Fine anni ’70: il rock psichedelico e il progressive esplosi nel decennio precedente, si avviavano a un inevitabile tramonto. Il rock sinfonico, con le sue lunghe suite strumentali, aveva fatto il suo tempo (dispari): il mercato – anche quello culturale – spingeva in altra direzione. Un esercito di pennivendoli fu assoldato per demolire gli artefici di quegli anni fulgenti: dinosauri furono appellati quelli che mostri lo erano davvero: gruppi che oggi, periodicamente, ritornano in classifica con i loro vecchi successi. Gli anni ’80 bussavano all’uscio: bisognava fare ancora più spazio al prodotto, imporre sugli scaffali degli store musicali il Sound di Filadelphia e la Disco music.
I nuovi generi, caratterizzati da una massiccia manipolazione durante le fasi di registrazione, imposero al pubblico una fruizione (il termine ben si addice a una modalità di ascolto consumistica) esclusivamente “tecnica”: limitata al supporto su cui i brani venivano incisi; i gruppi che suonavano dal vivo nelle balere e nei locali il repertorio stagionale fu mandato definitivamente in pensione e la musica in tivù, da quel momento, venne eseguita solo in playback. Quella che all’epoca sembrò a molti una rivoluzione – e a una minoranza un decadimento culturale (ma averceli oggi gruppi come gli Chic, voci come la Gaynor o successi come “Walk like an Egyptian”) –, si impose ben presto quale modello per tutto il mercato musicale a venire: omogeneizzare e parcellizzare la forma canzone, portandola, inoltre, a rappresentare la musica tout court.
Al motto la musica è nostra, urlato dal pubblico non pagante, si andava sostituendo l’assunto la musica è nostra, sussurrato dai discografici. Bisognava trovare qualcosa, dopo la disco, che affidasse la musica (e per essa la canzone) alle sole mani dei produttori, mettendo all’angolo qualsiasi istanza di autonomia di cantanti e musicisti. E il quid tanto atteso arrivò: anzi, era lì da un bel po’ e non ce n’eravamo accorti: il rap e i suoi derivati (con questo termine indico il tutto compreso dal Rapping al Trap, passando per l’Hip hop, con buona pace di coloro che si sforzano di spiegare la differenza fra questo e quello e il Shouthern rap).
Nato negli USA, il genere si è presto diffuso in tutto il mondo con la stessa rapidità della più nota bibita del pianeta e dell’altrettanto famigerato panino a strati. Al suo apparire sulla scena musicale il rap raccolse discordante accoglimento. È passato troppo tempo, non ne rammento il nome, ma ricordo chiaramente il parere di un vecchio musicista blues che intervistato in tivù sulla sorte dei più recenti fenomeni musicali non ebbe cuore di esprimersi sfavorevolmente su questo o quel genere ma pungolato dall’intervistatore finì per fare un’ammissione: forse il rap, a suo parere, era destinato a durare poco – era certo che la sua diplomatica gentilezza, di fronte all’evidenza, potesse cedere posto alla sincerità. Aveva assolutamente ragione e, ovviamente, assolutamente torto. Il fenomeno rap possiede almeno tre elementi che, fin dagli esordi, gli assicurano longevità.
Il primo di questi ingredienti è rappresentato dalla sua estrema semplicità compositiva. Alla esigua grammatica della musica leggera – nella quale la semplicità si coniuga con l’energia che questo genere è capace di esprimere – si unisce un ulteriore grado di elementarità. Il rap, indipendentemente dal talento o dalle capacità di chi lo approccia, permette a chiunque d’improvvisare uno sfogo sonoro se non musicale. Si dirà: ma era nato proprio con questo intento: dare voce a chi non ne ha (sia in campo sociale che estetico). Una pratica che cova al suo fondo una ideologia rivoluzionaria, per quanto più autenticamente diffusa da un altro fenomeno musicale, il Punk – patrimonio dei tanto deprecati anni ‘80. Il salto dalla semplicità compositiva della forma canzone a quella più elementare che stiamo analizzando, è stato radicale: tanto varrebbe comporre una pagina musicale servendosi solo di trilli o di acciaccature (il genio bachiano, in alcuni momenti delle Suite inglesi, arriva a dimostrare che ciò è possibile).
