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Sono siciliano, lo sapete. Ho parlato spessissimo della Sicilia nei miei articoli, ne ricordo sicuramente un paio, ma tanti altri richiami saranno sparsi qua e là. Eppure, nonostante ormai il numero dei miei articoli cominci ad avvicinarsi alla tripla cifra, è la prima volta che mi è capitato di intervistare una mia conterranea.
Mi fa sorridere anche il fatto che questo primo incontro intervistatorio con la mia Terra sia avvenuto con un’artista catanese, cosa che, seguendo l’atavico giochino del campanilismo panormo- liotrese (il liotru sarebbe l’elefantino che troneggia sulla omonima fontana collocata nella Piazza del Duomo di Catania), dovrebbe sembrare perlomeno strana. Tanto più che si avvicina il 13 di Dicembre, Santa Lucia, tradizionalmente il giorno in cui si mangiano le arancine, arcinoto e reiterato terreno di scontro di cultural- culinario suprematismo.
C’è un libricino bellissimo, di uno degli scrittori più geniali che la Sicilia abbia partorito, si chiama “La Sicilia spiegata agli eschimesi”, l’autore è Ottavio Cappellani. Cappellani, a proposito della disputa sulle pallette di riso pangrattate e fritte tira fuori una definizione geniale, in linea con le similitudini che pone fra Trinacria e Sol Levante: l’arancina è “riso fritto di design”.
Qualche capitolo più in là Cappellani parla anche della “sicilianitudine”, presentandola come un qualcosa di insondabile, di imperscrutabile ed inspiegabile. Effettivamente è un frullatore di cose, certamente c’è del sotteso fatalismo. Altrettanto certamente c’è una latente tendenza al ritardo, al quarto d’ora accademico: ce la pigliamo comoda, e non lo facciamo per “cazzimma”, come direbbero i fratelli napoletani, per soperchieria, no. Lo facciamo perché siamo comodi per natura, ci piace andare “araciu”, piano piano. Sto andando araciu in questa mia introduzione, l’ho fatto- non per mia volontà- nella stesura dell’articolo, quando il tablet ha deciso che non era il momento di farmi sbobbinare, e s’astutò, che da noi significa tanto spegnersi letteralmente quanto, più poeticamente, morire.
Sono stato abbastanza tranquillo perché sappiamo aspettare, siamo siciliani.
Adesso, finalmente, questa intervista esiste. E credo sia una piccola fortuna, certamente non per meriti miei, che nelle interviste sono sempre pochi, quanto più per la lucidità che molte delle considerazioni che Eleonora Bordonaro, è lei la conterranea in questione, tira fuori. E non poteva essere altrimenti: se avrete ascoltato “Mòviti ferma” capirete di cosa parlo. Se, per un motivo qualsiasi non lo aveste ancora fatto, non vi preoccupate, non ve ne faremo una colpa: siamo siciliani e sappiamo aspettare.
Però, quello sì, recuperatevelo e lasciatevi avvolgere dall’importanza culturale e civile di questo album, dalle sue trame musicali e dalla voce di Eleonora.
Magari, poi, prima di ascoltarlo passate da qua, così siamo tutti contenti.
Questo “Mòviti ferma” si può leggere anche come una metafora della Sicilia, un rimando letterario a quel gattopardismo che spesso ci “contraddistingue”?
Ha tanti significati, ci sono almeno tre livelli di lettura, ed in verità parte da un significato molto più semplice, che è fondamentalmente una analisi della relazione col proprio corpo. Quindi da un elemento concreto, ecco. Nei momenti di crisi spesso ho la sensazione che il corpo quasi mi abbandoni, quasi si annulla. E questo annullarsi è l’allarme, il segnale che qualcosa non sta funzionando. Ed in momenti come quelli mi sento immobile, ferma, legata, quasi radicata a qualcosa. Partendo da questa riflessione, molto empirica, poi ho cominciato a riflettere su molti elementi della mia vita, sia di quella più strettamente biografica che di quella, un po’ più generale, della mia generazione.
