Sapete quanto io sia estremamente prolisso, eppure per la seconda volta (quasi) consecutiva voglio parlare davvero poco.
Prima di ricacciare la mia megalomania dentro di me, voglio però dire due cose rapide rapide.
Questa intervista profuma di sud. E suona di libertà.
E, visti i tempi, scusate se è poco. Buona lettura.
Come nasce, proprio da principio, il progetto di Capitan Capitone, e come si sviluppa in fase di composizione, dal momento che il numero dei collaboratori non è indifferente?
Mah, guarda, in realtà è una situazione di divertimento, magari un po’ di più rispetto ad altri dischi, ma comunque parte tutto da lì, quando si suona ci si diverte, ed è sempre bello stare insieme agli altri musicisti. Poi col Capitone assume degli aspetti un po’ più goliardici, ma la base è sempre quella. L’estate scorsa, fortunatamente si poteva ancora andare al mare, prima ho contattato una serie di musicisti, con cui avevo pensato di realizzare questo terzo album, e poi, quando ho avuto la disponibilità di tutti quanti, che è arrivata praticamente subito, ho cominciato a pensare alle cose da scrivere. E le ho scritte praticamente di getto, a mare, insieme agli altri amici, anche perché alla fine venivano a mare anche loro. Abbiamo cominciato a scrivere alternando: qualche volta prima i testi, altre volte prima le musiche. Quando si comincia sembra sempre che hai pochi pezzi, pochi spunti. Poi, alla fine, invece, ne hai sempre troppi: insomma, un disco di diciannove pezzi penso sia una rarità nel 2020. E qualcuno lo abbiamo pure tenuto fuori, con molta serenità. E poi abbiamo quasi anticipato la quarantena, perché abbiamo lavorato praticamente ognuno da casa propria: per esempio, Franco Giacoia le chitarre le ha registrate da Amsterdam, dal momento che abita lì. Poi altri in Spagna, altri in Grecia, altri in Sardegna. Ed ovviamente era l’unica maniera di realizzare un progetto del genere: tenere insieme fisicamente più di settanta musicisti e circa cinquanta coristi sarebbe stato impossibile. E poi è nato con delle sorprese. E’ stato molto social, questo Capitone. Per esempio, ad un certo punto ho visto che su Instagram aveva cominciato a seguirmi Fabio Celenza. Ed avevo pensato che potesse essere un caso di omonimia, o qualche profilo fake, o qualche profilo gestito. Poi l’ho contattato, chiedendogli proprio “Ma tu si’ Fabio Celenza?”- “Sìsì, sono io”. Gli chiesi come mai avesse cominciato a seguirmi, e lui mi disse che era un grande fan. A quel punto gli ho proposto direttamente di venire a far qualcosa nel nuovo Capitone. Anche con Mimì Caravano tutto è avvenuto in modo abbastanza fortuito. Diciamo che quasi nulla è stato scientificamente organizzato.
Mi riaggancio al fatto di aver tolto delle canzoni. C’è “Pan/Demonio”, che hai scritto con Aldolà Chivalà, che è decisamente centrato nel contesto attuale, e che è uscito qualche giorno fa. La domanda che viene spontanea è quanto la musica può aiutare in questo momento e quanto può aiutare quando ne saremo usciti.
“Pan/ Demonio” viene direttamente dalla quarantena, sì, il Capitone era già uscito. Poi. guarda, che la musica sia una occasione di riflessione per la gente io non ci credo. Non più, sono troppo anziano per credere a ‘ste stronzate. C’era un vecchio cantautore, Fausto Amodei, che fece una canzone, si chiamava “Ballata autocritica”, era l’epoca del ’68, in cui diceva che puoi usare la ciaccona o il rock’n’roll, puoi scrivere rime stupende, ma nessuna canzone rende più morbido uno sgombero o fa aumentare la busta paga di un operaio. Serve come panacea a noi, ai nostri dolori, alle nostre disgrazie, quindi è ovvio che mi fa piacere sentire certa musica e certe canzoni, perché, appunto, sono una specie di palliativo per l’anima. Ma che poi cambino le cose… insomma, John Lennon ha scritto “Imagine” quarant’anni fa, ma non è che le guerre si so’ fermate. Quello che spero, ovviamente, è che si torni a suonare dal vivo, anche perché l’aspetto conviviale della musica mi è sempre piaciuto, anche col Capitone, quando andiamo a suonare siamo almeno in dieci. Insomma, voglio stare insiem’a ggente, mi diverte e spero che ce lo facciano tornare a fare al più presto. Però, ti ripeto, alla musica, come all’arte in generale, non ci credo più molto. Spesso qualche collega ha dei deliri di onnipotenza, quando noi contiamo meno di un cazzo, è l’economia che fa muovere il mondo, non i buoni sentimenti.