Un po’ come scrivere una canzone con una nota sola: un esercizio, un gioco musicale riuscito a pochi (dunque spazialmente limitatissimo) e, fra quei pochi, a quei geniacci degli Elii. Col suo parlar cantando, o viceversa, e grazie al massiccio ricorso all’auto-tune di cheriana memoria (Do you believe in life after love?), nel rap anche la voce diventa un trascurabile optional – un aspetto positivo del fenomeno rap, non fosse che si veste la scompostezza canora, strumento di energia espressiva, con un inutile abbellimento.
Il secondo ingrediente, formidabile atout del rap, è che esso si offre a una altrettanto facile fruizione: le orecchie dell’ascoltatore medio, così come le sue papille gustative definitivamente stordite dalla celebre bibita e dal famigerato panino, non reggono oltre una primitiva stimolazione sonora scambiabile per musicale – la musica non è forse diventata il sottofondo, l’accompagnamento presente in ogni supermercato, centro e attività commerciale, ristorante e bar che (non) si rispetti? Abituati a brani composti sulla base di un impulso ispiratore che non va oltre la cellula sonora di un jingle, ci accontentiamo di brani che sono poco più di un riff. Persino la musica colta, utilizzata nella pubblicità (massima aspirazione e traguardo per qualsiasi cantante millennial), si riduce al suo slogan: alla frase musicale citazionabile – ovverosia fischiettabile.
Altra caratteristica del rap consiste nel suo immancabile messaggio, originato dal grido di sofferenza alle radici del genere. Tutta la musica non sorge forse da un pianto? “Non posso fare distinzione tra la musica e le lacrime”, scrive Nietzsche; gli fa eco Emil Cioran chiosando: “Ogni vera musica è sgorgata dalle lacrime, nata com’è dal rimpianto del paradiso”. E con forza anche più visionaria, il duo Battisti-Panella, da qual capolavoro che è “Don Giovanni”, invitano alle lacrime col loro Fatti un pianto: “dai piangete, dai cantate”. Va detto che la disco music, tanto criticata all’inizio di questo articolo, nacque negli anni ‘70 sui presupposti di quella rivoluzione culturale che negli Stati Uniti portò la comunità gay e quella di colore a far sentire la propria voce. In special modo nel nostro paese, quel sound venne immediatamente percepito come intrattenimento: a digiuno di lingue straniere, il grosso pubblico non colse immediatamente in quei testi le esplicite allusioni sessuali e le denunce a un sistema che emarginava con violenza i neri.
Ben presto il mercato si accorse che qualsiasi cosa portava sulla confezione il prefisso disco si vendeva facilmente e finì per omologare anche quella protesta. Stessa sorte per il rap nato con l’intento di denunciare gli abusi della polizia sui neri e le devastazioni in seno alla società americana generate dalle non più sopportabili disparità sociali. La povertà compositiva del rap, come, con i dovuti rapporti, del jazz e del blues delle origini, era figlia dell’urgenza, della necessità: i rapper si arrangiavano come potevano, rielaborando materiale esistente. Ci pensò il mercato, ancora una volta, a tendere la mano a quei musicisti di strada lastricandogliela di buone intenzioni, col risultato di rovesciare i presupposti di una protesta per fiaccarla riducendola a “fenomeno” spendibile sul mercato e svilendo l’originaria rabbia espressa dal rapping in una cantilenante sequenza di rime troppo spesso banalmente didascaliche.
