Di solito sapete che sono quello delle introduzioni lunghissime, che scrivo tanto, spesso troppo e spesso partendo da cose apparentemente sconnesse.
Ecco, questa volta no. Vado subito al sodo. E non perché non abbia nulla da dire, né perché l’intervista è corposa.
No, è che, semplicemente, sarei fuori luogo. Ogni mia parola sarebbe assolutamente inutile, in rapporto a quello che andrete a leggere. E già troppe volte finisco per essere il protagonista dei miei pezzi, almeno all’inizio. Stavolta, davvero, non ce n’è motivo. E quindi faccio il fatidico “passo indietro” e mi chiamo fuori quasi subito.
Dico solo che l’intervista è trascritta quasi integralmente, proprio perché non mi andava di far perdere neanche una parola. E se davvero amate la musica, capirete perché.
Ah, ovviamente non abituatevi troppo a questa brevità.
Che mondo, non solo musicale, ha in testa Gege’ Telesforo?
Mah, fortunatamente ho in testa un mondo a colori, variopinto, in movimento, con immagini piacevoli, ma ogni tanto malinconico. E quando è così faccio il possibile per riprendermi. Musicalmente parlando, in testa ho il mondo che mi sono creato ascoltando tutto quello che ho ascoltato e che continuo ad ascoltare. Fortunatamente credo che, proprio per la mia stessa sopravvivenza, sono una persona curiosa. Lo sono in generale, nei confronti di tutto e della vita, ed anche nella musica credo che questo si risenta. E quindi, siccome ho anche una mentalità abbastanza aperta, e non mi piacciono né gli integralismi né i dogmi, in genere, attingo lì dove mi porta il cuore. Per cui, se sento cose che mi piacciono e mi interessano, non solo le ascolto, ma cerco di approfondirne anche la conoscenza, andandomi a studiare cose che poi potrebbero anche servirmi in futuro.
E quindi da questa produzione viene fuori una sorta di condensato di avventure, ascolti, ricerche, incontri fatti negli ultimi anni, che hanno preso una loro forma ben precisa. Avrai notato che pur suonando, in qualche modo, etnico o world, l’album, anche ritmicamente, non ha una sua connotazione precisa, non seguo delle clave precostituite, proprio perché le abbiamo create ad hoc per questa produzione, che mette insieme varie culture ritmiche e linguaggi diversi. Ed è il risultato di quarant’anni di musica fatta attivamente ed ascoltata da appassionato ricercatore.
Gli scrittori sanno inventare parole, se serve. I musicisti inventano generi, che, nonostante la banalità delle etichette, ci sono e dobbiamo tenerceli. Che significa “afromeridionale”, e soprattutto, che tipi di ricerca, non solo musicale, ci sono dietro?
E’ una bella domanda. Allora, quando gli amici delle etichette, Giandomenico Ciaramella di Jando Music e Roberto Ramberti di Groove Master Edition, mi hanno chiesto in che catalogo volessimo inserire l’album, fra jazz e world music, io chiesi se ci fosse, appunto, “afromeridionale”. Mi hanno detto che non c’era, ed è un vero peccato, sarebbe stata la sua collocazione più corretta, per vari motivi. Il primo, sono da sempre un cultore di musica afroamericana. Secondo, perché seguo con passione la world music: tutto ciò che è etnico mi interessa, tutto ciò che stuzzica il mio appetito musicale mi intriga e mi affascina. E poi perché, alla fine, il mio dna è esattamente come il tuo, fratello: non si può venir meno alle proprie origini, alle nostre origini. E quindi, dopo anni di produzioni mirate al mercato internazionale, e quindi realizzate in inglese, per etichette importanti, come GoJazz o Ropeadope, che è stata la prima etichetta degli Snarky Puppy, con la quale continuo a collaborare, anche per altre produzioni, fra cui il disco nuovo di Dario Deidda (il bassista di Gege’, ndr), ho pensato bene di non utilizzare la lingua inglese.
