All’università, durante il mio primo (nefasto) anno di Beni Culturali, ci fu solo una materia che ebbe tutta la mia attenzione, antropologia culturale: non mi persi una lezione, pendevo dalle labbra del professore, Salvatore D’Onofrio- che incontrai anche al concerto di Marcus Miller, mio primo articolo su Extra!, ma questa è un’altra storia- che ci fece studiare da un suo libro, adesso gelosamente custodito nella mia libreria. Il libro, forse ne avevo parlato in un altro pezzo, mi sembra quello su Cesare Basile, si chiama “Le sauvage et son double”, è in francese, ed io rimasi talmente affascinato da averlo tradotto tutto, praticamente a mano. La traduzione, non è così incomprensibile, è “Il selvaggio ed il suo doppio”, e snocciola il tema del doppio in una serie di miti ed opere letterarie.
Andando ancora oltre, ho detto sempre di vedere le cose da due prospettive, sono siciliano e, se non bastasse, pirandelliano convinto. Adesso si capisce ancora meglio perché il tema del doppio, raccontato da una prospettiva mitologico- letteraria mi colpì così tanto.
Anche questo pezzo è pieno di doppiezza: non è una recensione multipla, è una intervista che, però, “completa” quella di qualche mese fa, così come “Dove sei pt.2” ha completato “Dove sei pt.1”.
Si sarà capito che sto parlando di Lucio Leoni e dei suoi due album, a mio parere due delle note liete di questo anno barzotto.
Però, siccome duplice rimango, voglio lanciare l’intervista parlando d’altro.
Oltre ad essere un “cane deluso”, citando Della Mea, sono anche un cane sciolto, credo si sia intuito, e mi prendo il lusso di fare un po’ di pubblicità, anche perché il disco che sto per citare l’ho anche preordinato (sia mai che i Savonarola della musica si possano infastidire se un critico chiede un album), per cui credo di poterci spendere a buon diritto un paio di parole.
In breve, il quattro dicembre prossimo venturo uscirà, ovviamente per Black Candy Production, una raccolta, curata dallo stesso Lucio, realizzata in memoria di Lorenzo Orsetti Tekoser- ricorderete, era il militante curdo che venne ucciso dall’Isis lo scorso anno. Si chiamerà "HER DEM AMADE ME- Siamo sempre pronte, siamo sempre pronti", ed è un progetto fantastico, ci sono un sacco di artisti bravissimi, da Capovilla a Benvegnù, passando per Margherita Vicario, Truppi, Marina Rei, i Tre Allegri Ragazzi Morti, e concludendo con Giorgio Canali, Marco Parente, Cesare Basile ed ancora tanti altri.
Il ricavato verrà devoluto al centro Alan’s Rainbow di Kobane, per dotarlo di un ambulatorio pediatrico, che verrà intitola proprio all’indimenticato compagno Orso.
Non è un mistero, ho sempre trovato fondamentale l’essere partigiani in musica, e questo progetto incarna perfettamente questa mia concezione.
E poi Natale si sta avvicinando, e questo mi sembra davvero un ottimo regalo solidale: diffondete buona musica e cultura, perorate una buona causa e, soprattutto, vi rendete partigiani: cosa chiedere di più?
Io, intanto, vi lascio a Lucio ed alle sue parole.
Come sempre, buona lettura.
Qual è, se c’è ovviamente, la differenza “concettuale” del “dove sei” della parte uno e di quello della parte due?
In realtà grandissime differenze, almeno per quanto riguarda la concezione dei due dischi non ce ne sono, come ci siamo già detti si tratta di un disco “unico” ma poi separato in ottica di promozione.
Diciamo che la differenza che abbiamo avvertito, che è quella che poi ci ha effettivamente portato alla divisione, è relativa allo sguardo di questi contorni che noi andavamo a cercare, di questo passaggio anagrafico, piuttosto che culturale e sociale, all’età adulta: mentre nella prima parte facevamo una ricerca che andava dal particolare all’universale, perché affrontavamo grandi temi e li portavamo sull’esperienza personale, in questa seconda parte affrontiamo temi più piccoli, più intimi e personali- molti rapporti di coppia ed, appunto, interpersonali- e con quelli proviamo a giustificarci, a spiegarci ed a raccontarci cambiamenti più grandi sia sociali che culturali.