“Mòviti ferma” appartiene ad una generazione che se n’è andata da qui pensandosi libera di andare e tornare, pensando di essere lontana dalla necessità dell’emigrazione: per anni non ci è stato detto altro se non che studiando e preparandoci avremmo trovato il lavoro ideale in qualsiasi posto. E siamo partiti pensando proprio di muoverci per crescere e conoscere, ma con la forte possibilità di tornare. E invece quello che succede è che ti muovi, ma alla fine non ti muovi mai, la testa rimane sempre incollata alla Sicilia, ed alla fine tutta una serie di benefici che pensi di avere fuori non si rivelano tali, ed anche dopo anni ti rendi conto che non ti sei mai veramente mossa da quel posto. E poi, passando al terzo livello, che è un livello ancora più teorico ed esteso, che riguarda non solo la mia generazione, ma una specie di caratteristica emotiva di un popolo, sì, si può dire che “Mòviti ferma” è il non cambiare mai facendo finta di cambiare restando sempre legati a dei piccoli vizi o a delle certezze rassicuranti che ci portiamo dietro da sempre.
Partendo da questo assunto fondamentale, è un lavoro biografico di una artista “singola” che diventa, appunto, il racconto di una generazione. Mi piace anche ricordare che la narrazione è portata avanti avvalendosi della collaborazione di un sacco di artisti e persone speciali, tutte siciliane (meglio ancora, tutte della zona di Catania), che hanno deciso di vivere lì e che hanno dimostrato non solo di vivere l’humus culturale della città e dell’isola, ma anche di trasformarlo innovandolo e proiettandolo nel futuro, un esempio su tutti Cesare Basile, che dal punk arriva al blues passando per il cantautorato. O Agostino Tilotta, che dal noise rock scrive per il disco il brano più semplice in termine di suono, ma anche in termini di pensiero, un brano fatto solo di due voci, una cantante e l’altra recitante, e di una chitarra.
Da dove nasce questo lavoro di contaminazione, che porta a fondere il dialetto siciliano col reggae o con sonorità più elettroniche?
Allora, l’intento era quello di fare un disco tradizionale. Ma non di quel tradizionale che non sappiamo neanche cosa sia, o comunque quel tradizionale che poi diventa folclore, non era quello che ci interessava. L’intento, tanto per cominciare, era quello di rinnovare la lingua, proponendo una possibilità di emissione del suono aderente a quella del parlato: siamo stati abituati dai cantori tradizionali ad immaginare ed intendere l’emozione, l’emotività del siciliano, la tensione interpretativa come necessariamente enfatica, drammatica, cupa, probabilmente eccessiva. Questo discorso è legato alla struttura stessa della lingua, che è già di per sé molto cupa, dura in termini di emissione molto gutturale, con un sacco di “u”, ad esempio.
Già questo porta a cantare in un certo modo, che col tempo è diventato quasi una macchietta da riprodurre. Ecco, tutto questo non solo non c’era, ma pensiamo che non debba esserci mai, e che la lingua diventa credibile solamente se è la stessa con cui si parla normalmente, e soprattutto quando rispecchia una identità, che si è costruita, negli anni, attraverso la contaminazione: la mia generazione ha avuto una serie di sollecitazioni che, ad esempio, Rosa Balistreri, per una serie di questioni, anagrafiche, di tempo, di condizioni, non aveva avuto. Ed è naturale mettere una parte degli ascolti che abbiamo fatto nel corso degli anni, che so, da un suono reggae perché il reggae racconta di un dondolìo che serviva a cullare, che è il tema di “Cunurtatu”, oppure il rock di “Ramu Siccu” era necessario a dire perentoriamente, una volta per tutte, che una donna che non ha figli può averlo scelto liberamente ed avere tutte le ragioni per farlo, senza essere accusata di egoismo.
Dietro a quello che sto dicendo c’è sempre un pensiero teatrale del canto, nel senso che ogni tipo di arrangiamento è stato pensato perché facesse apparire il mondo “teatrale” che c’è dietro i testi, che attraverso la scelta di alcuni strumenti invece che di altri o di alcune contaminazioni, viene svelato. Stesso discorso per il Brasile che ricorre in “I djievu di Vurchean”, che è un nostro adattamento di “Negrume da noite” di Paulino do Reco, come ci sono delle sonorità più latine in “Picchiu pacchiu”, che era un brano in cui carnalità ed ironia dovevano venire fuori, e quelli lì erano i suoni più adatti.