Il primo aprile, come pesce d’Aprile, hai scherzato sulla vittoria della Terga Tenco… ti sei candidato?
No, non l’ho mai fatto. Non so se lo abbia fatto qualcun altro. E, visto il momento, non so nemmeno se si farà il Tenco quest’anno, figurati…
Qualcuno che vorresti come ospite nel prossimo Capitone?
Guarda, forse farei una scortesia a tutti quelli che hanno partecipato, che so’ tanti e tutti bravissimi. Diciamo che riconfermare la ciurma di quest’anno sarebbe il massimo. Un cantautore che ho contattato per questo Capitone, ma che era impegnato in Brasile a lavorare sul nuovo disco, è Mannarino. L’ho conosciuto, e mi sembra uno “ch’e cazz’”, mi piacerebbe tirarlo dentro un’avventura piratesca come questa, vedremo se si potrà fare. Però il Capitone non è alla ricerca del nome, non ce ne frega un cazzo. Il Capitone cerca gente a cui piace mangiare e bere assieme, gente che ha lo stesso approccio alla musica ed alle cose. Fra tutte le persone che hanno partecipato c’è qualcuno che, disgraziatamente, è più noto di qualcun altro, ma sono tutti degni di un’attenzione esagerata. Sono contento già così, ecco. Anche perché metterne tanti insieme è già un segno di grande rispetto, una soddisfazione.
L’ultimo Capitone è un disco che parla ai bambini e che, in parte, è fatto dai bambini… come mai questa scelta?
Quando ho fatto il primo Capitone tutto m’aspettavo, meno che i bambini potessero appassionarsi. E invece, stranamente, già dal primo live, io mi sono ritrovato con una “chiorma e’criature” con le mamme, che erano voluti venire a conoscere Capitan Capitone, qualcuno addirittura vestito da pirata. Avranno avuto quattro, cinque anni. E noi facevamo “Cornutone” degli Squallor! Stavano tutti seduti sotto il palco, qualcuno addirittura saliva anche sul palco. Questa cosa mi ha fatto capire che questa storia dei pirati li aveva colpiti, e ne ho voluto approfittare per fare qualcosa specificamente per lor e con loro. Ed ha funzionato, perché mi arrivano un sacco di videomessaggi di bambini che mi salutano e che cantano le canzoni. Quindi, insomma, è servito a me, e spero sia servito pure a loro. E’ stata una cosa molto bella.
Hai visto nascere il famoso Neapolitan Power, negli anni ’70…
(interrompendo,sorride) Vuo’ dire che so’ vecchio, allora… sai, all’epoca nessuno stava pensando a quello che stava facendo, anzi, c’era anche un clima molto interrogativo rispetto a quello che si stava facendo, non c’erano tutte ‘ste certezze, nessuno pensava di fare la Gioconda. Però il contesto sociale e politico era completamente diverso da quello di oggi: una cosa come questa qua sarebbe stata inimmaginabile allora. Prendere noi a diciott’anni, vent’anni, chiuderci in casa e dire “Non dovete scopare per un mese”… sarebbe successa la guerra in mezzo alla strada. Virus o non virus. Per noi il concetto stesso di libertà era inattaccabile, per qualunque tipo di pericolo e di situazione. Il contesto era completamente diverso, e si riusciva a produrre una musica adatta al contesto. Oggi è sicuramente più difficile perché il contesto è più di merda.
… però, anche grazie al Capitone, sei stato sdoganatore e scopritore del Newpolitan Power, penso a Gnut, La Maschera et similia. Cosa ne pensi di questa scena e come mai Napoli ha questa fortissima propensione alla musica, e penso, appunto, a queste scene sopracitate, ma anche a quella dei ’90, fra Almamegretta, Bisca e 99 Posse.
(ride) Forse la disoccupazione. No, abbiamo una tradizione, che è quella della canzone napoletana classica dell’800, che è un discreto bagaglio. E che per qualcuno è stato un clichè che si è voluto togliere di dosso, il Neapolitan Power nasce un po’ come reazione alla canzone d’amore melodica. Oggi, forse, la nuova scena napoletana sta tornando un po’ troppo indietro, si sta rifacendo un po’ troppo alle canzoni d’amore. E questo è un po’ un limite dell’attuale scena, oltre che un passo indietro rispetto alle esperienze di Napoli Centrale, di Pino o degli Osanna. E penso che il Capitone serva anche ad aggiustare un po’ il tiro rispetto a queste cose qua, serva a parlare anche di cose diverse.
