che è dipeso molto da lui. Era un tipo dalla personalità quietly forceful, John Burgess. Quello che lui diceva, noi lo facevamo. E inoltre, dietro di lui c’era la EMI, la potenza della EMI. Noi, cos’avevamo dietro di noi? Giorni e notti a suonare nei locali jazz, senza abbastanza soldi per poterci pagare l’affitto. Lui era la persona che vedeva il tutto dal punto di vista commerciale, e i 45 giri erano quelli che andavano secondo lui. Ma era così più o meno per tutti, fino a … Per come la vedo, fu fino a quando non si iniziarono a vedere in giro band come i Fleetwood Mac che si cominciò a pensare in termini di album.
Come frontman dei Manfred Mann, eri di gran lunga il più popolare della band. Fu questo che a un certo punto ti spinse a lasciarli per fare il solista?
In primo luogo successe che qualcuno mi chiese: “Ma tu prendi gli stessi soldi che prendono gli altri?” E io dissi: “Sì, prendiamo tutti gli stessi soldi”. In secondo luogo, ero stufo della gente che veniva da me e mi diceva: “Ciao Manfred!” [ride]. In terzo luogo, non avevo nulla in contrario nel fare una canzone di Dylan. Forse anche due. Ma non mi piaceva che diventassimo una cover band di Bob Dylan. E inoltre, a quel tempo, durante la metà degli anni Sessanta, ci venivano proposte un sacco di canzoni davvero troppo “pop”. Io non volevo fare cose come Fox On The Run o Ha Ha Said The Clown e roba del genere. La cosa curiosa però è che poi, una volta che me ne andai, mi convinsero a cantare del materiale che andava ancor più in quella direzione. Mentre io me n’ero andato [dai Manfred] pensando: “Adesso avrò totale controllo su quello che canterò” [ride, n.d.r.].
In effetti il tuo primo Lp solista, MY WAY del 1967, è virato sul pop orchestrale. Non c’è praticamente traccia di blues.
A quel tempo ascoltavo molto gente come Sam Cooke, Marvin Gaye e Percy Sledge, quindi volevo fare quel tipo di materiale (Il che è totalmente assurdo perché la mia voce non ha nulla a che vedere con quella di Marvin Gaye o di Sam Cooke, quindi…per quale motivo lo volli prendere come modello?). Ma comunque non importa, adoravo ciò che facevano. Nota bene che erano tutti neri: e io volevo prendere quella strada verso la musica nera. Però avevo un produttore che non era d’accordo, un arrangiatore che non era d’accordo, e così anche il mio manager e il mio agente. Nessuno voleva che prendessi quella strada. E così mi hanno costretto a fare qualcosa di diverso.
In contemporanea avviasti una carriera d’attore. Il tuo primo film PRIVILEGE (1967), con una trama incentrata su una pop star che diventa un leader messianico, probabilmente fornì ispirazione agli Who e a Bowie per i concept di TOMMY e ZIGGY STARDUST. E anni dopo una delle canzoni del film, "Set Me Free", è riemersa grazie a Patti Smith che l’ha rivisitata sul suo Lp EASTER.
Ma lei ha fatto anche 5-4-3-2-1 [sul successivo WAVE del ‘79, n.d.r.]! Però non ha mai cantato le parole, tutto quello che cantava era 5-4-3-2-1, era la sua versione punkeggiante. Non è che il Punk a me abbia cambiato la vita, però in qualche modo mi piaceva. Non mi era piaciuto che il rock fosse diventato un po’ troppo pretenzioso. Senza fare nomi, però era diventato pomposo negli anni 70.
In effetti negli anni 70 hai preferito concentrarti sulla recitazione.
Dopo aver lasciato i Manfred, venni forzato a fare un tipo di musica che a me non diceva molto. Cioè: [alcune canzoni] le canto ancora dal vivo, come I’ve Been A Bad, Bad Boy, e qualche volta anche High Time. Ma fui spinto verso cose che in realtà non mi andava di fare. E così, quando arrivò l’opportunità, mi misi a fare del teatro. E all’inizio non erano nemmeno musical, era proprio teatro di prosa. Ho avuto molte soddisfazioni da quell’esperienza. Fra l’altro, non avrei incontrato mia moglie [l’attrice Fiona Hendley, n.d.r.] se non avessi fatto teatro.
Sei tornato a focalizzarti sulla musica solo a fine decennio, in uno scenario radicalmente trasformato dall’esplosione Punk.
Io non ho mai pensato di voler fare quel tipo di musica, però una delle cose che stava accadendo alla fine degli anni 70 era che i gruppi blues stavano subendo l’influenza del Punk. Tutto ciò che proveniva dal Southend, come i Dr. Feelgood, Eddie & The Hot Rods, i Kursaal Flyers, Lew Lewis… tutta quella gente, io ascoltavo quello che facevano… Come anche i Nine Below Zero, che vennero poco prima della Blues Band… Ascoltai tutte queste cose, ebbi un’illuminazione, e dissi: “Ecco! The Blues Band”. E così formai la Blues Band.
Nel 1979, insieme a Dave Kelly, Gary Fletcher, Hughie Flint e il bassista Tom McGuinness che era stato con te nei Manfred Mann.
E quando cominciammo, facevamo come i gruppi Punk. Finivamo una canzone e… “Thank you very much! One two three four….” E via con la prossima. Ed eravamo proprio così in quei giorni iniziali.
La Blues Band fu fondamentale tra la fine degli anni 70 e la metà degli anni 80 nel diffondere il verbo del blues presso la generazione New Wave.