Anche perché per il tipo di suono, di produzione e di impianto ritmico che avevamo creato, per i testi sensati mi sono accorto che la prosodìa inglese non funzionava, ma già a livello ritmico, non mi convinceva come ha fatto poi l’italiano, che mi ha permesso di esprimere nella mia lingua il mio pensiero su alcune tematiche. Possono essere una canzone d’amore come “Mille Petali”, trattata un po’ come scriveva le poesie Rabindranath Tagore (poeta e drammaturgo bengalese, Nobel per la Letteratura nel 1913, ndr), così come abbiamo scritto “Genetica dell’amore” ispirandoci a Khalil Gibran. Ecco, il mondo è stato questo, come vedi ci siamo mossi musicalmente sempre fra l’India, il Medio Oriente, l’Africa ed il Brasile. E questa cosa di mettere insieme linguaggi ritmici e sonori è stata molto affascinante, ed anche molto divertente, da musicista, appassionato di ritmi e percussionista, come dire, in erba!
La title track è un brano- manifesto dal punto di vista artistico. Lo è anche da quello politico e civile?
Certo! Prendiamo comunque una posizione, che è da sempre quella di chi fa musica, e di chi la fa in un certo modo. La musica è la nostra religione. Nel booklet dell’album ho riportato una poesia di Tagore, che dice: “La religione dell’Universo è il movimento. Il peso della immobilità rende grevi e soffoca chi non procede oltre. C’è una pena per il Camminatore: è costretto a separarsi da tutto e a non possedere nulla”. Questa cosa me la porto dietro da tantissimi anni e, finalmente, con questa produzione, sono riuscito a sonorizzarla. Certamente noi musicisti sappiamo quali sono i valori della musica, sappiamo che non è semplice intrattenimento, come ci vogliono far credere quelli che fanno la radio, la televisione o un certo tipo di showbiz più vicino al mondo del pop, dove tutto deve essere catalogato e deve essere trasformato in numeri, fra visualizzazioni e clic. Quelli che fanno musica, che l’hanno studiata e che credono nei suoi valori, sanno bene che per comprenderla bisogna, in qualche modo, liberarsi da alcune sovrastrutture, che ognuno di noi ha. Perché possiamo crescere in famiglie agiate o in mezzo ai cartoni, ma, alla fine, quando si ascolta musica e si fa musica si diventa tutti uguali.
Ecco, guarda, incredibilmente la musica, in qualche modo, ci fa capire che siamo tutti uguali, ci rende tutti uguali come sta facendo questo cacchio di nemico invisibile che è il virus: non guarda in faccia nessuno, non fa distinzioni di ceto, colore, idee religiose, politiche, nazionalità. Come la musica. Bob Marley diceva una cosa bellissima, amico mio: “La musica colpisce senza fare male”. Ma pensa che vantaggio abbiamo noi! Quindi il nostro ruolo nella società non è soltanto quello di fare intrattenimento e farci belli perché diventa poi il nostro lavoro. La musica ci permette di esprimere il nostro pensiero e di dire la nostra opinione, che può essere accettata o no, ma noi abbiamo il diritto di dire la nostra. Strumentalmente, anche senza un testo: il free jazz era musica di protesta, lo sappiamo tutti. Ed io, utilizzando le mie lingue, la musica e l’italiano, ho dichiarato il mio pensiero su certi argomenti e su un certo modo di fare politica. Perché alla fine certi politici sono soltanto degli opinionisti, come quelli che noi vediamo in tv nei programmi beceri in certi orari della domenica. Ci vogliono imporre la loro opinione su cose che non hanno un fondamento scientifico e pratico.
Ed io non posso farmi convincere dalle opinioni: io mi lascio convincere esclusivamente dal mio buonsenso, dal mio cuore e dalla scienza. La scienza mi convince di alcune cose: perché io, che posso anche avere fede, e ce l’ho, la mia fede, ce l’ho nel movimento, che è la mia religione e che per noi musicisti si trasforma in musica, in ritmo, non credo nei dogmi, non li sopporto. Il dogma è una imposizione, e sinceramente io sono un uomo ed un artista libero. E già l’ordine, come imposizione, mi dà fastidio: io credo nella disciplina, che è la disciplina del piacere, non quella dell’obbligo. Faccio musica, e nessuno mi deve dire come la devo organizzare, come la devo studiare, come devo essere disciplinato per fare quello che mi piace. Ecco, questo è il mio pensiero, e non è un pensiero politico.
L’ho detto a voce mentre registravo e ci tenevo a ribadirlo “in lettera”: sottoscrivo tutto. Andiamo avanti: i duetti nascono prima come voglia di reciproco arricchimento personale ed artistico o prima come voglia di condividere qualcosa che per sua natura deve essere condiviso, come la musica?