Per i detentori del mercato musicale, il rap ha rappresentato la leva con la quale svellere anche l’ultimo residuo di competenza e di talento richiesto per comporre: la musica ridotta a cellula sonora in un unico modello unisex adatto a tutte le età, trasformata in un prêt-à-porter (monotòno e monoritmo) che nella chiave di violino ha trovato solo un logo. In un breve saggio politico, La crisi del pensiero (traduzione di Nicole Agosti per Il Mulino, 1994), alcune affermazioni che Paul Valéry riferisce al nostro continente, possono essere allargate all’intero Occidente; l’autore scrive: “Avevo sostenuto che la diseguaglianza che per tanto tempo si era notata in favore dell’Europa, dovesse, per necessaria conseguenza, tramutarsi progressivamente in una disuguaglianza di senso opposto […]. Il sapere, che era fino ad allora un valore di consumo, diventa un valore di scambio. L’utilità del sapere rende il sapere stesso una derrata […]. Questa derrata assumerà quindi forme sempre più maneggevoli o commestibili; verrà distribuita ad una clientela sempre più numerosa; diventerà Cosa commerciale, qualcosa quindi che si imita e si produce un po’ ovunque.”
Si potrebbe osservare che, come per il rap, anche altri generi musicali si sono sviluppati lontano dall’albero da cui è caduto il frutto. Nel nostro Paese il blues ha dato alimento alla formidabile vena di Pino Daniele, come il jazz a quella altrettanto prolifica e solida di Paolo Conte. Ma quale musicista jazz rivendicherebbe un jazz francese o rumeno o spagnolo (per quanto il perfido Edoardo Camurri, dai microfoni di rai radio tre, attesta l’esistenza di un jazz scandinavo)? Nel rap, invece, oltre che cantar parlando, molto anche si parla, si discute, si dibatte (e quanto marketing vi sia in questo dibattito lo si intuisce facilmente): ogni rapper afferma, con orgoglio, di esprimere musica ben radicata nella sua cultura d’origine sol perché nel brano impiega l’ukulele, la cornamusa o la kora.
Non mancano esempi in cui il rap si è fuso efficacemente a elementi locali. In Italia, ad esempio, raccogliendo la nostra tradizione melodica, pur conservando i suoi paradigmi (rapping, ausili vocali), dando vita a un prodotto originale: “Rubini” di Mahmood e Elisa, col suo cantato spezzato e il suo ritmo ipnotico; e in una versione del brano “Don Raffae’”, Giovanni Falzone e le sue “Mosche elettriche”, fondendo sapientemente cantautorato, jazz e funky, hanno saputo evocare l’elemento rap nelle godibili, felici rime di Fabrizio De André. In questi esempi il rap è impiegato come uno dei possibili elementi compositivi a disposizione di un autore: se necessario, non certo sufficiente.
In attesa di un rap ispanico (e, perché no?, ispano-americano) e bulgaro solidamente innestati sulla complessità ritmica di un’area geografica e culturale che comprende anche la musica cubana, e l’ampiezza tonale balcanica, possiamo sempre far conto sulle raffinatezze melodiche e ritmiche di Esperanza Spalding e le magie vocali de Le Mystère des Voix Bulgares. La musique est morte. Vive la musique.
Si ringrazia, per la consulenza musicale, il compositore maestro Roberto Marino
Roberto Lombardi, attore, counselor, animatore di laboratori teatrali e linguistici. Fa parte della redazione della rivista culturale on line italo-francese Simposio italiano; ha tenuto una rubrica dal titolo Il Logonauta su I confronti, rivista on line, e su La Città, quotidiano salernitano. Il suo interesse per i linguaggi lo porta a calcare le scene in veste prima di strumentista, alla batteria con Mango, e poi di attore e sceneggiatore anche per il cinema e la televisione. Sotto lo pseudonimo di don qi, crea figure antropomorfe, Mitomorfosi, manipolando terracotta, legno e ferro con i materiali più svariati.
Articolo del
02/11/2022 -
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