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Si intitola Blues is My bad Medicine l’ultimo disco di Mario Donatone uscito il 22 febbraio per l’etichetta Groove Master Edition. Un lavoro in cui il pianista romano esplora un mondo sconosciuto, quello del blues delle origini, fondamentale per tutta la musica e la cultura moderna. A questo progetto è legato anche un libro intitolato “Blues che viaggiano in prima classe - la lunga strada della musica del diavolo dalle paludi del Delta al mondo del rock'n'roll”, un’indagine completa su questo mondo per certi lasciato da parte nello studio della musica. Mario Doantone ci ha raccontato nel dettaglio questo progetto
Mario bentrovato. Blues is My bad Medicine è il tuo ultimo disco. All’interno di esso troviamo tanti brani famosi, appartenenti alla tradizione, risuonati anche da musicisti contemporanei. Ce lo vuoi descrivere brevemente? Era tempo che volevo immergermi in una meditazione sonora nel blues delle origini, che è sempre stato una delle mie maggiori ispirazioni di fondo. Non mi ero mai misurato con un'idea di progetto così organica su queste radici della musica neroamericana e i lunghi mesi di “semi-inattività” della pandemia hanno creato uno spazio ideale per elaborare un'operazione come questa che richiedeva studio e concentrazione. I brani li ho scelti in base al mio gusto e cercando di rappresentare una panoramica di diversi artisti di quell'epoca d'oro così poco conosciuta della musica afroamericana che va dagli anni '20 agli anni '40 e che viene definita spesso “del blues prebellico”. Volevo mettere in rilievo anche artisti non troppo conosciuti dai più come Lonnie Johnson, che è un chitarrista e un cantante di un'importanza enorme, ed è stato un vero faro per generazioni di musicisti da Robert Johnson a Steve Ray Vaughan, o come Sister Rosetta Tharpe, una delle maggiori fonti di ispirazione del “chitarrismo” rock'n'roll da Chuck Berry in poi. La spinta principale è stata quella di volermi immedesimare nelle atmosfere, tutte diverse e artisticamente pregnanti, di vari interpreti che hanno creato dal nulla una poetica musicale dalla quale c'è ancora tanto da imparare. Artisti come Blind Lemon Jefferson, Robert Johnson, Skip James, Sleepy John Estes, per citarne qualcuno, hanno creato un mondo sonoro fatto di segrete sottigliezze che è molto più ricco e affascinante del blues elettrico successivo, mediamente più esuberante e spiccio A questo disco è legato anche un libro didattico intitolato Blues che viaggiano in prima classe: ci vuoi spiegare come hai impostato la didattica e soprattutto qual è secondo te il miglior modo per insegnare una “materia” come il blues? Comincio col dire che si tratta di un saggio che contiene delle ipotesi di didattica ma che può essere letto e apprezzato anche da chi non ha una specifica formazione musicale ed è un semplice appassionato. In questo libro ho voluto affrontare il blues come un fenomeno complesso che va indagato attraverso molte letture, che nella saggistica corrente vengono sempre tenute un po' separate. Nel mio libro ho cercato invece di integrare il piano dell'analisi storica con quella sociologica, la disamina musicale con quella letteraria, gli aspetti psicologici e quelli sociali, e credo che la sua novità fondamentale risieda in questo approccio interdisciplinare
I brani che fanno parte del disco vengono spiegati nel libro: perché la scelta di approcciarsi a questo repertorio e soprattutto ad un blues che appartiene alle origini? La documentazione discografica, che dalle prime tracce di Blind Lemon Jefferson nel 1925 in poi ci racconta il blues originario, raffigura un panorama musicale estremamente articolato, con vere e proprie scuole stilistiche che si sono sviluppate, come quella texana, quella del Delta, la East Coast, e a seguire i generi più urbani come quello di Chicago o di altre città. Se noi ascoltiamo bene le invenzioni che sono state elaborate, sia dal punto di vista vocale che strumentale, in quel periodo, ci rendiamo conto che sono alla base di tutto il linguaggio classico del rock, e questo fatto non è completamente chiaro né ai musicisti né agli ascoltatori di oggi. Inoltre si tratta di un periodo che ha regalato delle perle musicali che vengono tuttora eseguite in tutto il mondo. Moltissimi brani di quell'epoca hanno rappresentato una parte importante del repertorio dei musicisti rock dagli anni '60 ai '70 e questo legame io lo sento particolarmente perché il mio interesse per ambedue questi mondi è nato in modo parallelo. Quando avevo 16 anni ascoltavo Hendrix e gli Stones con la stessa attenzione con la quale ascoltavo dischi di oscuri bluesman delle campagne statunitensi