Beh, potrebbero essere tutte e due le cose contemporaneamente. Nel mio caso, credo da sempre nella squadra e nella collaborazione, tant’è vero che coinvolgo molto spesso delle guest nelle mie produzioni, ed anche perché quando scrivo musica, non essendo un songwriter, che se la canta e se la suona e se la scrive, mi considero un musicista, con l’esigenza di proporre delle cose originali, alle quali devo dare una forma discografica, perché la forma live è un’altra cosa. Il mondo del jazz italiano ha un limite, che discograficamente propone dei live: stesure esagerate con assoli lunghissimi, senza pensare che poi ci sono quelli come te, che il disco lo devono ascoltare e riproporre, fra radio e carta. E sinceramente preferisco un assolo di poche battute fatto bene invece che una grande rottura di cazzo di otto minuti, che in radio, viste le tempistiche, non potrò mai far passare. Fatto sta, tornando al discorso delle collaborazioni, che scrivo musica, ed alla fine, molto spesso scrivo della musica che non è adatta alla mia vocalità.
E, da lì, mi vedo costretto a chiedere la collaborazione di qualcuno che magari, penso, possa interpretarla meglio di me. E chiamo delle voci precise, che hanno quel tipo di suono, quel tipo di enfasi, di soul, quella venatura particolare che si sposa perfettamente con l’arrangiamento del brano. Ed è quello che ho sempre fatto, e che ho fatto anche in questo nuovo album, altrimenti me la sarei cantata e suonata da solo. E’ per quello che ho chiesto a Lello Analfino di cantare il reggae- muffin di “Il mondo in testa” o a Daniela Spalletta, donna eccezionale, mediterranea, vocalist fra le più forti del mondo, di liberare tutta la sua vocalità mediterranea su “Il mondo in testa” e tutta la sua conoscenza musicale in “Nommo”, dove ha trascritto, rifacendolo vocalmente, il solo di pianoforte, mano destra e sinistra, di Domenico Sanna. Ecco, quel momento lì credo sia uno dei più alti, musicalmente parlando, dell’album. E credo anche che per i cantanti iscritti nei dipartimenti di jazz dei vari conservatori sarà un momento di studio da fare, perché gli intervalli che Daniela ripropone sul solo di piano, con quell’incedere, quella facilità, quello swing, quella pronuncia scat vagamente etnica che lei ha coniato, veramente sono da applauso.
Ed io, naturalmente, non posso che congratularmi con lei ed essere felice di averla avuta nell’album. Stessa cosa in “Genetica dell’amore”: c’è Ainè che canta una mia composizione, ed in quel brano la mia voce ha realizzato una intro con una pronuncia particolare, non è la tipica pronuncia fonetica della sillabazione scat, ma è una pronuncia un po’ più gutturale, se vogliamo più “ancestrale”, africana. E poi il solo di scat sul pianoforte di Pasquale Strizzi, anche lì, non ha la sillabazione canonica, alla Ella Fitzgerald, per dire. Quindi anche nello studio della sillabazione nei momenti vocali dell’improvvisazione abbiamo ragionato e cercato un suono fonetico nostro, mediterraneo, originale, ecco.
Nei suoni di questo album quanta divulgazione c’è?
Mah, prima della divulgazione c’è lo studio, e mi piace di più parlare di quello. Non è un disco didattico, anche se dal punto di vista didattico c’è dietro un grandissimo studio. Ed anche i musicisti coinvolti nella produzione non hanno affrontato con leggerezza il lavoro, proprio perché è originale, è a cavallo fra varie culture. In Italia solo un bassista come Dario Deidda poteva far rotolare i groove su queste architetture ritmiche. Tra l’altro, la cosa buffa, è che io mi sono portato la produzione in giro, noi eravamo in tour quando registravamo, e le parti di basso di Dario sono registrate tutte in alberghi diversi, pensa che non avevamo un leggio e le parti le ho attaccate con lo scotch sul manico del trolley sollevato! Abbiamo registrato in questo modo, ho detto a Dario che quelle erano le linee, ma che nelle parti soliste si doveva lasciar andare, suonare come sa suonare lui, e va benissimo che il basso sia un po’ ’70, che ricordi ed omaggi la nostra passione per Jaco Pastorius, ho detto di non pensare che fosse una produzione non jazz o a cavallo del jazz, e che quindi si dovesse, in qualche modo, trattenere. Ho solo detto di suonare.
