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Furono una delle realtà più importanti della neo-psichedelia italiana, i romani Magic Potion. All’epoca – fine anni 80 - realizzarono due Lp di ottima fattura che oggi vengono riproposti nell’antologia CAST A SPELL insieme a singoli, rarità e un brano nuovo di zecca (la title-track, cover degli Open Mind) che li ha portati a riunirsi per la prima volta dopo 30 anni, come ci ha raccontato il cantante/chitarrista Marco Coluzzi in questa intervista già apparsa, in parte, su Classic Rock Italia ma ora proposta nella sua interezza.
I Magic Potion nacquero da una “costola” dei Technicolour Dream di Fabio Porretti (e di Marco Conte, che poi formò i Pale Dawn). Come andò? Io ero compagno di liceo di Alberto Popolla, il bassista dei Magic Potion. Abbiamo cominciato a suonare nei primi gruppi a livello liceale. Ed eravamo consapevoli di questa scena neo-psichedelica, quindi conoscevamo i Technicolour Dream. La nostra scuola era il Gaio Lucilio, il classico di San Lorenzo. Abbiamo iniziato io e Alberto, sapendo dell’esistenza di questa scena. I Technicolour Dream in realtà forse non li avevamo mai ascoltati, però il nome sicuramente non ci era nuovo. Quando abbiamo formato il nostro gruppetto liceale, i Castigo Ridendo Mores – che era un’iscrizione di Gaio Lucilio presente nei locali della scuola – abbiamo iniziato suonando musica che si rifaceva ai modelli americani dell’epoca. Era la nuova scena psichedelica, principalmente i Dream Syndicate e i Rain Parade. L’uscita di THE DAYS OF WINE AND ROSES, io mi ricordo che eravamo ragazzini, comprammo questo disco e lì scatto, soprattutto in me, la molla. Perché io ero un amante del progressive a 16-17 anni (Genesis, Yes), quindi ero abituato ad ascoltare musica complessa, soprattutto difficile da riprodurre. E mi ricordo che ascoltai i pezzi dei Dream Syndicate e mi dissi: “tutto sommato questa roba è facile, proviamo a fare pezzi di questo tipo”. Poi tra l’altro all’epoca non avevo percepito che dietro al primo dei Dream Syndicate ci stanno i Velvet Underground, ci sta Lou Reed… che è un’influenza predominante. Però all’inizio mi colpì questa musica semplice però molto evocativa, molto lisergica, questo concetto della psichedelia di cui conoscevo l’esistenza ma che non avevo mai approfondito. E quindi formammo questo gruppo e mettemmo su una serie di pezzi incisi su demo tape. I demo tape furono mandati in giro…
Parliamo di che anno? 1984-1985. Mandammo in giro queste cassette. Anche al Mucchio Selvaggio. Arrivarono a Federico Guglielmi. E un giorno, mi ricordo, ricevetti la telefonata a casa di Federico che disse che aveva ascoltato il nostro nastro – che già era una cosa inaspettata per noi – e che c’era stato l’interessamento di tal Fabio Porretti dei Technicolour Dream, che aveva ascoltato questo nastro. Perché la cosa andò così: Fabio, a casa di Federico, chiese di ascoltare dei demo di altri artisti perché aveva intenzione di formare un nuovo gruppo. Perché i Technicolour Dream di fatto si erano sciolti.
I Magic Potion li ha quindi creati Federico Guglielmi. Li ha creati Federico. Lui è il deus ex machina, assolutamente. Quindi io dopo presi contatto con Fabio, e da lì nacque il gruppo.
