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Chi vi viene in mente se dico chitarrista? E se vi dico chitarrista mancino? La risposta in entrambi i casi probabilmente potrebbe essere la solita. James Marshall Hendrix, in arte Jimi. Il chitarrista per eccellenza.
Precursore ed innovatore del virtuosismo sulla sei corde, capace di suonare (per primo) anche con i denti. Si, per primo. Perché negli anni a venire in diversi hanno tentato di emularlo, forse anche superandolo per bravura in questa particolare tecnica: Yngwie Malmsteen, Eddie Van Halen… Ma lui è stato il primo, il primo a pensarla ed il primo ad eseguirla. Con la sua Stratocaster olimpic white al collo ha incantato il mondo e ha di fatto rivoluzionato il modo di concepire la chitarra ed il momento più in vista di un chitarrista come l’assolo: si contorceva, chiudeva gli occhi, si rivolgeva al cielo. Era come se fosse posseduto dalla chitarra e quelli che eseguiva non erano semplici assoli ma dei veri rapporti carnali con la sua chitarra.
Per suonare come Hendrix la musica le devi percepire, ed è stato lui stesso ad ammetterlo dicendo infatti “il blues è facile da suonare ma difficile da sentire dentro”, riferendosi ovviamente al genere come forma di ispirazione per il suo sound. È stato un one-man-show per la maggior parte della sua carriera nonostante al seguito abbia sempre avuto una band di supporto, The Jimi Hendrix Experience prima e i Band of Gypsys, per l’ultimo album della sua carriera.
Proprio con la prima band ci lascia tre dischi che valgono un’intera carriera: Are You Experienced, Axis: Bold as Love (con una delle cover più clamorose della storia della musica, con Hendrix disegnato come la divinità Visnù) e Elecrtic Ladyland. Tre capolavori assoluti che fanno capire, senza bisogno di grandi presentazioni, quanto musicalmente intelligente e virtuoso fosse Hendrix. Are you Experienced?, Fire, Purple Haze, Voodoo Child, Hey Joe, Third Stone From the Sun, Little Wing…tante tracce ognuna con una particolarità ben precisa ma tutte frutto di un talento cristallino.
L’uso di numerosi effetti psichedelici, l’utilizzo massiccio del wha-wha, la distorsione della Strato, a volte anche percussioni con suoni tribali: tutte caratteristiche chiave che fanno distinguere il suono di Hendrix da tutto il resto. Una vita sempre al limite, musicalmente ma purtroppo anche privatamente, piena di quegli eccessi tipici delle rockstar che verosimilmente lo hanno fatto passare a miglior vita alla fatidica età di 27 anni il 18 settembre 1970. Nella sua carriera Hendrix ha sperimentato, innovato e “alzato l’asticella” della musica ma soprattutto dell’utilizzo della chitarra sia nelle registrazioni che, soprattutto, nei live diventati simbolo del rock attraverso ogni epoca.
È per questa sua caratteristica che la carriera di Hendrix è forse riassumibile in tre date simbolo, coincidenti con altrettante esibizioni live: il 18 giugno 1967, il 18 agosto 1969 ed il 30 agosto 1970. Il nome del primo festival forse non è molto famoso, e neanche il luogo. Ma quello che avvenne durante quello show, quello si che è conosciuto ovunque. Hendrix si esibisce al Monterey Pop Festival nel giugno del 1967 su pressione di Paul McCartney agli organizzatori. Il Beatle infatti rimase incantato dall’esibizione di Jimi di qualche giorno prima a Londra e lo volle vedere live a Monterey a tutti i costi.
Esegue una scaletta tutto sommato di esigua durata, appena 40 minuti. Ma nessuno poteva credere di star assistendo alla storia delle performance live. Inizia con Killing Floor, prosegue con Hey Joe, Rock Me Baby, Like a Rolling Stones e molte altre. Durante l’esibizione Hendrix non si risparmia, suonando oltre che coi denti anche con la chitarra dietro la testa. Roba da fantascienza. Il concerto si chiude con Wild Thing, ma è sulla precedente canzone, Purple Haze, che avviene la storia. Qual è il “miglior” modo per legare il proprio nome a quello del proprio idolo? Commettendo un omicidio. O per meglio dire un sacrificio. Se vi può sembrare una macabra affermazione, sappiate che è stata questa la giustificazione di Mark Chapman per l’omicidio di Lennon del 1980. Ma in questo caso non si tratta di un essere umano, ma di una chitarra.
Mentre la band continua a suonare, Hendrix, distende la sua Stratocaster sul palco (stavolta fiesta red con personalizzazioni psichedeliche) e la bagna con del liquido per accendini prima di darle fuoco con dei fiammiferi. Chiunque ha ben impresso in mente quel fermo immagine in cui Hendrix guarda le fiamme che divampano dalla sua chitarra. Una performance shoccante che rimarrà per sempre un cult nella storia della musica rock. Quel giorno a Monterey, Hendrix ha scritto la storia degli eventi live.