Come mai Cesare Basile suona su “Tridici maneri di farisi munnu” e non, per esempio, su “Menza spogghia”, che musicalmente mi sembra decisamente più aderente?
Guarda, “Tridici Maneri” racconta tredici modi di stare in contatto con la natura, di esservi completamente integrati. Cesare era funzionale a quel pezzo lì perché negli strumenti che usa, ed ancora di più nel modo in cui li suona, c’è esattamente quel rapporto lì. E poi il risultato dell’esercizio di questi gesti semplici e concretissimi, coccolare il vento, correre nel grano, abbracciare i cani, ascoltare gli alberi, è una elevazione verso il trascendente, e secondo me Cesare Basile ha esattamente questa capacità: riuscire a partire da elementi concreti per spingersi e spingerci oltre. “Menza spogghia” invece è nata da Agostino Tilotta, che ha un modo tutto diverso di suonare rispetto a Cesare. Al di là degli Uzeda, se senti un concerto di Agostino in solo con la chitarra acustica ti accorgi che ha un modo molto più narrativo di suonare, senti che ti sta raccontando una storia, ne senti tutti i passaggi in modo chiarissimo, anche se non sai quale sia la storia.
Ed in “Menza spogghia” mi serviva esattamente quella capacità lì, la sua chitarra è molto più narrativa rispetto alle parole che uso io, scarne e brevi. Le mie parole lì funzionano come dei flash, sono delle accensioni di luce che rendono la storia intellegibile attraverso alcune parole chiave. Ma la vera narrazione la fa Agostino con la chitarra.
Rimanendo su “Menza spogghia”, è un vero pezzo da cantastorie- non che gli altri non lo siano, eh, ma forse è quello che mi ha colpito di più- al cui interno c’è un ritratto praticamente perfetto della figura della donna in certa cultura siciliana, legata alla dimensione del dolore e della sopportazione. Come è venuto fuori il pezzo? C’è stato un elemento scatenante?
E’ nato da una idea di Gaspare Balsamo, che su questo tema aveva scritto un testo in prosa. Poi mi ha proposto un adattamento in siciliano, che conteneva sia l’introduzione, che è quella che recita lui, sia le parole. Quindi è stata una idea di Gaspare, che pensando al mio repertorio, mi ha detto che sarebbe stata una storia perfetta per me. Anche perché quello che lui aveva scritto, come ho detto prima, era in prosa, ed era anche in italiano. Pensando al mio lavoro, l’ha scritta in versi ed in siciliano. Dopodichè Agostino, che aveva ricevuto una piccola sollecitazione sulla melodia, ha costruito tutta la sua parte di chitarra.
Agostino e Gaspare hanno registrato le loro parti nello stesso pomeriggio, mentre io la mia voce l’ho costruita su di loro. E’ un racconto a tre voci, che si intersecano, si sovrappongono, si rincorrono, giocano assieme, si accompagnano. Poi non lo so se è una immagine della donna siciliana rassegnata o solo della donna siciliana, sicuramente è una immagine di solidarietà femminile. E’ l’immagine della capacità, tutta femminile, di trasformare in rito dei gesti necessari. E’ vero che in parte c’è della sofferenza, Menza Spogghia non avrebbe tanta voglia di fare questa strada di prima mattina. Ma lo fa, e lo fa insieme alle altre. La voce di Gaspare è sempre quella che rivela il chiacchiericcio che c’è attorno, quella che rivela solidarietà, leggerezza, la capacità delle donne di parlare di altro mentre le cose succedono.
Dal mio punto di vista il testo racconta il modo di essere solidali delle donne, e di rendere tutto speciale: c’è una canzone di Mercedes Sosa che si chiama “Las manos de mi madre” che racconta dei gesti della madre. Ed ogni cosa che fa, ogni gesto alla fine si trasforma, diventa magico. E questa processione di donne, che da lontano sembra proprio una processione religiosa, da Venerdì Santo, triste o comunque commemorativa e consolatoria, a poco a poco, avvicinandosi, si trasforma in un rito sociale, di collaborazione di umani nella stessa condizione. Quindi il messaggio e positivo, proprio perché c’è l’intento di mettere insieme le persone. Ed infatti io cercavo anche un coro, avevo pensato al coro della Chiesa di Santa Barbara, ricordo quando ero bambina, che c’erano delle signore che cantavano.