L’immagine del bacio che fa esplodere il Vaticano è potentissima, praticamente eversiva. Mi sembra di capire che tu sei uno di quelli che “l’amore salverà il mondo”… o quantomeno noi, ecco…
In realtà no. Nel senso che faccio ragionamenti molto più delicati sul concetto di amore, per quanto riguarda la mia esperienza personale. Però credo che l’amore sia una di quelle potenze motrici del mondo, che debba essere lasciata assolutamente libera da qualsiasi tipo di condizionamento, che sia esso religioso, scientifico o genetico.
Ognuno ama come vuole, quando vuole e nel modo in cui crede, non credo che si possa arginare quella potenza là. In questo caso qua, oltre a questo bacio eversivo che fa esplodere il Vaticano, ed “eversivo” mi piace molto, mi hai colpito, la cosa che secondo me lega molto quel bacio eversivo alla mia visione è quel “col cazzo che siamo tradizionali!”, che è una presa di posizione abbastanza netta.
Di solito il mare è un po’ un clichè nelle canzoni d’amore. Tu invece lo hai ribaltato e lo hai fatto diventare un vero e proprio flusso, fisico e psicologico. Da dove ti è venuta questa associazione di idee?
(ride) Lo sai che non ne ho la più pallida idea? Però, diciamo che sicuramente sono fra quelli che hanno ben chiaro che il mare è una sorta di archetipo molto pericoloso con cui lavorare, soprattutto quando si parla di musica e di testi ad essa legati: in questo paese il mare è il centro di alcuni delle più grandi canzoni della nostra tradizione, per cui è sempre molto delicato aver a che fare con quell’idea lì. E quindi evidentemente, volente o nolente, sono portato a guardarlo in maniera diversa. Però, ecco, come faccio a fare quelle associazioni non lo so. Dormo male, evidentemente!
“Francesca” è anche un pezzo della storia d’Italia. Cosa ti ricordi del tuo 23 maggio ’92, e, quasi consequenzialmente, cosa ti ha spinto a scrivere quel pezzo?
Guarda, io alle elementari avevo una maestra molto centrata sul contemporaneo, ci faceva fare molta attenzione a quello che succedeva intorno a noi. Per cui c’ho il ricordo del giorno dopo, quando ormai la notizia l’avevamo letta e conosciuta tutti. E ricordo un’aria molto rarefatta in classe, nonostante fossimo molto piccoli e poco in grado di capire l’avvenimento, si avvertiva che era successo qualcosa di molto forte, e che in qualche modo aveva comunque segnato tutti.
La riflessione probabilmente è partita da lì, da quell’avvenimento, che ho cercato di poetizzare il più possibile, non avendo gli strumenti per entrare dentro a quelle questioni. A proposito di passare dal personale all’universale, raccontare una storia d’amore, una storia “piccola” ed intima, fra due figure come Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, significa finire per raccontare qualcosa che in realtà ha segnato un po’ tutti noi: quella là è stata davvero una storia d’amore che ha segnato una intera generazione, ed in realtà non solo una.
E’ un cambio epocale, e spezza quello che allora per il nostro Paese era un sogno, quello del raggiungimento di una sorta di verità, che invece ancora oggi non c’è, perché si continua a parlare di trattativa stato- mafia ed ancora escono fuori un sacco di magagne relative a quel momento là, un momento in cui sembrava potesse esserci un pizzico di apertura rispetto a quanto stava succedendo veramente, ed invece quel sogno di libertà si spezza in quel momento esatto, e le conseguenze le paghiamo ancora oggi. Per cui mi sembrava un modo di passare da quella storia d’amore, molto dolorosa, all’affrontare quasi trent’anni di storia.
In un momento del genere per un artista l’autodifesa è continuare a scrivere e ad esprimersi o cosa altro?
