La qualità delle Targhe Tenco (quella di cui parlavo nell’articolo dedicato alle premiazioni), si può cogliere dalla trasversalità (non solo musicale) dei presenti. Raccogliendo qua e là qualche parola dei protagonisti della rassegna ci si trova catapultati in un caleidoscopio di tematiche, modi di pensare e di interpretare la forma canzone.
Questo articolo è, perciò, un tentativo di raccogliere quanti più umori possibili, un mega puzzle con mini interviste, un poutpourrí di roba e, soprattutto, di spunti di riflessione. Si va dalle credenziali dell'artista secondo Bobo Rondelli all'impegno civile cantato da Alessio Lega e Daniele Silvestri, passando per il profumo di Sud di Peppe Voltarelli e del maestro Enzo Gragnaniello, per finire con l'educazione musicale di Sergio Cammariere.
Prima di lasciarvi a comporre il vostro puzzle di idee e riflessioni mi prendo un momento per ringraziare gli artisti che, con una umiltà ed un garbo pressoché infiniti, hanno ascoltato le domande di un giornalista alle prime armi e le hanno degnate di risposte.
Bobo Rondelli
Tu hai ripreso le canzoni di Piero CIampi, che, personalmente, ho scoperto grazie a te. L'importanza di questi recuperi, soprattutto in un panorama musicale che tende all'oblio, qual è? Sai, proprio il caso di Piero Ciampi, credo che sia forse l'unico, sicuramente uno dei rari casi, che porta le anime al valore della compassione. E la compassione è un bisogno, a maggior ragione in questo momento storico, che l'uomo deve sempre coltivare. Quindi lui era proprio un "cantamore", a modo suo, con tutti i difetti umani del caso, fino a far anche sacrificio di sé stesso. E proprio lì sta la grande spiritualità dell'opera di Ciampi. Il fatto di decidere di cantare l'amore spesso cozza un po' con la "cantautoralità", complice il rischio di scadere nel melenso. Può essere stata questa "scelta tematica", che in qualche modo lo ha posto in antitesi con gli stilemi da cantautorato duro e puro, a "destinarlo" ad un semioblío? Ciampi è più legato alla canzone francese più che a quella italiana, è più associabile ad un Jacques Brel, ecco. Infatti ha vissuto in Francia. In Francia si dà più valore a questi interpreti della profondità, probabilmente c'è anche più rispetto. In Italia si tende un po' a venderci come "spaghetti, pollo, insalatina e un tazzina di caffè", stile mandolino, boogie boogie, Italia "alla miricana", siamo più dentro la Nato, ecco. Tant'è che la Rca era controllata dalla Cia. Si voleva avere il controllo totale sulle parole, evitare che potenzialmente potessero sfociare in qualcosa di pericoloso. Una vera e propria censura. Ed in fondo anche Tenco ha risentito di questo fatto, in quanto parte della schiera dei non allineati. Adesso non voglio dire che qualcuno lo ha ammazzato, ma ridurre un ragazzo di ventisette anni a fare un gesto così estremo è sicuramente opera di una pressione esterna. Ti senti di avere "le carte in regola", sempre rimanendo a Piero Ciampi? "Ha tutte le carte in regola per essere un artista"... è un po' il manifesto di uno a cui danno fastidio i prepotenti, di uno che condivide la cena con chi trova per strada. È una visione un po' francescana dell'artista che a me piace, sì. In fondo, se uno fa l'artista non deve dimostrare per forza di essere più colto o essere meglio degli altri. Anzi, non deve farlo per la gloria del potere, va fatto per la gloria dell'amore. E Piero Ciampi ha fatto questo.