Avevo anche fatto delle prove, ma c’era sempre qualcosa che non mi convinceva, anche con altri cori. Poi, alla fine, le ho trovate: sono le amiche di mia mamma, che si ritrovano a giocare a carte. Quindi sono andata una domenica pomeriggio, loro erano lì che giocavano, io ho portato i pezzi, li abbiamo provati nel soggiorno e li abbiamo registrati nella cucina. Quello è stato il gesto concreto, la trasposizione concreta della teoria che c’era dietro: delle donne che fanno delle cose insieme, riuscendo a rendere tutto leggero.
A proposito di cantastorie… sei di Paternò, il paese di due colonne come Ciccio Busacca e Vito Santangelo, ed hai collaborato con Cesare Basile, un altro di quegli artisti fondamentali. Cosa significa essere cantastorie, soprattutto in un periodo in cui paradossalmente, fra soglia d’attenzione non proprio alta e critiche dietro l’angolo verso chi si espone, è ancora più difficile farlo?
Per come io vedo l’arte l’essere cantastorie è una caratteristica fondamentale, io non potrei essere artista senza essere cantastorie. La dimensione del puro entertainment, per come sono fatta io, non ha ragione di essere, io ho bisogno che dietro a quello ci sia il contenuto. All’inizio avevo cominciato cantando rock, Tracy Chapman, Skunk Anansie, Gloria Gaynor, poi sono passata al jazz, perché volevo raffinare la mia voce. Mi sono divertita, andava bene, ma non ero convinta: mi mancava il contenuto, mi mancava quella ragione di credere fino in fondo che il mio canto avesse valore.
E quello che ho capito dopo è che per me il canto ha valore se c’è una storia da raccontare dietro, e questo passaggio è stato fondamentale quando ho cominciato a cantare in siciliano. Da lì ho cominciato non solo a cantare nella mia lingua naturale, e quindi ad identificarmi con il suono, ma anche a scegliere le storie che mi rappresentavano, non cantare delle cose che potevano essere piacevoli o divertenti, ma dietro a cui non c’era una storia. Quando ho cominciato a cantare in siciliano ovviamente è stato naturale scegliere che cosa stavo dicendo. Altrimenti non sei credibile. Anche il pop alla fine arriva se dietro c’è una storia, non stiamo parlando solo dei cantastorie con la chitarra ed il cartellone, chè quello nessuno di noi lo fa più, come dici tu la soglia d’attenzione è diversa- non è detto che non lo faremo mai più, qualche esperimento continueremo a farlo, ma non c’è quel mondo strutturato per cui la gente sta sulle macchine in piazza ad ascoltare i cantastorie- però un artista arriva solamente se ha una storia da proporre.
Che è una storia personale ma condivisa, così pura da essere personale perché vissuta da un solo individuo, ma contemporaneamente così scarna da risultare universale, da diventare di chi l’ascolta o almeno di chi si identifica in una parte.
La tradizione della musica popolare siciliana, così come di quelle calabrese e pugliese, ha affrontato la ricerca musicale in un secondo momento, inizialmente l’accompagnamento della chitarra era utilizzato solo come sottofondo, e penso a Rosa Balistreri, Orazio Strano o il già citato Ciccio Busacca. L’aspetto principale di questa primissima forma musicale era quello della voce. Tu hai compiuto il passo successivo, lavorare sulla musica. Ma la voce rimane. Che arma è per te la tua voce?
C’è una canzone, in “Cuttuni e lamè”, che era il mio primo disco, che si chiama “Vuci”, e dice “vulissi aviri cent’anni supra ‘i spaddi pi idda mustrari senza verbu zoccu è trubbulu di spiegari, “vorrei avere cent’anni perché la voce possa esprimere con sobrietà quello che sento”. O meglio, togliere tutte le cose inutili. E per questo ci vogliono l’età e la saggezza. Ma soprattutto la voce serve a sublimare delle emozioni: tutto quello che viene cantato viene sublimato e, come dire, benedetto e portato su una sfera superiore. E poi una volta che qualcosa viene cantata, ne resta solo il lato buono, della rabbia resta l’energia.