E quello ha fatto, e la cosa incredibile è che i groove girano in maniera portentosa, nonostante ci sia stata una mole di lavoro enorme, in fase di editing e pulizia delle tracce. E bilanciare il missaggio di questo album è stato davvero molto complicato. Considera che “Il mondo in testa” ha quasi novanta tracce aperte, tutte suonate.
Sempre rimanendo sul tema della divulgazione… abbiamo Morgan in radio, Agnelli su Rai3, te con “Variazioni sul tema” su Rai5, in qualche modo Ruggeri su Rai1: la divulgazione musicale è sempre troppo poca o comincia ad intravedersi un barlume di speranza? E soprattutto, cosa vuol dire per te fare divulgazione musicale?
Beh, intanto credo che ci sia poca musica in televisione. Anche un programma come “D.O.C.”, nell’87, faceva divulgazione, ma non pretendeva di insegnare niente a nessuno. Solo che avevamo il buon gusto, in un momento molto fortunato per la musica, la cultura e l’arte del nostro paese, di proporre un certo tipo di musica, di proporre artisti che, a loro volta, hanno formato gli artisti di questa generazione, a partire da Bollani, per finire con Di Battista, praticamente l’eccellenza del jazz nostrano. E ce ne sono anche altri, anche cantautori, per esempio mi ricordo che volevano venire a vedere il programma Gazzè, Silvestri, che allora avevano vent’anni. E che adesso rappresentano, insieme agli altri, l’espressione più alta del cantautorato italiano. Quello era un modo di fare divulgazione.
E’ che, purtroppo, la musica in televisione pare che continui a non fare dei grandi ascolti, a meno che non sia condita da competizioni, talent show, litigi fra giudici che devono esprimere il loro parere su quel cantante o quella sua interpretazione. D’altra parte, nelle reti generaliste, non ci sono programmi di musica, come, appunto, era “D.O.C.”: trovi qualcosa solamente su alcuni canali digitali, come Rai 5, con la quale collaboro, e Sky Arte, che però propongono materiale spesso di repertorio, acquisito da produzioni internazionali, quindi nulla di originale. A volte, però, noto che vengono mandati in onda dei documentare che probabilmente dovrebbero essere spiegati prima della messa in onda. Ecco, questo è quello che manca, ed anche quello lì dovrebbe essere il ruolo del musicista o del giornalista che ha la capacità, in video o in radio, di raccontare con semplicità quello che il pubblico andrà a vedere. Ed è, infatti, la differenza che c’è fra l’apprendimento via Internet e quello che dovrebbe fare la televisione. In Internet trovi tutto, ma senza spiegazione. Dimmi una cosa, per ora chi ascolti, qual è il tuo artista di riferimento?
Vengo da un po’ di giorni di full immersion su Daniele Sepe, direi lui…
Benissimo, se vai su YouTube e scrivi Daniele Sepe, te lo trovi in tutte le salse, dal vivo, mentre mangia, mentre fa tutto. Sarebbe interessante, invece, cercare Daniele Sepe e trovare Giuseppe Provenzano, come suo fan o, nel tuo specifico caso, come giornalista, che ti racconta chi è Daniele Sepe, perché fa musica in questo modo e come è arrivato a farla, capito che voglio dire?
Assolutamente sì. Mi riaggancio al discorso di “D.O.C.”: nel proporre programmi del genere, con il perfetto bilanciamento fra essenza pop e divulgazione un po’meno mainstream, c’è solo coraggio delle varie produzioni o c’è anche la spinta di un pubblico più recettivo, più pronto ad accettare queste cose?
Beh, sai le radio e le televisioni adesso fanno dei ragionamenti quasi scientifici sulla collocazione di certi programmi in alcune fasce orarie, sulla programmazione di certi suoni a quell’ora per quel tipo di pubblico, così come si ragiona sui vari palinsesti in tv: si fanno un certo tipo di trasmissioni e di programmi per un certo pubblico del mezzogiorno del sabato, e così via. Le cose un po’ più spinte, un po’ più “osèe” si mandano in onda a certi orari e su altri canali. Succede questo, che poi è il problema, il nocciolo della questione: la musica leggera viene troppo banalizzata e la musica colta, che potrebbe essere la musica classica piuttosto che il jazz, viene trattata come qualcosa di fuori dal comune e per la nicchia.