Alessio Lega (Targa Tenco 2004, 2019)
L'opera culturale prima che musicale compiuta col recupero della figura di Bulat Okudzava e delle sue canzoni ricorda un po' quella che De André o Nanni Svampa fecero con Brassens o Jacques Brel. L'importanza culturale di questi recuperi dove sta? Non per rompere i coglioni da subito, che è il mio mestiere, la mia indole, ed in qualche misura, ammetto, anche il mio piacere, ma credo che la parola "recupero" si usi piuttosto per qualcosa che non ha più la sua carica eversiva. Probabilmente in questo caso è il contrario, qualcosa che rischia di non essere conosciuta per niente, come Bulat Okudzava, o di essere sprofondata nella nostalgia di un tempo passto, il ricordo di dire "Ah, un tempo anche io protestavo", quella cosa autoconsolatoria che diceva Clemenceau, "a vent'anni tutti si è anarchici, poi lo rimangono solo gli imbecilli." Ecco, dovesse essere in qualche modo veritiera questa cosa, sono felice di rimanere imbecille. Insomma, ne ho quarantasette e sono libertario anarchico. Non è un recupero, è un ributtare in faccia alla società, anche solo su un piano formale, di arrangiamenti, di lavoro sui timbri. Riprendere queste cose, provare a riproporre l'urgenza di queste canzoni oltre ogni altra loro caratteristica poetica, esecutiva o storica. Il discorso è che la canzone d'autore, storicamente, è sempre stata una specie di arma di resistenza, un'arma di battaglia politica tanto ad Occidente, dove basti pensare che la Rivoluzione dei Garofani, in Portogallo, ebbe inizio grazie ad una canzone di José Afonso, quanto ad Est, nell'ex Unione Sovietica. Ecco, sicuramente viviamo in una condizione diversa, ma non meno fascista nel fondo, per cui è importante continuare non tanto a cantare quelle canzoni, quanto piuttosto a provare a ritrovare le ragioni di cantarle, descrivere il fatto che, in un mondo in cui tutto sembra impossibile, una canzone rappresenta una rivolta. Ecco il valore di queste operazioni. Che sono culturali sì, ma culturali perché politiche. Il cantautorato è, nella maggior parte dei casi, militante. Proprio per il fatto stesso di voler veicolare un messaggio non stupido. Nel corso degli anni, questo tipo di approccio ha creato qualche tensione fra artisti e pubblico, con i casi recenti di Motta e Vecchioni. Ecco, in questi casi, in presenza di critiche del genere, si ha la consapevolezza di stare andando nella direzione giusta o è semplicemente una gran rottura di scatole? Intanto permettimi un'altra precisazione: mal sopporto il termine "cantautore", preferisco, se proprio dovessi definirmi, la più nobile dicitura di "cantastorie". E, parimenti, tutti i derivati di "cantautore", quindi "cantautorato" ed affini, li trovo proprio una mazzata sui coglioni, non mi significano nulla. Anche perché è una discriminante discografica che noi utilizziamo solo per comodità. Vedi, Brassens, che era un tipo abbastanza caustico nello schernire, diceva che i messaggi li porta il postino, non il cantautore. Poi personalmente non scrivo mai prima la morale delle mie canzoni. Esempio pratico: il pezzo su Monicelli, il racconto di un uomo che, a novant'anni, con una malattia probabilmente terminale, decide di riprendere in mano la sua vita. Consequenzialmente diventa un pezzo sul fine vita. Ma non è che ho pensato "Toh, adesso scrivo una canzone sul fine vita perché è importante affermare questo concetto qui eccetera eccetera", no. È che mi aveva colpito la storia di Monicelli. Poi ho la mia sensibilità e vengo colpito da un certo tipo di storie, non ho un decalogo. Come, credo, nessuno abbia un approccio così didascalico. Insomma, intanto scrivo, poi se passa anche il messaggio, tanto meglio. La relazione col pubblico, beh… da una parte ti direi che ben venga la critica. Anche se non è garanzia esatta di qualità, si può essere anche predicatori e noiosi, eh… A volte, effettivamente, ci sono degli ottimi artisti pop che esprimono le loro ottime idee sociali e politiche, ma non le fanno entrare decisamente nelle loro canzoni. Per dire, tu parlavi di Motta. Motta scrive delle canzoni che riguardano un passaggio esistenziale, non hanno la politica proprio dentro di sé. E non è obbligatorio che ce l'abbiano, attenzione. A me tutto questo non capiterebbe semplicemente perché le mie canzoni sono talmente esplicite che non c'è il dubbio su cosa o meno volessi dire, nessuno potrebbe pensare che non abbia quelle idee. Insomma, nessuno si stupirebbe se io cantassi Bella Ciao, anzi probabilmente mi direbbero "Ah, però, Alessio, che canzone meno impegnata che hai cantato". Dopodiché trovo del tutto legittimo quello che hanno fatto Motta e Vecchioni, li ammiro come persone, perché un artista è anche un essere umano, e non sta a pensare solo all'amore, anche se scrive di quello, per dire, ventiquattr'ore su ventiquattro. Pensa anche alla politica, ai problemi ed a come uscirne. E se ha una idea perché non dovrebbe dirla? Poi quello col pubblico è sempre un dialogo, ed è chiaro che puoi anche aspettarti che il pubblico, che magari è composto da persone che non la pensano esattamente come te, ti vada contro. Per dire, ieri (giovedì sera, durante la premiazione, ndr) all'Ariston: non necessariamente tutto il pubblico è d'accordo su parole come la Rivoluzione o il fine vita, su cui un cattolico, per dire, non può essere d'accordo, per lui il suicidio rimane un peccato, per me no. E quindi posso aspettarmi che ci sia una reazione risentita o comunque di semplice disaccordo. Ma menomale, direi. Cioè, non dice necessariamente che la mia canzone è bella. Dice, piuttosto, che, oltre a provare a fare una canzone bella, ho tentato di fare una canzone che inneschi una relazione. E quando è così la relazione si è già innescata. E quindi questo non vuol dire che io abbia scritto una bella canzone, vuol dire che ho tirato fuori una canzone che, in qualche modo, ha colpito. E questo è già un suo valore.