Voi due quindi. E per quanto riguarda gli altri membri del gruppo? In realtà noi prendemmo proprio i Castigo Ridendo Mores che ancora esistevano. Aggiungemmo Fabio al nostro gruppo, quindi inizialmente i Magic Potion nacquero come quintetto. Però poi perdemmo il batterista e ci fu il problema di cercare un altro. Ma dopo pochi annunci, su Porta Portese (giornali di questo tipo) reclutammo Massimo Paleo. Andammo subito in sintonia, perché tecnicamente era un buon batterista. A livello di tecnica, anzi, era quello più pronto rispetto agli altri componenti del gruppo. Quindi partimmo come quintetto perché c’era anche un altro chitarrista che suonava con i Castigo Ridendo Mores. Senonché poi questo chitarrista lasciò il gruppo per motivi suoi personali, quindi ci ritrovammo in quattro. Tanto è vero che io ricordo, una delle prime cose che facemmo fu un concerto dal vivo a Rai3, “Un certo discorso”, un programma in diretta su RadioTre dove c’era uno spazio dedicato ai live dei gruppi italiani. Federico ci trovò questa occasione, e noi suonammo in 5, avevamo ancora l’altro chitarrista che poi ci lasciò.
Parlavi di influenze tue a livello “Paisley Underground”. Il nome dei Magic Potion deriva però dal titolo di un pezzo degli Open Mind, gruppo storico della psichedelia UK anni 60. Quello è tutto merito di Fabio Porretti. Fabio è un grosso conoscitore della psichedelia inglese. Considera che è un collezionista di vinili dell’epoca. Hanno una conoscenza, lui e Marco Conti dei Technicolour Dream, enorme della scena inglese. Quindi fu lui che ci aprì le porte alla conoscenza di tutta questa scena. Perché, sai, la psichedelia inglese parte dai Beatles ma di questi gruppi più misconosciuti era difficile averne conoscenza. Lui ci ha aperto un mondo nuovo che noi non conoscevamo che ci è piaciuto subito tantissimo. E a quel punto ha influenzato anche il nostro modo di comporre. Soprattutto il mio. Perché i pezzi erano quasi interamente scritti da me e Fabio. Principalmente, numericamente, da Fabio, ma poi il secondo sono io.
Anche in coppia? No, in coppia solamente il lato B del [primo] 45 giri I Live With The Monks che stranamente ha il testo mio e la musica di Fabio. Ma di base i pezzi li scrivevamo da soli. Però ecco, anch’io ho cambiato il mio orientamento, ero solito comporre pezzi influenzati dalla scena americana, ma da quel momento ci fu un cambio abbastanza netto. E quindi a quel punto abbiamo deciso di caratterizzarci per questa influenza inglese. Era una cosa che ci ha distinto da altri gruppi dell’epoca che erano tutti orientati verso la scena americana.
Nel 1987 escono in contemporanea i due 45 giri d’esordio dei Pale Dawn e dei Magic Potion. Sono usciti lo stesso giorno. Tra l’altro il nostro 45 giri è uscito con un anno di ritardo. Lo incidemmo, era praticamente pronto, suonammo a “Un certo discorso” alla RAI e io due giorni dopo partii per il servizio militare. Stiamo parlando dell’86. Quindi il disco era già pronto nell’estate 86. E invece uscì esattamente un anno dopo, in coincidenza con il mio congedo dal servizio militare. Nell’estate del 1987. Non ricordo se anche quello dei Pale Dawn ebbe la stessa sorte. Probabilmente anche quello dei Pale Dawn fu registrato prima. Quindi nel 1987 inizia la nostra storia discografica. E col termine del mio servizio militare comincia un’attività concertistica più intensa. E soprattutto è partita l’idea di passare all’incisione di un vero e proprio Lp.
Avevate l’impressione di far parte di una scena fiorente (a livello underground) in quel periodo, che potesse anche fare un salto di livello? Per dire: avete mai fatto concerti all’estero? No mai. Abbiamo fatto parecchi concerti in Italia, ma all’estero non siamo mai riusciti ad andare. Ci furono delle voci, mi ricordo che all’epoca si parlava di fantomatiche tournèe in Russia, ma poi non si sono mai concretizzate. Qualcuno dei gruppi di quella scena ha suonato all’estero, ma noi non siamo mai andati.