Questa cosa della nicchia io non la sopporto veramente più, perché noi dovremmo abbattere il catalogo delle etichette, dovremmo parlare solo di musica bella o brutta. Allora dov’è l’abilità? L’abilità sta nel fatto di riuscire a trovare la quadra di questa cosa, nel trovare un modo garbato per mettere i linguaggi musicali tutti sullo stesso piano, che è un po’ quello che sto tentando di fare io su Radio24, dove, al pubblico vario di una radio generalista che fa informazione, parlo di Anderson Paak ma anche di Lucio Dalla, di John Coltrane e di Ella Fitzgerald e di elettronica piuttosto che del Solis String Quartet. Cercando di rendere la musica tutta uguale, di farne un discorso unico e di non presentarla con la spocchia che viene spesso utilizzata da alcuni giornalisti. Io tratto la musica come un musicista: è il mio lavoro, la mia vita, e parlarne è una cosa che mi piace fare, che mi tiene in vita. E quindi ne parlo sempre con il sorriso, con l’ironia del musicista: tu sei un musicista, vai in macchina con i musicisti?
Sì, abbastanza spesso.
Ecco, li hai mai sentiti parlare di musica a parte qualche volta? Dicono sempre un sacco di stronzate e di puttanate quando parlano fra di loro…
Sì, io per primo, è verissimo!
Eh, e allora io perché dovrei mettere la maschera del musicista saccente ed intellettuale? Il mio obiettivo è avvicinare la gente alla musica tutta, non allontanarla. Il mio obiettivo è essere, in qualche modo, propedeutico, E per farlo non devo mai dare per scontato che la gente sappia chi è John Coltrane oppure, che ne so, Sfera Ebbasta: se devo suonare Sfera Ebbasta, io faccio un discorso logico, da musicista, e dico perché mi piace o non mi piace. Non ho problemi nel fare questo, ma devo contestualizzare: perché nel mio programma parlo di uno o dell’altro? Perché ho scelto quel tema e perché la colonna sonora per raccontarvelo è quella. Invece adesso, nei contenitori musicali, nessuno fa più questi ragionamenti.
E sai perché? Perché non c’è un budget, amico mio, e ti accontenti di quello che passa il convento, in promozione, e che ha la possibilità di venire a suonare dal vivo. Perché non chiamano Enzo Avitabile in televisione? Piace ad un sacco di gente! E quali sono i motivi per cui non va in televisione a suonare la sua bellissima musica ed a raccontare la sua storia? Tantissimi, non è in promozione, non ha una casa discografica importante, non ha una immagine, è napoletano? Quali cazzo di motivi ci sono? Quello fa musica, è un musicista, come lo siamo tutti noi.
Il controsenso che ho notato “lavorando” sul campo, “sporcandomi le mani” è che i jazz club sono diffusissimi, nelle grandi città almeno uno lo trovi. E sempre abbastanza frequentato, con un discreto numero di spettatori. Il problema dei pochi passaggi radiofonici, quindi, è legato ad una politica di livellamento verso il basso del pubblico, ingozzato volutamente di ascolti dozzinali o manca davvero la volontà di scommettere?
Mah, il discorso, forse, amico mio, purtroppo è più terra terra. Cioè i proprietari delle radio o gli editori, parlando dei network, vivono e sopravvivono con la pubblicità. E gli investimenti pubblicitari da parte degli sponsor vengono fatti in fasce orarie che hanno un grande pubblico. Per avvicinare un grande pubblico si utilizza un linguaggio popolare, negli argomenti e nella musica. Quindi, se a mezzogiorno, a RadioDimensioneSuono, passi il mio disco o il nuovo album di Bollani o di Danilo Rea, improvvisamente gli ascolti diminuiscono, perché è un suono al quale la gente non è abituata. Ma è anche la parola stessa, “jazz”, che fa paura. Sai cosa sa la gente? Ti dice “No, a me non piace il jazz, perché è una musica improvvisata”, senza neanche sapere cosa è l’improvvisazione: dicono che è una musica improvvisata come quando uno la sera dice “Che facciamo?” e si improvvisa una spaghettata.
