|
Com’era?
Ah, sì: “Certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano”.
Per l’appunto, rieccomi qua. Sono sempre il vecchio ghepardo di prima, sempre incazzoso e brontolone.
Ma…
… almeno per questa volta non sarò io a parlare, in qualche modo v’è andata bene: le mie righe odierne ospitano Elisa Erin Bonomo, cantautrice veneta che, giusto qualche mese fa, ha pubblicato “Sinusoide”, il suo secondo album, e che ce lo racconta fra qualche riga.
Come mi capita di fare sempre per le interviste, mi eclisso quasi subito, non prima, però, di dirvi che il disco di Elisa è un lavoro splendido: già il fatto che siamo di fronte ad un vero e proprio concept- con Lato A e Lato B, come i dischi di una volta- dovrebbe essere un incentivo di tutto rispetto. In più, come se non bastasse, è la prova enorme della differenza che intercorre fra il saper essere eclettici ed il cercare di fare di tutto un po’, ma male: Elisa, che eclettica lo è per davvero, dipinge un disco fatto di nervi elettrici e di carezze acustiche, un vero yin e yang atmosferico- musicale, dipinto, alternativamente, a pennellate fauves ed espressioniste. Senza tralasciare un dato letterario di tutto rispetto, con una scrittura universale, capace di raccontare di noi, ma partendo da sé stessi.
Insomma, ve lo sto facendo capire in tutti i modi: a non ascoltarlo, ci rimettete voi, io ve l’ho detto.
E ora, come sempre, buona lettura, se vi andrà.
E, se non dovesse andarvi, comunque, sareste sempre voi a rimetterci.
Ve l’ho ridetto, augh.
Canonica domanda di inizio intervista: qual è (se c’è, ovviamente) il rapporto fra forma- canzone e letteratura?
Guarda, per tanto tempo ho pensato che le due cose fossero svincolate, non avessero legami. In realtà, sono molto più legate di quanto pensassi. Ti dico pure che, ragionando con un mio amico rapper, Amir Issa, che ha scritto pure un libro, si chiama “Educazione rap”, lui, per esempio, rifiutava la scuola come elemento educativo e culturale, qualcosa che gli potesse dare, poi, spunti per scrivere canzoni, trovandosi poi ad utilizzare comunque le figure retoriche e tutto il bagaglio della metrica che la poesia al suo interno ha. E quindi, di fatto, la retorica ed il rap vanno d’accordissimo. Nel caso della forma canzone e della poesia, credo che sia esattamente la stessa cosa, nel senso che, secondo me, la poesia va compresa- per quanto mi riguarda, posso dire di aver cominciato a comprenderla quando mi sono innamorata, prima l’avevo sempre vista come una cosa un po’ aleatoria, che non riuscivo a comprendere fino in fondo, soprattutto nelle sue parti più ermetiche. Poi, in realtà, capisci che, spesso, lo spazio bianco fra le parole, quello che l’artista sceglie di non utilizzare, è molto più importante della parola stessa. E la canzone, più o meno, ha la stessa cosa, se ci pensi: quando vai a mettere tutto su carta, lo spazio che non occupi si rivela, a volte, più figo e più interessante di quello che scrivi.
Perché “Sinusoide”? Dalle mie- scarsissime e frammentarie- (dis)conoscenze matematiche, mi sembra di ricordare che una sinusoide è un’onda che ha un polo positivo ed uno negativo… c’entra, in qualche modo, anche con la duplicità sonora del disco?