Perché il tipo di discorso che facevate era molto più adatto a un pubblico internazionale. Sì ma guarda, personalmente io l’ho sempre vissuta come una cosa molto underground. Ora non so se qualcuno dei nostri colleghi dell’epoca avesse le idee chiare sul fatto di sfondare all’estero e di diventare professionisti e nomi importanti. Io personalmente ero un po’ scettico da questo punto di vista. Poi il nostro atteggiamento come band – eravamo abbastanza consapevoli del fatto che sarebbe stato quasi impossibile diventare una vera professione e diventare musicisti professionisti – ci condizionava anche l’atteggiamento che noi avevamo verso quella scena. Al di là dei gruppi che potevano piacerci o non piacerci, era piuttosto snobistico perché pensavamo che tutto sommato erano un po’ degli illusi. Io mi ricordo, noi suonammo al Piper – una serata bellissima di gruppi neopsichedelici – il Piper tra l’altro pieno di gente, io mi ricordo che suonammo con i Boohoos. E i Boohoos avevano questo atteggiamento proprio da rockstar, anche come presenza scenica… Loro erano molto simili ai New York Dolls. Per cui vedevamo questi gruppi che avevano quest’atteggiamento molto da rockstar che a noi un po’ suscitava un po’ di sorriso. Eravamo snob, molto snob: questo noi l’abbiamo sempre sostenuto. Però poi alla fine c’erano gruppi che ci piacevano molto come gli Alison Run o i Birdmen of Alkatraz. Gruppi di cui almeno io personalmente ho sempre riconosciuto il valore. Altre cose un po’ meno: ho sentito altre cose che sinceramente non mi sembravano all’altezza. Però c’erano gruppi sicuramente di livello in quella scena.
Il vostro primo 45 giri, "I Live With The Monks", nel giro underground ebbe un buon successo. Sì perché da quel che mi ricordo le copie stampate furono tutte vendute. Un migliaio di copie, immagino. Al di là del fatto che Federico ci è sempre andato “sotto”, comunque, una cosa che ci distingueva da tutti gli altri gruppi è che noi non ci abbiamo mai messo una lira. Eravamo dei privilegiati. Cioè: Federico era un produttore vero, e anche un produttore esecutivo che metteva i soldi. Nel caso di noi e di altri gruppi che amava, Federico ci ha sempre finanziato in toto il progetto. E anche questo ci rendeva un po’ snob. Perché all’epoca incidere un disco aveva un significato. Il fatto di poter dire: “abbiamo fatto un disco con produttore che ci ha pagato la sala d’incisione”, per noi era motivo di vanto.
Quale sala usavate? Ne abbiamo cambiate… Il primo fu inciso al Gulliver Master, quello che poi era stato usato dai Technicolour Dream. Il primo disco FOUR WIZARDS IN YOUR TEA si accompagnò poi a parecchi concerti. E’ stato sicuramente il periodo più bello, e anche il più creativo, perché poi ci siamo messi a scrivere pezzi per l’album successivo. Che, mi sembra, fu preventivato da subito. Federico fu talmente contento della riuscita del primo che mise subito in cantiere il seguito. Quelli sono stati sicuramente gli anni più importanti e più fertili. Mi sembra che il secondo, MISPLACE IN YOUR PERFECT WORLD, uscì materialmente nel 1990. Fu inciso a cavallo tra 89 e 90. Quindi fu un periodo molto serrato. Le uscite furono piuttosto ravvicinate. In tutto questo, considera che noi, a parte il 45 giri che ha dato il via alle uscite, abbiamo anche partecipato ad altri progetti. Varie compilation. EIGHTIES COLORS VOL.2. E poi abbiamo partecipato a una compilation “Rock contro il proibizionismo”. E poi partecipammo a una compilation tributo agli Who promossa da Antonio Bacciocchi. Lui aveva un’etichetta indipendente, lui suonava con i Not Moving. Mise su questa compilation e noi incidemmo un pezzo minore degli Who, Boris The Spider. Dove la parte finale fu scritta da noi, perché non c’era nell’originale.