Dell’abbandono risulta la fierezza, lo stare saldi dopo essere stati abbandonati. E’ questo che intendo per “sublimazione”: le cose, quando vengono cantate si sublimano, perché tramite la voce mantengono solamente la parte buona che c’era nel sentimento che le ha ispirate. E questa sensazione mi aiuta anche a capire le cose che penso, delle cose che se non vengono cantate magari non le capisco fino in fondo, se le canto capisco il mio sentimento verso di loro. E’ una sensazione quasi catartica.
Anche in “Mòviti ferma”, dopo “Cuttuni e lamé”, hai utilizzato il gallo italico di San Fratello, che è quasi una fusione fra i dialetti di nord e sud. Quale è, per te, l’importanza- non esclusivamente poetica- di questo dialetto?
Intanto è una meraviglia che si è mantenuta nei secoli, protetta da nient’altro che da sé stessa: è una lingua che si è tradotta solo oralmente, non è mai stata scritta, non è mai diventata lingua ufficiale, non si è mai istituzionalizzata e che eppure è stata motivo di orgoglio soprattutto per San Fratello, che la mantiene così viva. Poi, a parte il gusto di cantarla, ovviamente c’è una importanza storica: è una lingua che si è creata per commistione di tante lingue diverse, e che ci racconta di una convivenza tranquilla e felice, di gente scesa dal nord Italia che, giunta al Sud, era stata accolta pacificamente, si era integrata normalmente e che, anzi, aveva creato una ulteriore cosa, lontana anni luce sia dal colonizzare che dall’essere colonizzati, ma era un creare insieme in una convivenza ed una commistione pacifica.
I tuoi lavori hanno dentro una bella carica di gioiosa rabbia- come scrivi nel book, che probabilmente è la rabbia di un popolo intero, e mi ricordano, proprio per questo discorso, i primi tre/ quattro album di Pino Daniele, anche loro animati dal sacro fuoco dell’incazzatura civile. Intanto parliamo un po’ di questo ennesimo ossimoro, che mi sembra molto interessante, e poi spaziamo sul tema della rabbia in musica e come canto di rivalsa di un popolo…
Sì, “Sprajammu di la luna”, il primo pezzo! Ed è rivolto soprattutto al mondo femminile, a questo patriarcato che ancora, purtroppo, resiste. E spesso vedo attorno a me uomini davvero modesti, che arrivano a posizioni di potere a cui le donne non potrebbero arrivare mai, nemmeno essendo brave per cento volte. E questa chiusura io la vedo molto chiaramente. La rabbia era soprattutto per quello, per un mondo patriarcale che non ti permette di arrivare a delle posizioni di potere, e quindi di soddisfazione, per le quali avresti una preparazione. Detto questo, poi ovviamente è fatto in modo gioioso, sentendo le parole è fatto in modo naïf, eccessivo, anche perché non siamo più al tempo delle femministe arrabbiate: da lì siamo andate oltre, bisogna andare ancora oltre.
Vogliamo il pane ma anche le rose, le cose necessarie ma anche le frivolezze. Ed in modo molto ironico e sopra le righe ti chiediamo delle cose che sono necessarie, logiche, razionali, su cui non si può discutere, normali.
Poi la musica, quella che facciamo noi, racconta dei mondi, li ispira anche. Così come da altri mondi è ispirata ed altri ancora li trasmette. L’immagine che si può dare è di persone complesse ma consapevoli, leggere, ironiche, che hanno la necessità di condividere, cioè di vivere insieme, di fare delle cose insieme, ed il disco è pieno di cose fatte insieme a tante altre persone: sarebbe stato molto più facile farcelo a casa, con Puccio (Castrogiovanni, ndr) e tutti gli strumenti che suona. Ma non era quello il senso, minimamente.