L’ho scelta proprio per quello. Quando stavo lavorando ad “Antifragile”, il mio primo disco, con Stefano Pivato, che è stato anche produttore di “Sinusoide”, lui mi diceva spesso che tutto segue un andamento sinusoidale, ed anche all’interno della stessa sinusoide si creano dei mondi alternativi, per dire: la curva non è solo bidimensionale, ma può avere anche un andamento 3D, e quindi si crea un passaggio ancora più affascinante. Però, nel mio caso, io vedevo come una sorta di ciclicità, magari anche figlia della scuola economica e di quando studiavo il ciclo di vita di un prodotto, in cui tu hai la nascita di un prodotto, la sua introduzione nel mercato (con la conseguente crescita esponenziale della domanda), poi c’è un momento in cui l’andamento è regolare, dopodichè la sua richiesta comincia a decadere. Quello che noi facciamo, a livello economico, è mantenere questa curva costante, e quindi cercare di evitare sempre di più il decadimento. Nel caso, appunto, della musica, ma anche di tutte quelle stagioni della vita che hanno una parte positiva ed una negativa, tutto ritorna ad una sua crescita esponenziale per poi evolversi in qualcos’altro, vedi il rock o il rap, generi già incontrati in altri anni ed in altre epoche, che ritornano, ma in forme differenti. Ecco, per scrivere questo concept ho attinto da quello. Anche perché credo di essere io stessa una persona con un polo positivo ed un polo negativo, di avere degli elementi molto roboanti da una parte, legati alle mie influenze più rock, ma anche, dall’altro lato, una dimensione molto intima, figlia- e questo si vede nel lato b del disco- anche dei vari studi sulla spiritualità che mi è capitato di fare. E c’era una frase che mi aveva colpito molto, qualcosa del tipo che vogliamo stare sempre da una parte o dall’altra di un fiume, ma senza aver capito che noi siamo il fiume stesso. La risposta era fare un qualcosa che mi rispecchiasse, da lì la decisione di avere una parte scura, quasi dark, con elettronica e distorsioni, ed un’altra parte più acustica, quasi morbida. E poi, concludendo, c’entra anche il fatto racconto una storia d’amore, e quindi la sua nascita, la sua crescita e la sua fine. In questa serialità, tutto quello che rimane, sono io, partita, arrivata e cambiata.
Leggendo i testi, una delle cose che mi ha colpito di più, mi ricollego all’essere dentro a quello che si scrive, è stato che sono scritte da una persona “viva”, che può sembrare una cosa banale, ma non è mai scontata. Oltre a questo, però, ho notato che sono anche molto trasversali, riescono a parlare a tutti. Credi nell’universalità delle canzoni? E soprattutto, ti rivedi in quello che scrivi anche a distanza di tempo?
Allora, intanto è chiaro che quando “butti fuori” tutto quello che hai scritto, lo hai già “perso” perché appartiene già agli altri, ed è giusto che sia così. Come è giusto, alle volte, non ritrovarsi più in quanto si è scritto, o riprenderli a distanza di anni, o ritrovarcisi in tutto e per tutto, perché, alla fine, il percorso di un artista è sempre in evoluzione. Poi devo dire che ho scritto questo disco in un periodo in cui stavo soffrendo molto, e scrivere l’ho sempre trovato un modo molto utile di fare qualcosa, forse mi è preso dai libri scolastici, da quando leggevo Kafka che raccontava dei suoi problemi con il padre ed ha scritto “La Metamorfosi” pensando di fare qualcosa che potesse rimanere agli altri. Ecco, ho pensato esattamente la stessa cosa, stavo vivendo una situazione che non avrei potuto prevedere, non sapendo come gestirla. Ma la stavo vivendo: l’unico modo per raccontare quella situazione lì- che poi ho comunque visto comune in molte persone, il vivere un amore che non si poteva spiegare, che non si poteva raccontare, che non poteva essere alla luce del sole, ma che comunque era presente- era provare a cantarlo. Anche perché l’amore, nei dischi, viene raccontato con ogni sfumatura possibile, quasi da ogni angolazione, ma non viene mai raccontato un amore impossibile, perché c’è sempre una sorta di censura, o comunque viene, in qualche modo, schermato. Quindi quello che io ho vissuto servirà un po’ da specchio per me, per capire come stavo veramente, ma anche per le persone che si troveranno nella mia situazione e che, magari, capiranno di non essere sbagliate, che stanno vivendo una situazione che può accadere e che, alla fine, comunque, lascia qualcosa. È un vivere quasi senza pelle, molto scoperti, ma cercando di dire sempre la verità, perché magari qualcuno, quella verità, la sta cercando, e la trova in te.
Due dei miei pezzi preferiti sono stati “Tempesta” e “Nuvola”, che mi sembra abbiano una certa “coerenza climatica”, soprattutto nel loro andamento letterario. Quindi la domanda, che è quasi un’espansione della prima, è: come vivi la tua scrittura?