A proposito di parlare di cose diverse… tu hai sempre rifiutato le etichette. Sicuramente, però, vieni dal jazz. Però hai suonato anche con gli Zezi, nella “Tammuriata dell’Alfasud”: se ti dicessi che c’entri anche col combat folk?
(a questo punto gira il cellulare, inquadrando la stanza, che è piena di scaffalature, a loro volta piene di dischi) Fra qua ed il piano di sotto ci stanno sette/ ottomila dischi. Non si può parlare di etichette, la musica è talmente tanta, e talmente bella, che potrei stare due anni a sentire solo bhangra. C’è troppo da sentire e c’è troppo da riprodurre: appunto, “Abu Tabela”, il pezzo con Shaone, è pieno di elementi di musica indiana, di ascolti che a me piacciono. E quindi vuless’tene’ nove vite, per avere il tempo di affrontare tutto. E fra questi cd c’è di tutto. Ecco, questo “tutto” va a finire dentro ogni mio disco.
Torniamo un attimo, invece, al discorso più politicamente attuale: ogni D.P.C.M. ha cercato di ovviare alle necessità di tutti, meno che a quelle del mondo dell’arte in generale. Perché ci sono dei mestieri, guarda caso sempre appartenenti alla stessa “scena”, che passano sempre come hobby? E soprattutto, se gli artisti possono fare qualcosa per farsi sentire.
Guarda, comincio col dire una cosa: noi facciamo un mestiere che è tanto bello. Ma se io ti lascio alla deriva su una barca per quindici giorni, senza viveri e senza nulla, ed appena tu arrivi alla spiaggia io metto davanti uno sfilatino col salame da una parte ed un Picasso dall’altra, tu, stamm’a senti’, dopo quindici giorni di digiuno, ti prendi lo sfilatino. Quindi noi siamo assolutamente sovrastrutturali rispetto ai bisogni primari della gente. Per cui la musica, sarebbe una cosa bellissima, come lo scrivere, il leggere, il guardare un film, il parlare di arte, nel momento in cui tutti i bisogni impellenti dell’umanità fossero risolti. E’ normale che in una situazione come questa, nella quale, alla fine, ci saranno un sacco di disoccupati, fra aziende che chiuderanno e posti di lavoro che svaniranno, noi siamo solo una specie di camomilla, o di thè eccitante, nulla di più. Da questo punto di vista non starei tanto a lamentarmi. Poi, è chiaro che come ogni categoria di gente che lavora, ognuno di noi è diverso: c’è chi ha una enorme fortuna, voglio dire, non credo che Jovanotti abbia i miei problemi, così come io non ho i problemi del ragazzo di vent’anni che è agli inizi e non prende manco cinquanta euro a serata. E’ chiaro che anche all’interno della nostra categoria c’è chi fa il ruolo del grande avvocato o del grande medico, e chi si arrabatta per mettersi sul piatto pranzo e cena. Cinicamente vedo abbastanza normale che la nostra categoria sia l’ultima ad essere presa in considerazione quando ci sono problemi di questo tipo. Manchiamo di solidarietà. Attenzione, manca anche da molte altre parti, tipo nella classe operaia. Ma loro in passato l’hanno avuta, hanno avuto un sindacato degno di questo nome. Noi no, non abbiamo mai avuto l’idea di una rappresentanza, soprattutto non siamo mai stati insieme, ed il Capitone è anche una risposta a tutto questo, è l’idea che insieme valiamo più che da soli: se io ti do uno stecchetto in mano, tu lo puoi spezzare, se te ne do cento, no. A noi questa cosa è sempre mancata, anche perché molti hanno sempre avuto questa concezione di merda dell’antagonismo, del voler vincere Sanremo (o il Tenco, è lo stesso). E però, poi, questa cosa ci va in culo quando ci sono situazioni del genere, ecco.
Tu hai sempre lavorato in crowdfunding. Lo pensi una forma di individualismo autarchico o di comunismo artistico, nel senso che metti a parte il tuo pubblico di tutto quello che fai?
No, è una cosa che mi dà la possibilità di essere completamente libero, realizzare tutto quello che ho in testa, senza avere la mediazione di un’etichetta o di un produttore o di qualcuno che ti dica “Questo non si fa” o “Questo si fa così”. Ma io ho sempre fatto così, sono sempre stato talmente autarchico da farmi mastering e missaggi da solo. E’ una idea di autonomia. Stavo in Autonomia Operaia, sono ideologicamente convinto che l’autonomia sia una cosa da difendere ad ogni costo. Sono sicuro che se avessi ceduto su qualcosa c’avrei guadagnato in termini di visibilità e di opportunità, che ne so, televisione e tutte ‘ste menate qua. Ma sarei stato artisticamente meno libero. Quindi che me ne frega? Sto bene così, mi è sempre bastato mettere dieci litri di benzina nella motocicletta, dieci litri di benzina nel gommone e andare dove cazzo volevo andare, avere degli amici e la possibilità di suonare. Non ho mai sentito il bisogno di volere di più. Quindi perché vendermi il culo? Sto bene così.