Ma i titoli dei dischi? Come mai così complicati? I titoli, da quello che ricordo, derivano soprattutto da Fabio che era il più anglofilo di tutti. Il primo sicuramente. FOUR WIZARDS IN YOUR TEA è suo al cento per cento. Poi è richiamato anche nelle foto del retrocopertina con la scatoletta del te’ e tutti i riferimenti alla scena psichedelica inglese. Sul secondo credo di averci messo lo zampino anch’io, per via del termine “Misplaced” perché all’epoca c’era un disco che - ok, non è un’influenza che si ravvede nei Magic Potion, però… - era uscito MISPLACED CHILDHOOD dei Marillion. Era un disco che a me piaceva tantissimo. E quindi il termine “Misplaced” forse deriva anche da quello. Però l’influenza principale è di Fabio, anche sui titoli. Essendo lui il maggior conoscitore della psichedelia inglese.
Quale fu il momento più alto della parabola dei Magic Potion secondo te? Credo che sia stata la nostra apparizione televisiva su Italia 1, a “Rock Targato Italia”. Su Youtube si vede. Suonammo a Milano davanti al Castello Sforzesco. Erano tre serate. Una manifestazione molto bella nella quale suonavano anche gruppi professionisti come i Litfiba (che erano già famosi). Mi ricordo che c’era un concorso per gruppi liceali, abbinato ai gruppi, per dire, “affermati”, e fu vinto dai Timoria. Con Renga e Pedrini che all’epoca non li conosceva nessuno, dei liceali ovviamente. Poi hanno fatto anche loro una bella carriera. Un altro episodio che ricordo è che mandarono le registrazioni (montate ovviamente): c’è anche un’intervista a Federico Guglielmi e un’intervista a noi sullo sfondo del Castello Sforzesco… E mi ricordo un pezzo in cui c’erano le interviste al pubblico. L’intervistatore chiedeva quali fossero stati i gruppi migliori che avevano visto in queste serate. E un ragazzo che – giuro, non era nostro parente – disse: “i Litifiba, e poi i Magic Potion”. E questo è un altro motivo di soddisfazione. Quello è stato il momento più alto, penso.
Non avete mai pensato di poter vendere più dischi, sulla scia dei Litfiba? No. In realtà ti dico, col senno di poi, se avessi previsto che anni dopo sarebbero nati gruppi come gli Oasis con tutto il Britpop, forse [ride, NdR]… Perché secondo me alcune sonorità nostre, alcuni temi, possono essere riportati a quell’ambito lì. Perché ti dirò, io ho sempre ambito al pop. Infatti, nella nostra scrittura dei pezzi, io sono quello un po’ più pop. Adesso farò un parallelo che non c’entra niente. Io sono sempre stato un amante degli XTC. E allora vedevo un po’ Fabio come Andy Partridge, e me come Colin Moulding. Perché i pezzi di Moulding sono quelli più orecchiabili. Però ecco, col senno di poi, se avessi saputo che un giorno sarebbe nato il Britpop, forse… Però, vabbè… Lì è stato anche un discorso di scelte di vita.
Ma lo scioglimento, dopo l’uscita del secondo Lp, per qual motivo? Di base, perché muore la nostra etichetta, la High Rise.
Voi non provaste a cercare un’alternativa? No noi seriamente non abbiamo più fatto nulla. Considera pure che la neopsichedelia stava declinando. Mi ricordo, alle nostre ultime prove in cantina, avevamo preso un tastierista perché ci volevamo buttare su cose tipo Canterbury, perché noi siamo tutti amanti di quella scena.
Una scelta ancora più anti-commerciale. [Ride, NdR] Eh sì… e questo ti fa capire che non volevamo fare i soldi con la musica. Però, ecco, finì lì. Il fatto è che non eravamo determinati. Io, avendo conosciuto amici che poi sono diventati professionisti, ho visto che tipo di determinazione hanno avuto nel corso della loro vita, cosa che noi non abbiamo mai posseduto. Perché devi rischiare. Rischiare di rimanere col cerino in mano. Per uno Zampaglione che riesce ce ne sono tanti che continuano a fare le ripetizioni di musica. Che poi è una cosa rispettabilissima, però non è certo la principale ambizione…
Vi sciogliete quindi nel 90. Malamente? Ma no guarda, noi non abbiamo mai discusso. Qualche piccolo scazzo ma roba da poco. Magari c’era un po’ di dualismo tra me e Fabio essendo i due autori principali, ma se si trattava di una rivalità è sempre stata improntata alla correttezza. Tanto è vero che dopo tanti anni ci siamo ritrovati.