Il secondo evento è molto più famoso del primo, già dal nome. Un nome che si incrocia con la musica ma anche con la società. Alle prime ore del mattino del 18 agosto 1969 Hendrix si esibisce al festival di Woodstock, davanti ad una piccolissima platea rispetto all’affluenza dei giorni precedenti in quanto il festival era ormai già ufficialmente concluso e molti avevano già lasciato il luogo dell’evento. Una giacca bianca con fantasie cowboy, una fascia rossa in testa e l’immancabile Stratocaster al collo: una degna conclusione di un festival epocale anche per i suoi risvolti sociali.
Hendrix era sostenuto da una band “rammendata”: mancava infatti il bassista della Experience Noel Redding in favore di Billy Cox. Insieme a loro ci sono Mitch Mitchell alla batteria (già parte della formazione della Experience), Larry Lee alla chitarra ritmica, Juma Sultan e Jerry Velez alle percussioni. Una scaletta di 20 canzoni, costellata dei grandi classici Foxy Lady, Voodoo Child e compagnia oltre a qualche afrodisiaco interlude di chitarra. Ma la performance di Hendrix a Woodstock è riassunta in un'unica canzone, una cover anzi. Tra Stapping Stone e Purple Haze, Jimi, esegue la sua versione dell’inno americano: profanato il simbolo dell’americanità per eccellenza con suoni elettrici e psichedelici.
“Eresia!” grideranno i conservatori. Ma l’intento di Hendrix non era quello di offendere l’America o gli americani, ma dare una colonna sonora al tema principale della protesta della contro-cultura come la guerra in Vietnam. “The Star-Spangled Banner” nella versione elettrica di Hendrix è dunque storia; ha unito milioni di giovani americani e ha fatto capire come l’opinione pubblica, nel 1969, si ponesse di fronte ad un massacro di ragazzi come questo.
Ultimo evento, ma non per questo meno importante, che ha segnato la carriera di Jimi Hendrix è l’esibizione di fine agosto del 1970 al Festival dell’Isola di Wight, nell’omonima isola nel canale della Manica a sud di Southampton. L’evento fu una ricorrenza annuale dal 1968 al 1970 per poi essere sospeso e rinascere nel nuovo millennio, ma quella del 1970 fu probabilmente la più famosa e la più densa di grandissimi artisti nella line up. Naturalmente Hendrix ma anche i The Who, Joni Mitchell, i The Doors, i Jethro Tull, Miles Davis, Joan Baez, Leonard Cohen…una buona fetta di olimpo musicale sulla terra.
E perché è stato un punto fondamentale della carriera di Hendrix quel concerto all’isola di Wight? Perché è stato praticamente l’ultimo concerto della sua vita. In realtà sarà protagonista anche di un live successivo a settembre in Germania, tra l’altro accolto tra i fischi del pubblico per il ritardo, ma quello di agosto fu probabilmente il più entusiasmante live della sua carriera. Doveva essere la “Woodstock europea” anche se in molti hanno voluto evitare il paragone con l’altro festival in quanto l’ultima volta che un evento fu soprannominato come “la Woodstock di...” non finì troppo bene (Altamont Raceway Park, California, dicembre 1969: “la Woodstock dell’Ovest”).
Gli artisti sono tanti. Il talento non manca e dunque sfigurare davanti ad un pubblico di 600mila persone non è poi così difficile. Ma a Jimi questo non importa: questo rapporto viscerale che ha con la sua chitarra lo ha sempre portato ad eseguire virtuosismi senza controllo, portando agli orecchi degli ascoltatori di fatto un sound senza precedenti. Stavolta con la Stratocaster nera, Hendrix, tiene il palco come se fosse la cosa più naturale del mondo, anche se con un piccolo “aiutino”. David Gilmour, chitarrista dei Pink Floyd, si trovava sull’isola per assistere al concerto come spettatore. Andò nel backstage quando seppe che Peter Watts (roadie dei Pink Floyd) aveva avuto qualche problema da risolvere con Charlie Watkins, un ingegnere del suono della WEM.
Da cosa nasce cosa e fu così che Gilmour, tecnico del suono di un’intelligenza musicale senza paragoni, finì con mixare i suoni per Hendrix appena prima di salire sul palco. Cosa può venire fuori dalla chitarra più geniale degli anni 60 e dalla mente tecnica/musicale migliore del mercato? Solo un capolavoro. L’esibizione fantastica di Hendrix in quella notte tra il 30 ed il 31 agosto è indimenticabile: una ventina di canzoni e un’infinita eredità musicale per l’ultimo grande evento del chitarrista riccioluto da Seattle.
Il concerto ebbe un seguito immenso, tanto che ne vennero fuori anche due album postumi proprio di Hendrix come Isle of Wight e Blue Wild Angel oltre anche al film Message to Love.
Articolo del
25/11/2020 -
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