Inevitabile a questo punto parlare di collegamenti: quali sono dunque i link e le connessioni che questa musica ha ad esempio con il rock e con generi più contemporanei? L'elemento più evidente a tutti è, come ho appena detto il repertorio, ma se si va ad analizzare il linguaggio musicale tutta la varietà di stilemi che troviamo nel rock anni 60 e 70 è una filiazione del blues delle origini, dal fraseggio elettrico della chitarra, che viene direttamente dai maestri del Delta, al mondo della musica acustica e del fingerpicking, che pone le sue radici nel blues della East Coast dei vari Blind Blake e Reverend Gary Davis
Visto che ci siamo parliamo anche del tuo percorso personale. Ti va di raccontarci in generale come ti sei avvicinato alla black music? Il suono e l'espressività del mondo musicale afroamericano mi hanno colpito molto sin da bambino. Il primo disco soul che ebbi a casa fu I gotcha di Joe Tex, un sound soul funky sconvolgente per le mie orecchie dell'epoca. Il mio background familiare era fortemente radicato in una tradizione melodica anche importante, mio padre era un bravo cantante d'opera dilettante e a casa si ascoltavano Verdi, Puccini e le canzoni napoletane. I pochi input che ho avuto fin dall' infanzia mi hanno sempre fatto sentire una profonda affinità con la musica black. All'epoca erano soprattutto i momenti rari in cui in televisione passavano delle cose di un certo tipo, come le ospitate di Louis Armstrong o un piccolissimo documentario di Folkstudio Singers attraverso il quale ascoltai il gospel per la prima volta. Da adolescente, nella seconda metà degli anni settanta, ero un seguace del rock e mi attirava tutto ciò che, in questo tipo di musica, pendeva verso il blues, da Steve Winwood ai Rolling Stones a Janis Joplin. Intanto scoprivo i dischi musicologici della Albatros di Gianni Marcucci, dove avevo modo di ascoltare gli stili originari del blues attraverso interpreti spesso oscuri che si esprimevano in registrazioni casalinghe tecnicamente non di primissima qualità ma di grande fascino. Poi nel 1981 vidi Ray Charles dal vivo a Roma e fui definitivamente conquistato da questa musica in tutte le sue ramificazioni
A che punto hai sentito l’esigenza di approcciarti a una didattica legata a questo genere e come è nata l’idea di racchiudere tutto questo all’interno di un libro? L'esigenza la potrei definire didattica in un senso molto ampio. Non si tratta solo di trovare una chiave per insegnare la tecnica, la poetica e l'espressività del blues, che per molti versi è più facile trasmetterla che inculcarla, ma di fare qualcosa perché questa musica non venga banalizzata e relegata a un intrattenimento nobile che rimane pur sempre intrattenimento. Si tratta di un fenomeno culturale complesso che ha dato la scintilla determinante al rock e alla musica di massa in generale, cambiando i nostri costumi e il nostro modo di vivere occidentale. Per questo va studiato con molta più attenzione e serietà. Inoltre si tratta di una musica che può essere analizzata nel dettaglio, come d'altronde si fa con il jazz da decenni in una saggistica didattica ormai affermata e “accademizzata”. Il mio è un contributo in questo senso. È come se volessi dire alle istituzioni didattiche come i dipartimenti jazz dei conservatori: fate studiare anche questo, c'è un grave deficit di conoscenza sulle radici del blues!
Considerando questo percorso una domanda ci sembra obbligatoria. Cosa possono imparare le nuove generazioni dall’ascolto del blues? L'autenticità, la ritualità della comunicazione psicologica sia con il proprio io profondo che in relazione con gli altri. Una gestione della propria emotività nell'espressione musicale tra le più sofisticate che esistano, a dispetto dell'apparente rozzezza. Il dinamismo ritmico, l'interazione tra gli strumenti, la grande fluidità del linguaggio vocale, il suo lirismo. Conoscere e amare il blues è fondamentale per suonare bene il rock il soul o il jazz, e non lo dico certo io
Articolo del
11/04/2022 -
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