Peppe Voltarelli (Targa Tenco 2010, 2016)
Tu sei stato un riscopritore delle radici del folk, fra il Parto e l'omaggio a Profazio. Poi sei stato sdoganatore del cantautorato insieme a Lolli o con quel capolavoro di "Distratto ma però". Infine, nella bio del tuo libro ti presenti come bluesman. Chi è davvero Peppe Voltarelli? Sì, probabilmente è un bluesman. Bluesman perché è un termine che racchiude sotto un ipotetico ombrello tutta una serie di connotati, di provenienze, anche di attitudini. In fondo il blues racconta sempre la storia di popoli, gente che viaggia o che lavora. Ed, in un certo senso, io vengo da un posto, la Calabria, il meridione, dove c'è molto blues, ma proprio nella vita. Poi, una volta, sono stato negli Stati Uniti, al New Heaven, un posto dove si faceva del blues. Ero con un amico, che disse agli altri musicisti di farmi fare un pezzo. La risposta fu che lì si suonava solo blues. E, per tutta risposta, dissi a John, il mio amico, di dirgli che io ero un bluesman del Mediterraneo. Finì che mi fecero fare un pezzo e gli piacque anche. Ecco, spesso le etichette sono relative, come vedi. Anche se, in qualche modo, tutti i cantautori sono dei bluesman. Magari c'è chi lo fa in modo più diretto, perché guarda più al panorama musicale americano. Ma penso che anche una tarantella possa essere blues. Peppe Voltarelli però ha sicuramente una etichetta certa: è un uomo del sud. Meglio "campare d'aria" o di "turismo in quantità", con tutto quello che ne consegue? Mi piace la definizione di uomo del sud! È difficile scegliere fra queste due possibilità. Campare d'aria, se vogliamo, è quasi un atto di ribellione, di resistenza non violenta. Mentre il turismo in quantità è un inseguire dei modelli che certe volte non si adattano né geograficamente né storicamente alla nostra tradizione. E quindi, sai? Preferisco campare d'aria più che di turismo in quantità, mi piace di più. Il fatto che il Tenco per il miglior album in dialetto venga spesso al Sud è un caso fortunato di anno in anno o è più perché in qualche modo il cantato dialettale, la sonorità dialettale ci "appartengono" come tradizione musicale? Sicuramente al Sud il dialetto è una lingua importante dal punto di vista sociale. Una lingua che ha resistito e che resiste. E proprio per questo ci si identificano molto anche i cantanti. E le frequenti vittorie fra gli album in dialetto di autori del sud, fanno parte di un dato che va analizzato bene, perché anche al nord si canta in dialetto, e penso al Veneto o alla Lombardia o alla Liguria, dove ci sono molti gruppi che cantano in dialetto. Probabilmente al sud, avendo avuto l'influenza della scuola napoletana stiamo quasi sotto una buona stella, che fa in modo che si abbiano dei riferimenti molto alti a livello creativo. Insomma, da che mondo è mondo, la canzone napoletana è nata un po' prima di quella italiana. E la differenza la fa proprio questa cosa, probabilmente: magari un ragazzo di Treviso o di Piacenza è portato a credere di meno alla canzone in dialetto. Ed anche qui ci sono dei casi particolari, penso a Davide Van De Sfroos, che è un caro amico, che, tanto per tornare a quanto detto prima, è un vero bluesman del Lago di Como, canta e scrive in dialetto ed è stato d' esempio, ha fatto sì che molti giovani comaschi potessero guardare a lui come punto di riferimento. Quindi direi che si tratta anche di un fatto storico. Io, quando ho iniziato a scrivere in dialetto, guardavo come riferimenti a quelle situazioni precedenti a me, penso ai Re Niliu, che facevano un folk che mi piaceva molto, o ad Antonello Ricci, c'era anche Eugenio Bennato che aveva cantato molti pezzi della tradizione calabrese. E quindi, ecco, queste cose finiscono per influenzare gli autori e ti convincono che magari quello che stai facendo è sulla strada giusta.