Parliamo di 30 anni. Noi in realtà ci siamo ritrovati prima. Perché questo progetto di Cd antologico nasce 10 anni fa. Nasce in corrispondenza all’uscita del libro di Roberto Calabrò (“Eighties Colors”): è un’opera bellissima che ci ha dato un sacco di soddisfazioni. E all’epoca i gruppi di quella scena hanno cominciato a far uscire ristampe e Cd retrospettivi. E quindi nasce tutto in quei giorni. Io mi ricordo le cene con Federico, appunto, per questo progetto, che però per un motivo o per l’altro non si era mai concretizzato. Quindi è un’idea che parte almeno 10 anni fa ma direi qualcosa di più, forse 13.
E avete inciso un nuovo pezzo. Sì, un’altra cover degli Open Mind che era il lato B di Magic Potion. Quindi ci siamo ritrovato esclusivamente per incidere questo pezzo. Abbiamo fatto due-tre prove in cantina, dopodiché abbiamo inciso.
Federico ha prodotto? No perché in realtà l’abbiamo inciso autonomamente. Lui ha assistito alla cosa ma non ha prodotto. Qui non si tratta di produzione. Però quello è stato finora l’unico passo. Adesso stiamo pensando intanto di ritrovarci in sala prove. Poi quello che succederà non lo so. L’idea è addirittura quella di provare a fare qualcosa dal vivo anche per promozionare il Cd.
Sicuramente, va fatto. Be’ però sai, intanto ci dobbiamo ricordare i pezzi [ride, NdR]. Molti non ce li ricordiamo. Io in realtà avevo l’idea di mettere su un set limitato. Pensavo di fare una cosa condivisa con altri gruppi, una serata di revival di questa scena con altre band. Una mezz’ora, quaranta minuti per uno e hai passato la serata.
Tornando al passato, non c’è un po’di rimpianto per non aver mai provato a proporsi all’estero e in primis in Inghilterra? Guarda, noi abbiamo avuto anche delle recensioni di qualche fanzine estera. Ma al di là del tono anche positivo della recensione, però… stiamo parlando sempre di fanzine. Io mi ricordo “Bucketfull of Brains”: era anche molto importante, molto quotata. A noi mancava sicuramente la convinzione, la determinazione. Poi anche questo fatto dell’inglese, per esempio: comunque era un handicap. Perché capisci: al momento in cui ti presenti nel mercato inglese, per quanto tu possa avere una pronuncia decente, comunque si sente sempre che non sei di madrelingua. Quello per me è sempre un handicap piuttosto grave.
Qual è il pezzo dei Magic Potion che secondo te è il migliore che avete realizzato? E’ una domanda come ti puoi immaginare difficile. Poi tra l’altro la stai facendo a me, immagino che se la facessi a Fabio avresti una risposta diversa. Io però - anche dal riscontro che ho avuto sui social negli ultimi anni con le persone che hanno all’epoca acquistato il disco e che sono rimaste legate ai Magic Potion – citerei un pezzo dal primo disco scritto da me, si chiama She Locks. E’ un piuttosto atipico nel nostro repertorio, assolutamente melodico con l’uso di strumenti come chitarra classica e violoncello. Spesso mi viene citata, da persone che hanno ascoltato il disco, questa canzone. Sicuramente è un pezzo molto particolare, poi al di là del fatto che possa essere considerato il meglio riuscito o il più bello. Anche perché mi è piaciuto come è stata la resa sonora su vinile. Considera che la maggior parte dei pezzi, come ce li hai in testa, quando vengono portati su vinile quasi sempre è una delusione. Anche perché comunque con tutta la buona volontà, i mezzi a nostra disposizione erano limitati. Non avevamo Alan Parsons [ride, NdR]!
Articolo del
27/01/2022 -
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