Sì, c’eravamo noi, i Nine Below Zero, i Dr. Feelgood - che erano ancora insieme in quel periodo – e Lew Lewis. Nessuno sapeva bene chi fosse Lew Lewis, a parte gli Stranglers che come me erano dei fan. Lui era un po’ tipo Little Walter sotto effetto di anfetamine. Ma era un fantastico suonatore di armonica. Da un punto di vista personale, purtroppo, andò fuori dai binari. Ma persone come lui suonavano del purissimo blues. La verità, però, è che si trattava di una scena da piccoli pub. Si aveva l’impressione che stessero accadendo un sacco di cose, ma era tutto molto a “street level”.
Veniste un po’ sottovalutati in Inghilterra, ma durante gli anni 80 la Blues Band riscosse un bel successo in Germania, in Francia e anche in Italia. I vostri primi tre Lp, THE OFFICIAL BLUES BAND BOOTLEG ALBUM (1979), READY (1980) e ITCHY FEET (1981) sono ancora molto amati.
Ci divertivamo molto a suonare. E ci divertiamo ancora. Non veniamo in Italia molto spesso, ma andiamo ancora in Germania e in alcuni dei paesi scandinavi. E ci divertiamo.
Nel 1984 poi la tua vita è cambiata radicalmente. Ti sei convertito al Cristianesimo. E questo ha avuto un effetto anche sulla tua carriera.
Sì. Infatti, quando torneremo in Inghilterra, [io e mia moglie] saremo on the road per circa 10 giorni a cantare gospel nelle chiese. Ci piace farlo e, in un certo senso, ci viene richiesto. Di base, portiamo in giro il Vangelo (“gospel”). Quando ero un ragazzino, mi facevano andare in Chiesa tutto il tempo e mi sembrava che tutti andassero in Chiesa, che tutti sapessero cosa era scritto nella Bibbia, che Gesù era il figlio di Dio e che tutti sapessero tutto. Ma ora queste conoscenze dove sono andate? Gli atei hanno preso il potere [ride, n.d.r.] Così, di base il nostro lavoro consiste nell’andare in giro e dire alla gente che è una “buona novella”, non c’è nulla di cui aver paura, non c’è nessuno che ti colpirà con un bastone: Gesù nella tua vita è la migliore cosa che ti possa accadere.
Come riesci a conciliare la musica di Dio con la musica del Diavolo (il blues) che tu adori?
Uno dei miei chitarristi preferiti di Chicago, un tipo chiamato Lurrie Bell – il cui padre era un grande armonicista, Carrie Bell – ha fatto un album circa 4 anni fa chiamato THE DEVIL AIN’T GOT NO MUSIC. E in effetti la gente l’ha detto per anni, prima che Lurrie Bell facesse quell’album. I cantanti di Gospel che incontro mi dicono: “Perché chiamano il Blues la “musica del diavolo”? Il diavolo non ha nessuna musica!” Eccetto quella che gli stolti gli affidano. Mi dispiace ma devo fare nomi di qualcuno che gliel’ha affidata: i Black Sabbath… Gente così. Tutti quelli che hanno la parola “Death” nel nome del loro gruppo. O teschio e tibie, cose di questo tipo… Di base stanno invitando la persona sbagliata a prendere possesso delle loro vite. E’ molto pericoloso e, devo dire, è anche stupido. Non è preferibile che sia quello “giusto” a prendere in carico la tua vita?
Hai in programma nuovi dischi?
E’ difficile far uscire un nuovo album sia dei Manfreds [The Manfreds è il nome della band con cui Paul Jones è spesso in tour, comprendente elementi del gruppo originale degli anni 60 con l’unica assenza di Manfred Mann, n.d.r.] che della Blues Band al momento, perché siamo così spesso on the road che risulta difficile ritrovarci in uno studio. Per la maggior parte, si tratta di registrazioni dal vivo. Per quanto riguarda me: io, senza rimorsi, incessantemente, con determinazione, mi prendo un sacco di tempo per fare un album, di tanto in tanto.
I tuoi due ultimi dischi li hai incisi a Los Angeles prodotto da Carla Olson, che ai tempi aveva collaborato con Gene Clark, quello dei Byrds, e con Mick Taylor degli Stones.
Sì, e anche con un sacco di altra gente. Il mio “album del ritorno” – STARTING ALL OVER AGAIN – è del 2009. L’ultimo album, SUDDENLY I LIKE IT, è uscito solo da un anno. Quindi conto di continuare a promuoverlo per i prossimi due anni, poi probabilmente ne inciderò un altro.
Sull’ultimo disco hanno suonato in qualità di ospiti Joe Bonamassa e Eric Clapton.
Ah, Joe è un grande. Lo passo sempre al mio programma alla radio [alla BBC]. Quando è arrivato sulla scena - ed era giovanissimo - mi ha fatto una grande impressione. E ha fatto una grande impressione a tutta la popolazione della Gran Bretagna dopo che l’ho passato al mio show alla radio. Lui potrebbe lavorare solo in Gran Bretagna per il resto della sua vita, se volesse. E’ un mostro in termini di tecnica, ed è una persona adorabile. Eric [Clapton] è un amico, in effetti siamo vicini di casa nel Surrey, e lui fa ancora delle cose con me di tanto in tanto. Mi piace il fatto che tra i miei amici ci sia un nucleo di grandi artisti, musicisti e autori di canzoni. Tra questi ci sono Joe, Eric, Van Morrison e Paul Weller. Anche Paul abita non troppo distante da me. Io organizzo qualche concerto di beneficenza, ogni anno, poco prima di Natale. Eric li ha fatti un paio di volte, come anche Van Morrison, Robben Ford, Paul Weller e Shakin’ Stevens.
Articolo del
09/04/2019 -
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