Enzo Gragnaniello ( Targa Tenco 1986, 1990, 1999, 2019)
Enzo Gragnaniello è ormai un' habitué delle Targhe Tenco. Dopo l'ennesima vittoria, con un gran bel disco, quali sono le sensazioni? Mah, dipende dal soggetto. Tu perché crei, perché fai il cantautore? Io penso che è sempre una soddisfazione personale vincere dei premi andando avanti col proprio pensiero, con la propria artisticità. E sai cos'è? La soddisfazione arriva nel momento in cui vedi il pubblico che si illumina, solo allora arriva completamente la soddisfazione di aver fatto qualcosa di buono. Considerando pure che è comunque sempre gratificante vincere un premio come il Tenco, che, secondo me, è il premio più di qualità in Italia al momento. La categoria nella quale lei ha centrato la quarta targa è quella del miglior album in dialetto, con un album nato (sai che novità per la categoria, ndr) dal Sud. Come si fa a far nascere qualcosa che è tradizionale ma, al contempo, innovazione? Nasce dal Sud come nascono anche le mele annurche e tante altre cose. In questi casi, la cosa importante è che ci deve essere il pensiero del sud, l'essere del sud, ma poi bisogna riuscire ad avere un pensiero più universale. E poi la cosa fondamentale è che ci devono essere le esperienze della tua terra. Quando parliamo di arte in generale dobbiamo tener conto che non è la mente che produce tutto questo, è lo spirito. La mente è a servizio della sensibilità, di quello che ciascuno prova. La creazione è istintiva poi. E penso che dal sud o dal nord, se c'è il cuore dentro quello che si fa, beh… arriva anche agli atomi.
Sergio Cammariere (Targa Tenco 1997)
Tu sei nato artisticamente col Premio Tenco, facendo un genere musicale molto colto e raffinato, che ti ha sempre contraddistinto. In un panorama musicale che è… (Sergio vede un mio momento di smarrimento nella ricerca delle parole ed interviene) Abbastanza arido…
Esattamente, quello. Ecco, la risposta a quest'aridità qual è? E come si può sdoganare un tipo di musica quantomeno meglio strutturata? Dipende molto dalla percezione di ogni singola persona, dall'educazione musicale che ha, da quello che riesce a cogliere, dalle sfumature, dalla profondità di quella che può essere l'armonia, l'intonazione. Ed è, quindi, importante, educare le nuove generazioni proprio a cogliere queste cose. Per esempio, io ricordo che alle scuole medie avevamo il professore di musica che in classe ci faceva ascoltare i vinili di Bach, Mozart o Beethoven. E questa è una attitudine che è sparita col tempo. E quindi cosa accade, accade che i giovani, con i nuovi social, penso a Tik Tok piuttosto che Instagram, condividono questa musica, che viene fatta su un beat solo, che è anche trascinante, possibilmente ha anche delle rime interessanti. Però è priva di armonia, ecco. La forza di questa nuova tendenza musicale, di questo "flusso" che è arrivato, è basata sul ritmo. Poi è cambiata anche la fruizione stessa della musica, perché contano più le visualizzazioni che le vendite effettive, e quindi ci troviamo in questa fase di stallo. Ma chi discerne bene riconosce comunque la buona musica da quella meno buona. Questa è stata una delle edizioni delle Targhe col maggior numero di polemiche sulla qualità della rassegna. Ed allora la domanda è: il premio Tenco è ancora sinonimo di qualità? Certo, assolutamente sì. Non ci sono altri premi come il Tenco in Italia. Ci sono altre rassegne interessanti, e penso, ad esempio a Musicultura, ma non importanti come il Tenco, che c'è da quarantatre anni. Io ho avuto l'occasione di farmi conoscere debuttando qui nel '97, condividendo il palco con Fabrizio de André, che presentava "Anime Salve", c'era Paolo Conte, c'erano Guccini, Vecchioni, Jackson Browne. Ed io debuttai lì, fra di loro. Insomma, non posso non essere grato e legato per tutta la vita al Premio Tenco.