In realtà è una bella domanda. Sicuramente “tempesta”, “nuvola”, il richiamo a degli elementi atmosferici che si sentono proprio come parte della Terra, della natura, quasi paesaggistici, fanno parte del lato b. E credo sia, fortunatamente, una naturale evoluzione della mia scrittura. Quando ho cominciato a scrivere, avevo bisogno, un po’ come Frida Khalo, di fotografare sempre me stessa, per capirmi. Facendo un esempio cinematografico, un po’ alla Verdone o alla Nanni Moretti, di quel cinema in cui il regista fa un film, racconta sé stesso, e lo interpreta. Poi, ad un certo punto, sono uscita un po’ dal quadro, ed ho cominciato a raccontare delle altre cose, ed anche chi mi stava intorno: ecco, quella è stata l’evoluzione della mia scrittura. E devo dire che sono molto contenta sia accaduta, perché quando il rischio di riprodurre e riproporre sempre sé stessi è quello di rimanere prigionieri del proprio personaggio, nel senso che poi la vita diventa un’opera d’arte, e quindi, alla fine, deve sempre accadere qualcosa di incredibilmente emotivo che ti porta a raccontare delle cose, con la conseguenza di far diventare il vissuto stesso qualcosa di molto pesante, perché devi sempre trovare qualcosa di intenso da dire. Un mio amico cantautore dice sempre una cosa che mi ha molto colpito: io ci tengo che la canzone riesca bene, sono molto interessato, ma la vedo sempre come una canzone, con un necessario distacco, emozionandomi se la storia che ho raccontato mi piace, ma non è necessario che ci sia sempre io. Il fatto di utilizzare molte più figure “altre”, una certa pluralità di persone, molti più elementi che fanno parte di un racconto, e che possono toccare trasversalmente in varie modalità, e che non devo necessariamente essere coinvolta in prima persona, mi fa sentire molto più sgravata. Se prima, magari, nel lato A, c’era una parte strettamente legata allo spiegare per bene cosa stessi vivendo, poi, nella parte B (e nell’evoluzione di quello che sto scrivendo anche adesso), c’è un finale molto più aperto. E, al momento, posso dire che è vivere la scrittura così è molto più leggero.
Capitolo “Altrove”: è un pezzo che mi ha dato l’impressione di portarsi dietro, come vero spartiacque del lavoro, tutta la rabbia del lato A. La scelta di questa doppia anima è anche per confermare l’essere “centro senza limiti”?
Credo proprio di sì, nel senso che, alla fine, il centro del racconto è la consapevolezza del fatto che possiamo essere tante cose, che possiamo prendere tante direzioni, e non è sicuramente un amore- come in questo caso- a definire chi siamo. Questa è la grande consapevolezza che mi porto dietro da questo lavoro, perché il pretesto che mi ha portata a scrivere questo disco è il “perché non mi guardi? Perché non tieni conto dei sentimenti che sto provando per te, anche se tu li provi per me e non possiamo viverli?”: dal cercare di spiegare questi sentimenti in primis a me, e poi anche alla persona di cui ero innamorata, è nato “Sinusoide”. E chiaramente è stato un percorso molto innamorato, molto appassionato, vissuto anche con un po’ di ri- sentimento. E poi, alla fine, capisci che questa guerra, questa chiamata alle armi da parte di una persona che non ti vuole ascoltare (o che non ha gli strumenti per ascoltarti) non è necessaria, non serve: l’unica cosa che puoi fare è capire te stesso, e capire che questo rapporto, di cui tu avevi disperato bisogno, in realtà era solamente un pretesto per capire qualcosa in più di te stessa, e mentre tu cercavi di far capire a questa persona quanto l’amavi, hai finito per capire molte cose di te. Fino a capire che ci sono tante altre cose in grado di definirti e di arricchirti, di darti quello che, in quel momento, non arriva: è inutile cercare sempre l’amore, o le cose che vogliamo, nei posti sbagliati. È questo, e lo hai centrato. Il fatto è che possiamo essere tante cose, e molto spesso lo dimentichiamo perché vogliamo piacere invece che essere ascoltati.
