Noi mediterranei ci distinguiamo per il modo in cui ci rapportiamo al mare ma finché navighiamo ci dimentichiamo delle differenze che troviamo dentro ai porti. E se l’Atlantico o il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è quello della vicinanza. La storia di questo mare ce la racconta Stefano Saletti che con la Banda Ikona ha pubblicato in questi giorni “Mediterraneo ostinato”, frutto di decenni di ricerca nella quale unisce la letteratura con le memorie storiche e musicali, utilizzando la lingua Sabir, un idioma che marinai, pirati e commercianti parlavano da Genova a Tangeri.
Siamo davvero distanti dalla musica in stile supermarket che domina le stazioni radiofoniche ma anche dai cliché tipici del Mediterraneo. Ne abbiamo parlato con Stefano Saletti in questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine.
_ È il quarto disco della Banda Ikona che è stato anche presentato nella trasmissione “I concerti del Quirinale” di Radio tre Rai. È un progetto che parte da lontano e che vuole rappresentare il Mediterraneo da Gibilterra al Bosforo rielaborando testi di poeti armeni o turchi con i suoni degli strumenti etnici. Come si fa a fare una fotografia del Mediterraneo visto che non esiste una sola cultura ma ce ne sono tante?
“E’ proprio questo il punto: a noi piace un Mediterraneo che sappia dialogare e che quindi sia unito sia pure con tutte le differenze. Solo qualche anno fa c’era il rischio di perdere l’identità di fronte all’Europa che ci metteva tra i paesi a rischio, gli spendaccioni. Noi facciamo rivivere la cultura millenaria perché senza Italia, Grecia o Spagna e, se mi consenti anche il Maghreb che pure non fa parte dell’Ue, ci sarebbe l’Europa del Nord, tutta un’altra entità. Musicalmente le melodie si rincorrono e ogni strumento è figlio di un altro che magari proveniva dalla Turchia ed è arrivato a Napoli e poi a Marsiglia”.
_ Però il Mediterraneo è devastato dalle guerre e il mare è diventato il più grande cimitero. L’Iliade è il primo testo giunto a noi per parlarci di un conflitto che ci trasciniamo sino a oggi. Era quello il primo scontro tra il mondo greco che rappresentava la libertà e il mondo asiatico caratterizzato dalle barbarie. Che il conflitto greco-persiano sia la genesi del male odierno?
“E’ la contrapposizione che ci portiamo dietro da sempre però mi piace pensare che la possiamo superare col dialogo, la musica e la cultura. Ci sono le differenze ma le possiamo superare con la conoscenza, non certo con il sovranismo. Se tu conosci l’altro puoi capirlo, condividere il suo percorso. Mi parli dell’Iliade ma anche allora viene raccontato uno scontro per la mancanza del dialogo; sarebbe bastato poco per risolvere quella guerra. Anche il trucco del cavallo di Troia, se vogliamo, è dovuto alla mancanza del confronto: c’era chi avvertiva che si trattasse di un inganno ma è mancato il dialogo”
_ Possiamo dire che la Turchia anche musicalmente è il ponte che salda Asia e Europa?
“Assolutamente sì. Il suono degli strumenti turchi è spesso nelle nostre musiche con riferimenti alla tradizione. Tra l’altro collabora con noi Yasemin Sannino, cantante italo turca, voce assieme a Barbara Eramo in Anima de moundo e ancora nel brano Nare Nare, di tradizione armena. Ed è significativo, dati i rapporti difficili tra Armenia e Turchia, che a cantarlo sia una cantante italo turca”.
_ I tuoi progetti sono realizzati con formazioni flessibili, si va dal duo con la voce di Barbara Eramo a una banda composita. C’è però un grande lavoro sulle voci.
“Il concetto è che siamo vicini e collegati con musicisti che sono tra i più prestigiosi della world music. La voce è importantissima, in alcune etnie il canto ha ancora la funzione di liberare la persona dai mali, superare la tristezza. Barbara Eramo ha una caratteristica che hanno poche cantanti al mondo: sa interpretare mantenendo una cifra stilistica pur cantando in tante lingue del mondo. Ma ho il privilegio di collaborare con tante voci importanti come Lucilla Galeazzi e Gabriella Aiello”
_ Ecco, veniamo alla lingua, il Sabir, una lingua estinta. Si sa che i dialetti assurgono o decadono a dignità di lingua solo per motivi politici ma voi siete andati su una lingua non codificata”.
“All’inizio del 2000, finita l’esperienza col precedente gruppo Novalia col quale avevamo usato una mescolanza di linguaggi diversi, mi sono letteralmente imbattuto in un dizionario del Sabir. Quando i marinai arrivavano in un porto se erano veneziani come potevano comunicare coi tunisini? Usavano parole delle diverse lingue. Quando i francesi nel 1830 conquistarono Algeri codificarono questa lingua definendola franca perché in realtà il Magreb si rifiutava di sottomettersi all’italiano, allo spagnolo o al francese. È un dizionario prezioso che mi permette di raccontare storie nuove partendo da uno spunto poetico. Nel disco precedente abbiamo realizzato un Padre nostro in Sabir, quello che cantavano i pescatori del Mediterraneo”.
_ È la lingua del mare che, tra l’altro, essendo ricca di parole tronche è più musicale e ti puoi mandare in eco da solo?