In questo momento l’autodifesa è immaginare il futuro di quello che potrà essere il nostro mestiere, perché indipendentemente dall’emergenza attuale e dai contagi del momento, personalmente ho capito che il tipo di situazione che abbiamo vissuto questa estate, quindi i concerti col pubblico separato, seduto, distanziato e con le mascherine, ce lo porteremo appresso per un po’ di tempo, e non possiamo fare a meno di immaginare, da qui in poi, un nuovo modo di interpretare la performance dal vivo.
Per cui per me l’autodifesa, al momento, è proprio ragionare su come racconterò le mie personali espressioni artistiche, canzoni o quant’altro, in un contesto live. Non riesco ad immaginarmi come sono stato fino all’anno scorso, con la gente sotto il palco che balla. E’ anche disegnare, scrivere possibilità di performance live attualizzabili e futuribili.
“Quasi ci spaventa” è un po’ un trionfo della normalità del singolo, quasi brechtiano con quel “chi se ne frega degli eroi”, e “Per sempre” ne è quasi la continuazione, con la normalità nella società e nei rapporti. Al netto del fatto che si tratta di brani precedenti al gran bordello di adesso, ti sembra comunque che risentano di questa assenza di una normalità che magari prima ci sembrava noiosa e che adesso invece ricerchiamo?
Questo punto di vista è molto interessante, e diciamo che quello è lo scotto che pagano le canzoni: avremmo potuto scegliere di fermarci e non fare uscire il disco per aspettare, però io il pensiero che le canzoni possano invecchiare nelle mani degli autori ce l’ho, e quindi ho scelto di pubblicare due dischi in questo anno fortunatissimo! Le canzoni risentono del momento storico, alcune incredibilmente si modificano e guadagnano ulteriore valore, altre invece vengono, in qualche modo, sconfitte dalla storia.
Per esempio, secondo me “Per sempre” è uno di quei pezzi che ha cambiato segno, per così dire: prima raccontava una normalità, mentre adesso, in questo momento, racconta una roba che non è affatto normale, racconta della voglia di stare insieme e di amarsi, ed urla il bisogno di stare insieme. Che in realtà non credo sia una cosa che tornerà a non mancarci nel momento in cui torneremo a vivere le strade: rimane qualcosa di cui avremo bisogno sempre, ecco. E’ strano, in questo momento tutta la produzione artistica risente del momento storico che sta attraversando il mondo, ed ogni interpretazione è molto legata al momento attuale. E chissà poi fra un anno o due anni come verranno rilette!
“Nastro magnetico” apre ad almeno tre riflessioni/ domande. La prima: come è nata l’idea dietro al pezzo, il fondere così a stretto contatto musica e cinema?
Per caso: mi sono trovato fra le mani questo testo e mi sono accorto che praticamente era una sceneggiatura. Non è nata pensandolo, non ho detto “Toh, adesso scrivo una sceneggiatura”. Ho scritto ‘sta roba e mi sono accorto che c’era una sceneggiatura dentro. Poi, chiaramente, l’ho aiutata a venire fuori, aggiungendo la famosa dovizia di particolari: i movimenti di macchina, le indicazioni di regia, eccetera. Per un periodo ho anche pensato che sarebbe stata una operazione troppo pericolosa, a proposito di mercato quasi eccessiva: che ci fai con una canzone che dura sette minuti, che in realtà è una sceneggiatura?
Poi è subentrato il “No, ma chi se ne frega!”, è proprio una canzone. E’ la cosa che mi piace fare della musica, questo provare a spostare i limiti ed i paletti che ci dicono siano quelli del pop. E poi ho pensato che sarebbe stato molto divertente metterla in mano a chi di musica per cinema si occupa, cioè i Mokadelic, e farli lavorare in sottrazione, essendo loro abituati a lavorare su dei premontati, con già qualcosa da vedere. Mentre invece in questo caso hanno lavorato quasi sul primo vagito di un film, e si sono dovuti immaginare in qualche modo quello che poi sarebbe finito sullo schermo, senza sapere se sarebbe mai effettivamente finito sullo schermo.