In un mondo di chiusura, in particolare noi che viviamo a Catania, che è una città che per sua natura vive di questa specie di entusiasmo creativo e di slanci di follia artistica, avevamo necessità di sperimentare concretamente per mostrare un mondo in cui ci si possa divertire, riflettere e pensare, e tutto facendolo insieme. Ed è un mondo in cui dietro ci sono dei temi sostanziali, che se io fossi stata una persona diversa non avrei potuto affrontare o cantare, c’è un ordine di valori all’interno del disco. Non voglio essere troppo seriosa, ma, ad esempio, una canzone come “Tridici maneri” non poteva essere cantata se non con un approccio di empatia verso la natura, ecologista diremmo adesso, mentre “Menza spogghia” è una canzone che attenziona, come detto, alcune caratteristiche sociologiche e psicologiche del mondo della donna.
Le canzoni, anche se non sono canzoni pop che si cantano negli stadi, ispirano delle immagini, “Cunurtatu” è un auspicio di pace, carezze, coccole e serenità, raccontato nella fattispecie in un meccanismo di coppia, ma che diventa un qualcosa che si augura anche ad una collettività.
Chi si occupa delle radici musicali della propria terra è figlio (o nipote, ecco), dell’operato di Lomax, Carpitella e De Martino. Quale è l’attualità di questo lavoro di ricerca, non solo come operazione culturale, ma anche e soprattutto come gesto civile, quasi politico?
Loro ci hanno raccontato molto di noi. Se non ci fosse stato Lomax io non avrei mai saputo che vicino casa mia si cantavano quelle cose, in quel modo, che la gente comunicava così, che le relazioni serie o ironiche venivano veicolate anche tramite quel mezzo. Ed in parte io avrei continuato a fare delle cose che faccio atavicamente, ma rischiando di non sapere da dove venivano.
Per cui il lavoro di recupero è assolutamente fondamentale. Poi io sono abbastanza scettica sulla riproposizione del lavoro di recupero, nel senso che riprodurre fedelmente, in modo filologico, quello che era stato registrato negli anni cinquanta, a parte che è quasi impossibile, ma non so neanche se è una operazione che valga la pena fare: lì c’erano delle istanze “biologiche”, delle necessità di passare la giornata, che producevano quel modo di cantare. L’Ave Maria per come la cantano quelli di Galati Mamertino serviva perché, cantandola, ci si riposava dal lavoro dei campi. Il modo di cantare di Rosa Balistreri nasceva dalla sua esperienza biografica, che non c’entra niente con la mia, e se io mi mettessi a cercare di riprodurla sarebbe solamente una macchietta, ma si capirebbe che dietro non c’è la base di dramma di Rosa, perché la mia vita è stata diversa.
Così come se, fra trent’anni, mia nipote dovesse cantare le cose che canto io adesso, facendole in questo modo, risulterebbe una forzatura, perché lei avrà sicuramente assimilato dei suoni che adesso non possiamo neanche immaginare e che si porterà dietro e che saranno i suoi suoi naturali. Il mio telefono è tutto pieno di registrazioni degli anni ’50, se parte la musica per sbaglio sono sempre tipo registrazioni di vecchi senza denti che cantano: oltre ad essere piacevoli so che posso prendere ispirazione, la melodia di “Sprajammu di la luna”, ad esempio, è mutuata da una melodia tradizionale. Ma non è quella cosa, è diventata una canzone moderna che chi ha ascoltato le registrazioni degli anni ’50 può, più o meno, ritrovare. Quindi io sono sempre per la ricerca e per il lavoro di ricerca che ancora si deve fare, nel senso di non mollarlo: c’è stato un periodo storico in cui, anche per questioni politiche, questo lavoro era molto sostenuto. Poi sono arrivati gli anni ’80 e ciao.
Siamo diventati tutti griffati, il mondo è cambiato, le priorità della politica sono diventate altre e quel mondo rurale che, effettivamente, solamente in quegli anni si poteva salvare, perché era l’ultimo periodo in cui c’erano quelle esperienze, adesso invece non c’è più. Eppure ancora ci sono degli anziani, delle persone che conoscono quelle cose. Quindi si tratta di andare a prendere tutti i materiali possibili, che adesso possono essere anche di gente degli anni sessanta o settanta, per trasmetterli al futuro, per costruirci sopra nuovo humus, nuova creatività.
Articolo del
05/12/2020 -
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