Quando hai fatto l’album dedicato a Gato Barbieri, ho apprezzato il modo di intendere il disco, il fatto che tu abbia deciso di non fare cover, ma piuttosto pezzi che avresti immaginato suonati da lui. Anche perché la mia idea di cover è che, se la fai bene bene, ti viene un po’ peggio dell’originale…
(interrompendo) E’ raro il caso in cui una cover sia effettivamente migliore. Che ne so, un Hendrix che suona Dylan avrei qualche difficolta a pensarlo peggiore dello stesso Dylan. Però, sì, di solito è così. Guarda, allora non fu nemmeno una cosa che pensai razionalmente, non sono uno che pianifica il disco, che decide “Adesso faccio il disco così”, pensandoci e ragionandoci: spesso arrivo in sala che non ho neanche i pezzi, anche nel caso del disco dedicato a Gato. Io prima ho messo insieme la gente, poi, un paio di giorni prima di entrare in studio, ho scelto il repertorio ed ho provato a fare un minimo di arrangiamento. Sono assolutamente disordinato, e volutamente disordinato, nell’organizzare il lavoro, perché penso che arrivare in sala con le idee troppo cristallizzate un po’ tolga creatività a chi lavora con te, ne limita il lavoro, e un po’ ti toglie la possibilità di avere quella magia che si crea quando metti insieme alcune persone che, oltre a suonare bene, hanno anche la stessa testa rispetto al mondo, rispetto alla visione delle cose: Hamid Drake, per dire, è uno che ha la mia stessa visione della politica, delle cose. E quindi perché costruire una specie di gabbia in cui loro dovrebbero poi muoversi? E’ una gabbia mentale: io quando sto in sala per sei ore, sto sotto pressione, lavoro meglio. Quando, invece, ho fatto il lavoro a monte, in modo certosino, ho sempre fatto cacate. Il lavoro che viene fatto prima è quando tu ascolti le cose, senza pensare che magari un giorno le metterai su disco. Succede come quando stai guidando ed osservi qualcosa e ci metti qualche mese a digerirla, per poi scriverci qualcosa sopra. Diciamo che il lavoro, che è un lavoro da fare in generale nella vita, è quello di stare attento, di cogliere le cose, anche di immaginarle. Ed è un lavoro che però, ad un certo punto, deve lasciare spazio anche all’aspetto più incosciente e meno matematico della cosa. In quel caso, a me, sono uscite le cose migliori.
…anche perché, soprattutto in certi ambienti, come per me, conoscendoli in qualche modo, possono essere alcuni locali palermitani, c’è una lobby delle cover band: girano sempre le stesse persone, con proposte tutt’altro che originali. Quanto queste cose ammazzano la musica, sia in senso “idealistico”, dal momento che si ammazza la creatività e l’originalità di ogni artista, sia in senso economico dal momento che vengono a mancare i le occasioni per gli artisti emergenti, sacrificati in nome del “Quanta gente porti”?
Non sono assolutamente contro alle cover, nel senso che servono, se fatte bene, a capire come arrangiare un pezzo. E’ una cosa che tutti abbiamo fatto e che tutti dobbiamo fare. D’altro canto il jazz è una storia di cover, lo standard è sempre una cover. Dopo, ti faccio un esempio: pensa a Max Gazzè, che aveva questa cover band dei Police, con la quale vinse anche un contest a livello europeo. Poi, dopo, devi andare avanti. Il problema è che, come dicevo poco fa, il contesto culturale oggi è una merda, ed è normale che hai molte più difficoltà nel fare accettare ad un ragazzo di vent’anni una cosa che non ha mai sentito piuttosto che proporgli una cosa che già conosce. C’è molta meno curiosità, molta meno fame di musica rispetto a qualche anno fa. Noi mica avevamo YouTube o Spotify, e recuperare un disco era un’ira di Dio ogni volta, non avevamo le opportunità di oggi. Oggi forse c’è anche troppa offerta, e, di conseguenza, meno curiosità: è un po’ come se noi stessimo sempre fra trecento donne bonissime… probabilmente diventeremmo ricchioni dopo un po’. Ecco, c’è anche quest’aspetto. Diciamo che la cover band serve per imparare a suonare, però dopo devi fare altro.
Articolo del
10/04/2020 -
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