Concludo con una domanda “di settore”: soprattutto nell’ultima parte dello scorso anno, sono usciti un sacco di album di musica d’autrice- e devo premettere (e ripetere) che non è una definizione per cui stravedo, ma se serve a far arrivare, in termini più mainstream possibili, tutto un circuito, la uso con piacere- oltre al tuo, giusto per citarne qualcuno, Lamine, Anna e L’Appartamento (senza contare che un anno che vede i ritorni di Cristina Donà e Carmen Consoli non può che essere benedetto, da quel punto di vista lì): perché se ne continua a parlare così poco, secondo te? È solo superficialità, o c’è anche del dolo?
Michele Monina dice sempre che il cantautorato italiano ha un problema con le donne. Ed, effettivamente, è così: c’è un pregiudizio di fondo che porta a pensare che le donne che scrivono non siano altrettanto brave, che abbiano una modalità di scrittura diversa, “emotivamente meno catturante”, come ho sentito dire ad alcuni cantautori maschi. Una volta una mia amica promoter mi ha detto, chiaramente, che è una questione di vendita: è molto più facile, soprattutto per un pubblico femminile, innamorarsi di un artista, e di solito le fan comprano, seguono, vanno ai concerti, mentre il maschio - ovviamente non generalizzando- solitamente, quando segue la cantautrice, è molto più interessato al dato fisico rispetto che a quello artistico, di conseguenza la cantautrice di turno finisce per vendere di meno, sbigliettare di meno e diventare meno vendibile a livello di promoter. Io vorrei sfatare soprattutto il primo mito: c’è una leva cantautorale molto interessante di colleghe, alcune le hai citate tu, ma io potrei citarti, per dire, anche Sara Fattoretto o Chiara Vidonis, ce ne sono tantissime e tutte meritevolissime. Semplicemente, secondo me, siamo sempre lì: siamo in un sistema che lavora solo sulla comfort- zone, e quindi vende quello che secondo lui è più facile vendere. Quando si dice che, nell’indie, nel cantautorato, nel rock alternativo ci sono pochissimi nomi di donne, si sta dicendo una grande fregnaccia: ci sono libri e libri- ad esempio quello di Laura Pescatori (“Femita. Femmine rock dello Stivale”, libro magnifico e cartografia puntualissima del circuito musicale femminile, ndr.), o “Rocket girls- storie di ragazze che hanno alzato la voce”, di Laura Gramuglia- che ti fanno vedere che in realtà siamo pieni di donne cantautrici, e non solo, anche produttrici, arrangiatrici, che fa comodo vedere solo per quello che si vogliono vedere: cantanti, punto. E in realtà non è così.
Poco più di un anno fa è nata, per volontà tua e di altre quattro cantautrici (Pellegatta, Sara Romano, Giulia Giovanni ed Irene Brigitte) il collettivo UNICA- Cantautrici Unite, che vede la partecipazione di tantissime altre firme del circuito della musica d’autrice, penso ad Agnese Valle, Eleonora Bordonaro, Cassandra Raffaele, Silvia Oddi, un “movimento di cantautrici che sia tavola rotonda permanente sulla situazione professionale e luogo di confronto come donne del settore”…
Sì, organizziamo anche attività di mentoring per chi muove i primi passi nel mondo della discografia, comincia a fare questo mestiere e non sa bene dove andare, come registrarsi, cosa fare o con chi parlare. Fra l’altro, qualche tempo fa, un mio collega mi ha detto qualcosa del tipo “Ma no, siete voi che siete scoraggiate alla base e pensate che tutto si debba fare da sole, che dovete cercarvi booking, etichette e farvi autoproduzione”: ecco, in realtà l’attività di mentoring è, a tutti gli effetti, una risposta ad una situazione di totale indifferenza che c’è nei nostri confronti. Quando vedi che le varie proposte che hai mandato non vengono mai accolte e spesso finiscono perse nel calderone, insieme a mille altre cose, tu ti organizzi, ti fai le tue cose, lavorando su una circuitazione stretta e sui contatti che ti sei fatta nel tempo. Quello che manca è il tam- tam, è la cassa di risonanza: io, con le mie forze, so che posso spingermi e posso arrivare fino ad un tot. Poi so che fisicamente non ce la faccio perché sono sola, e quindi è chiaro che quel salto in più te lo deve far fare qualcun altro.
Articolo del
07/04/2022 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|