Daniele Silvestri (Targa Tenco 1995, 2002, 2019)
"La Terra sotto ai piedi" è la conferma che quando si parla perché si ha davvero qualcosa da dire vengono fuori capolavori. A "trainare" questi lavori è di più la volontà di mandare dei messaggi civilmente corposi o il bisogno interiore di "liberarsi"? Sicuramente liberarsi c'entra, anche perché, come dice qualcuno, scrivere canzoni è terapeutico. Ma in realtà penso che c'entri anche molto la curiosità che uno può avere, ed io spero di continuare ad averne a lungo, anche se non è detto. Per adesso ancora ce l'ho, anche perché c'è un mondo che cambia, anche molto velocemente, come in questi ultimi anni mi è sembrato succedesse, ed è fonte di stimoli infiniti, perché ci mette in discussione in tutti i nostri ruoli, nel nostro essere parte di una società, il nostro essere individui, essere genitori, ed è il caso di Argentovivo, nel nostro essere amanti, amati o disamorati, a seconda. Tutto questo ogni volta si confronta con un mondo che cambia. E quando succede, come nei momenti per me significativi degli ultimi anni, è difficile non sentire il bisogno di raccontare qualcosa. Non per insegnare qualcosa, semmai per amplificare le domande e farlo da un punto di vista che, nel mio caso, è quello di un ultracinquantenne che si è fatto delle idee, ma che poi deve smontarle e riformularle. Ecco, c'è questo dietro. Quanto diventa importante, soprattutto al giorno d'oggi, intestardirsi nel voler cantare anche "a bocca chiusa"? Per me lo è. Diciamo che ho sempre creduto che fosse importante avere voglia di occuparsi del proprio destino, ma anche di quello del mondo in cui viviamo, si torna sempre lì alla fine. Quella canzone ("A bocca chiusa", ndr), in una maniera molto nostalgica, se vuoi anche fuori dal tempo, racconta di un sentimento che, per fortuna, le generazioni riscoprono, che è quello di avere voglia di battersi per qualcosa che vada un po' più lontano dell'immediato, del giorno stesso in cui viviamo o del futuro a breve termine, e vedi i ragazzi che scendono in piazza al giorno d'oggi, per delle battaglie ecologiste che poi possono anche essere discutibili, possono avere difetti e tutto quello che ci pare. Però intanto ci sono. Ci sono ed insegnano, se non altro, a prendersi cura di sé stessi, del mondo in cui viviamo, del pianeta, in questo caso. E queste cose, quando succedono, c'è sempre da guardarle come una boccata di speranza. "La terra sotto i piedi" ci ricorda che ci vuole stabilità. Però, se proprio dovessi scegliere, preferisci essere "acrobata" o "uomo col megafono"? Sai cos'è? Sono stagioni della vita. Mi sono sentito "uomo col megafono" quando mi sembrava di essere sufficientemente dentro la realtà, forse con lo spirito giusto anche per motivi anagrafici, per prendere un megafono ed urlarci dentro delle cose. Poi, ad un certo punto ho deciso di staccarmi da quelle cose e guardarle da lontano e, se il mio apporto doveva continuare ad esserci, era quello di uno che aveva uno sguardo sulle cose più poetico piuttosto che politico o incentrato l'attualità. Oggi è di nuovo diverso. Forse sono di nuovo più vicino ad un megafono, ma è un megafono virtuale, se vuoi, che cerco di condividere e che non penso di reggere da solo. O forse è più un cannocchiale girato, un modo per guardare le cose non più da lontano ma da vicino, però sempre con tanti punti di domanda, con poche certezze da gridare. Qualcuna sì, qualche concetto, valore, per usare un termine un po' antiquato che forse mi sembra, come la famosa "terra sotto i piedi", mancare, qualcosa di cui abbiamo bisogno, qualche riferimento che dobbiamo avere per scegliere da che parte stare, insomma.
Articolo del
21/10/2019 -
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