La seconda, che mi hai quasi anticipato: la musica cinematografica, o meglio, le sonorizzazioni del cinema, stanno vivendo un ottimo momento, penso anche ai bellissimi lavori di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo o alle performance dal vivo di Marlene Kuntz o Xabier Iriondo: si è attenzionato solo adesso il legame fra cinema e musica o cosa altro?
Secondo me è un ritorno: il cinema nasce con le esibizioni dal vivo dei pianisti, che si mettevano sotto lo schermo e sonorizzavano i film muti. Questo rapporto è intrinseco da sempre. Poi l’arrivo del sonoro ha sì sparigliato le carte in tavola, ma quando parliamo di cinema parliamo quasi sempre anche di immensi compositori, da Morricone a Danny Elfman a chiunque altro: è una roba intimamente legata, perché il potere delle immagini, paradossalmente, è nullo senza sonoro.
Uno degli esercizi che mi capitava di fare quando ero in conservatorio era proprio lavorare in sottrazione: guardare un film senza audio oppure ascoltare un film senza vederlo. Lì ti rendi conto di quanto questo legame sia indissolubile. Per cui secondo me questo ritorno alla sonorizzazione, intesa anche come performance, è centrale nell’idea di ricerca e di evoluzione del concetto di musica e di esplorazione, e diventa uno dei tanti strumenti che la musica stessa ci mette a disposizione. E’ un ritorno, si guarda indietro per andare avanti, ecco.
L’ultima: un regista di cinema d’autore a cui faresti girare un film, chiaramente a sceneggiatura ampliata, di “Nastro Magnetico”.
(ride) Porca miseria, difficilissimo! Non lo so, anche perché non sono un grande esperto di cinema, sai? Vivo con una persona che lavora nel cinema da ormai dieci anni, e credo sia anche uno dei motivi per cui sono finito a scrivere ‘sta roba. Però, sì, così su due piedi mi cogli davvero impreparato…
Ascoltando i due capitoli di “Dove sei” ho notato che c’è un uso della voce che trovo fantastico: riesci a dilatare i versi in un modo completamente tuo, del tutto diverso da quello che magari fa un Paolo Conte, che riesce a spostare gli accenti della musica e delle parole per plasmare il pezzo. Per cui che rapporto artistico hai con la tua voce, intesa proprio come la “phonè” di cui parlava Carmelo Bene, quel cantare recitando e recitare cantando?
Sempre più intimo. Guarda, ti devo dire che sei una delle poche persone che mette l’accento su questa cosa qua, e considera che mi capita spesso di essere accusato di non cantare mai e di non essere un cantante. Di questa cosa ovviamente non me ne frega nulla, però da qualche parte mi fa male, perché in realtà il lavoro che faccio è molto musicale. Poi che questa musicalità venga espressa attraverso la ritmica, attraverso la velocità, l’ispessimento delle consonanti e delle sillabe e di come queste si accumulino all’interno di un percorso che cerca una crescita interna in termini di metrica non necessariamente canonizzata, è centrale nel mio tipo di lavoro.
Per me dire che un cantante è solo quello che canta intonato è assolutamente limitativo: anche un rapper è un cantante. E c’è tantissimo quel tipo di lavoro là. L’altro giorno, a proposito, stavo riascoltando Bene che legge Majakowski, l’hai beccato subito, ma come spesso mi capita di risentire “Per farla finita col giudizio di Dio” di Artaud. Il rapporto della voce e della parola in teatro, nella messa in scena, è importantissimo, e c’ha una musicalità che è del tutto nuova per quanto riguarda la canzone italiana. E forse è anche il momento che cominciamo a pensarlo come elemento musicale “tanto quanto”, anche perché è effettivamente così: pensa al mondo dello spoken word o dello slang poetry. Sono mondi in cui la musicalità è affidata solo alla voce, non ci sono strumenti ad accompagnare. Per cui quel tipo di ricerca lì, e meglio ancora di intenzione, è fondamentale e centrale.
Articolo del
10/11/2020 -
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