Senza sapere che non ci si può improvvisare improvvisatori, per improvvisare dietro devi avere un cacchio di studio e le palle quadrate e fumanti e devi aver ascoltato e suonato di tutto e di più, e metabolizzato qualsiasi tipo di linguaggio, armonico, ritmico e melodico. Ecco perché bisognerebbe fare, anche sui grandi network, un discorso propedeutico. E te lo dico perchè io la mia scommessa l’ho vinta: io lavoro a Radio24, il mio è l’unico programma di musica, il sabato e la domenica alle 19.15. L’unico programma di musica di una radio all- news, che fa informazione a grandi livelli. E quando sono stato ingaggiato, con un programma originale, e con la libertà assoluta di gestire il mio spazio, in pochi hanno scommesso sul successo del programma. Ebbene, sono arrivato al settimo anno, con 650 puntate prodotte ed ho il massimo degli ascolti che la radio può ottenere in quelle fasce orarie al sabato a alla domenica.
Ed ho molto più ascolto io, con la mia selezione, delle radio commerciali che propongono il pop di qualità. Questo significa che il pubblico c’è, ma piano piano te lo devi conquistare, lo devi raggruppare, devi dargli la sensazione di aver creato una tribù, una comunità di orecchie che, tutti insieme, ascoltano quello che vogliono ascoltare. Perché quando tu proponi quella musica, poi, ad un certo punto, sai che la gente è attenta, ed ascolta ogni singola parola che io dico, tant’è vero che, ogni tanto, quando mi capita di dire inesattezze, c’è sempre qualcuno che mi scrive per dirmi chessò, che il disco di Lee Morgan è uscito non nel ’61, ma nel ’62. Il livello è questo. Nella radio generalista, invece, la musica passa, va così, come le chiacchiere degli speaker. Non c’è approfondimento, passano, magari, il tuo pezzo dicendo “Questo è il disco nuovo di Giuseppe Provenzano, bellissima composizione, sentiamola” e finisce lì. La prima volta, poi, siccome passi tre/ quattro volte al giorno, perché sei priority, alla fine nessuno dice più nulla, non annunciano neanche più il tuo pezzo.
In questo scenario di musica liquida…
Più che liquida, direi proprio evanescente…
… i generi meno commerciali sono o meno aiutati dalla “dittatura dello streaming”? Perché lì il problema è sempre quello: io, musicista o critico o semplice curioso, vado ad informarmi, a cercare, viceversa, chi non lo fa si ritrova quelle terrificanti playlist…
Guarda, io credo che la musica è bella perché è varia. Ed è la nostra sensibilità che fa la differenza, la nostra curiosità, il nostro cuore, il nostro appetito. L’appetito vien mangiando: quando scopri qualcosa che ti piace poi vuoi assaggiarla di nuovo, e poi di nuovo e poi di nuovo ancora, e poi vuoi saperne di più, vuoi scoprirne le variazioni sul tema. Lo si fa in cucina come nell’arte e nella musica. Ma la prima cosa che devi fare è assaggiare la pietanza. E quando scopri che esiste quel tipo di suono, quel ritmo, quella nuova realtà, se sei un vero appassionato, vai a scoprire cosa ci sta accanto, dietro, sopra e sotto.
Ed è esattamente quello che facciamo tutti noi. Io la musica che propongo a Radio24 non la scopro attraverso le compilation di Spotify, né la casa discografica me la spedisce. La scopro perché faccio una ricerca sistematica con i miei collaboratori, seguendo certe logiche e certi canali. Ed alla fine arrivo esattamente dove voglio arrivare. Magari soltanto per associazioni: compro un disco e sento un solo di armonica a bocca che mi fa impazzire, chi è questo artista? Un musicista ebraico che vive a New York… bene! Avrà fatto un disco? Mi metto alla ricerca… sì, ne ha fatti due, uno di tre anni fa ed uno nuovo, e li prendo tutti e due. Suono qualcosa in radio. A mia volta, in quei dischi trovo un pianista che mi piace molto, e vado avanti così…
Ecco, in questo processo di ricerca le piattaforme digitali ci hanno agevolato un po’ il compito, questo sì. Ed oggi riflettevo su questa cosa qua, siccome io il mio suono non l’ho trovato ancora, rimango indaffarato a cercarlo.
C’è qualcuno che ti piace, che fa cose interessanti nel panorama italiano di oggi?