“Sì, ha una forza simile a quella dell’inglese che si è imposto nel rock anche grazie alle tronche. L’italiano ha una musicalità che si esprime nel bel canto, nella lirica perché permette di giocare con le vocali allungandole, il Sabir ti consente quello ma è efficace anche ritmicamente. Quando suoniamo in Spagna o in Francia ci dicono che non capiscono quello che cantiamo ma in compenso sentono una vocalità che appartiene loro”.
_ Questa storia del dizionario mi ricorda un po’ la genesi di Creuza de ma perché inizialmente Fabrizio De André aveva pensato a scrivere un vocabolario tutto suo.
“Creuza de ma è il mio punto di riferimento: io sono il bouzouki o l’oud perché uscì quel disco; sono convinto che De André e Pagani almeno musicalmente abbiamo fatto tornare l’Italia al centro del Mediterraneo. Sulla lingua posso dire che si sono avvicinati al Sabir partendo da un’idea di lingua del Mediterraneo”.
_ Però vorrei che facessi una riflessione sulla World music che è diventata famosa negli anni Ottanta ma ti chiedo: il jazz non è world music? Musicisti come Coltrane o addirittura Ravel non sono anche loro autori di World music?
“Certo è un’etichetta di cose che già esistevano. Il nome nasce grazie al Real world di Peter Gabriel e alla necessità di collocare nei negozi di dischi tutte le musiche di tradizione che andavano dal canto orale agli esprimenti di Brian Eno e David Byrne. Anche nella classica ci sta tutto, vai dalle musiche barocche a John Cage anche e poi le differenzi. Il concetto è che sono musiche del mondo che attingono spesso alla tradizione orale e cha hanno un passato antecedente alla nostra strutturazione che c’è stata da Bach in poi. Citi Ravel e Coltrane ma ci puoi mettere anche Miles Davis nel momento in cui non sono così tonali come nella musica dell’Ottocento ma recuperano la modalità” …
_ Scusa spiegaci questo passaggio tecnico.
“Modalità vuol dire lavorare sulle scale musicali e quindi muoversi su un bordone fisso e su quella tonalità costruisci di continuo una melodia che si ripete. Pensa al minimalismo americano quanto è figlio della musica Indiana”.
_ Poi all’inizio del secolo scorso prevalse la curiosità per altri suoni e altre musiche.
“Un po’ in tutta la cultura, ad esempio nella pittura lo spartiacque fu la Mostra universale dell’arte africana a Parigi che ispirò Picasso. Stessa cosa avvenne in musica, pensa all’ostinato continuo su cui si basa il Bolero di Ravel o i pezzi di Coltrane, arricchiti armonicamente mantenendo il bordone che è quello che poi caratterizza le musiche del mondo dall’India al Medio Oriente”.
_ Il nostro Sud poi merita un discorso a parte?
“Certo lì trovi lo stordimento, la trance, attraverso il ritmo con la tonalità che è sempre quella di sei ottavi della tarantella che poi ha ispirato tanta musica classica da Tchaikovsky a Mozart. C’è sempre stata la contaminazione tra popolare e classico”.
_ A un certo punto però si crearono la serie A per la musica colta e la B per l’altra.
“Fortunatamente ora si sta recuperando anche perché l’imborghesimento degli inizi del Novecento ha allontano le classi popolari dalla classica. Accadeva che gli spettatori litigassero in teatro per un’opera di Stravinsky come poi sarebbe accaduto per i Beatles o i Rolling stones. La musica classica non era quella che è diventata dopo, tutti fermi e ingessati”.
_ Nei tuoi progetti citi scrittori come Calvino e Pasolini. Nell’ultimo disco poi recuperi S’i fosse foco di Cecco Angiolieri, il primo “young angry man” della letteratura europea.
“Già in un altro progetto con Nando Citarella avevamo recuperato un brano di Cecco, La mia malinconia, frutto di uno spettacolo teatrale. Quando ho composto la musica ho pensato che la voce forte, ruvida e carnosa di Lucilla Galeazzi fosse perfetta”.
_ Posso chiederti come componi la musica?
“Dipende, alcuni brani nascono al piano o alla chitarra classica ma una cosa che mi capita spesso è di comporre un riff e registrarlo. Lo metto in un cassetto e magari dopo tre anni lo tiro fuori”.
_ Era un metodo consigliato a tutti gli scrittori di una volta ma volevo chiederti che cosa ha significato suonare al Quirinale?
“Un’emozione grande, avverti il peso della storia e pensare di portare il Sabir in quel palazzo, dando un senso di appartenenza e di unione al Mediterraneo, credo che sia stato importante”.
_ È stato importante anche per raggiungere un pubblico molto più ampio?
“Sì, grazie a Rai 3 che ci ha chiamati. Devo dire che la musica popolare sta pagando un prezzo altissimo perché i media si occupano poco di musica eppure è il nostro patrimonio. Ascolto di tutto e mi piace tutto ma vorrei che accanto al dibattito sull’ipotesi che i Maneskin siano i nuovi Led Zeppelin ci si potesse chiedere se Lucilla Galeazzi non sia l’Amalia Rodriguez italiana”.
_ Pino Daniele ha scritto: “Chi tene ‘o mare non tene niente” … Come la mettiamo?
È vero è il Potere che trasforma le cose, non la musica, e il Mediterraneo non è messo bene ma io voglio ricordare proprio questo: abbiamo il mare e non è poco. Ripartiamo da lì”.
Articolo del
02/04/2021 -
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