Sì, c’è qualcuno che mi piace e che fa cose interessanti. Ma se ti devo dire la verità, la cosa più bella che ho sentito nell’ultimo periodo, come produzione italiana, è la canzone che ha cantato Tosca a Sanremo. E tutto “Morabeza” è un capolavoro. Cosa viene fuori da questo? Alla fine, il nostro paese, famoso nel mondo per aver creato melodie immortali, ha perso proprio il gusto della melodia. E allora quando a Sanremo arriva una grande cantante, e Tosca è forse in assoluto la più grande interprete di musica popolare che abbiamo, che ha l’abilità vocale ed intellettuale per cantare repertori diversi, cosa che fa da anni, canta qualsiasi cosa benissimo e con un grande cuore, e la rende sua.
E quindi la mia stima nei confronti di Tosca è praticamente infinita. Quindi quando ascolti una melodia come quella, fuori dal tempo e dalle logiche del marketing, e che ti colpisce dritto al cuore, capisci la differenza che c’è: non c’è bisogno di grandi impianti sonori, di orchestre, di dieci chitarre e di ritmi incandescenti, di vestirsi da giullari o di creare chissà quale tipo di aspettativa dietro a un testo. Alla fine è una bella melodia, che ti colpisce al cuore e ti commuove, perché è quello l’obiettivo della musica, emozionare. E purtroppo, lo devo dire, le nuove generazioni che, naturalmente, rappresentano il suono di questa generazione, quindi tutti questi che fanno rap o trap, per non parlare dei nuovi cantautori, e ce ne sono diversi che fanno cose molto carine, dovrebbero riflettere un po’ di più sull’aspetto melodico. E riflettendo sull’aspetto melodico, che è fatto di intervalli, ragionare anche sul supporto armonico, che, in qualche modo, potrebbe variare nell’arco di una struttura.
La musica è fatta di ritmo, armonia e melodia. Se, di base, l’impianto ritmico è uno stereotipo del successo precedente, quindi è noioso, non c’è ricerca, se la melodia è monofonica, monocorde, e non si muove neanche su una struttura armonica perché ci sono tre accordi, certo, allora dobbiamo in qualche modo soffermarci su quella che deve essere l’importanza del testo. Ma il testo racconta un momento. Una grande canzone resta nel cuore di tutti e va fuori dalle mode e dalle età perché ha un impatto melodico, oltre che un testo intelligente, bello, poetico e tutto quello che vuoi. Quindi, la canzone di Tosca è una delle cose più belle che ho sentito, ma anche il brano di Brunori, “Per due che come noi”, bellissimo, mi ha veramente emozionato… “non confondere l’amore e l’innamoramento”.
E fra queste ci metto anche la mia “Genetica dell’amore”: ha una struttura ritmica e armonica da far paura, e già solo l’intro, quando entra il fill di batteria, ti spiazza, non sai più dove stai con la clave, e quella è una cosa scientifica, pensata, un testo che ci racconta la resilienza dell’amore, in un momento come questo, fra l’altro, pensa che cosa incredibile, una giovane voce italiana come Ainè, e poi il talento di tutti i musicisti che ci hanno suonato. Un brano dove, io che l’ho composto, scopro cose nuove di ascolto in ascolto.
Una collaborazione che vorresti fare ed una che avresti voluto fare…
Non ti nascondo che per “Il mondo in testa” avevo pensato anche a Tosca, per farle cantare “La religione dell’Universo”. Poi tutto ha preso un suono diverso, ma spero, prima o poi, di riuscire a collaborare con Tiziana Donati, in arte Tosca, perché è proprio bravissima. Ed a me piace il talento, mi piacciono la genuinità e la semplicità che hanno certi artisti. Fra quelli che avrei voluto fare, rimpiango di non aver avuto l’occasione ed il tempo di conoscere e lavorare con Pino Daniele. Questo mi dispiace molto.
L’ultima! Il ruolo e l’importanza della musica in questo momento.
La musica è fondamentale, lo è sempre. Racconta la nostra società con una forma d’arte invisibile, che non può essere toccata e che viene espressa in suoni, note. E non ha limiti, non ha confini, non la puoi fermare. Come ti ho detto, non c’è religione, non c’è politica, non ci sono caste per la musica. E quindi sempre di più il ruolo della musica diventa importante per la società, perché ci permette di condividere bellezza e forti emozioni. Ed in questo preciso momento, dove siamo tutti obbligati a dare una nuova scala di valori alla nostra vita ed alle nostre priorità, sono sicuro che la musica non solo diventa per tutti una bellissima e consolatoria terapia, ma anche una formidabile valvola di sfogo. E quindi, sì, è assolutamente fondamentale per tutti.
Articolo del
27/03/2020 -
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