Giusto per rapire le sue parole a corredo di “Teverend”, prima traccia di questo suo nuovo disco: “L’Apocalisse di Giovanni, se Giovanni fosse stato romano, se avesse scritto blues, e se avesse realizzato che a Roma l’unica divinità che si sia mai manifestata è il suo fiume”. Luca Bocchetti torna in scena con un lavoro dal titolo “Vado mo’?” totalmente autoprodotto, con un Tascam 8 tracce e poi chiuso in studio nel mastering con Lucio Vaccaro. Suona blues nel DNA anche se non si priva di quel pop d’autore ben strutturato. Voce ferma, sicura, pulita, voce che piace e che scivola senza intoppi. Sono tanti i punti di approdo per una chiacchierata interessante, non ultimo questo metro di esistenza che oggi passa inevitabilmente per i like pettinati della rete. E tutto questo è quanto di più lontano ci sia dalla verità e dal blues…
Un Tascam e una cameretta. Una produzione totalmente indipendente… ti è mancato qualcosa oppure hai avuto tutto davanti a te? Ho avuto a disposizione esattamente quello che mi serviva per registrare ciò che avevo in testa. Ho scritto e registrato nella stanza da letto del bilocale in cui vivo con mia moglie, cioè la metà dello spazio in cui si svolge gran parte della mia vita adulta, fisica, emotiva e affettiva. Ovviamente questo, al di là degli aspetti tecnici, influisce moltissimo sul modo di lavorare. Non avevo impedimenti pratici o economici che mi trattenessero dall’entrare in studio, semplicemente volevo intraprendere un percorso diverso da quello che avevo già fatto con i dischi de I Santi Bevitori: ho scelto lo spazio intimo per eccellenza e mi sono procurato i mezzi minimi per realizzare la mia idea. Non devo essere all’altezza delle aspettative di un pubblico consolidato da compiacere, sono un cane sciolto e sconosciuto e, se guardi la cosa da una certa prospettiva, si tratta di una ricchezza inestimabile.
E perché dunque uscire dalla cameretta per incontrare Lucio Vaccaro ed il suo lavoro di Mix e Mastering? Il lo-fi è un territorio quasi sconosciuto nell’ambiente italiano, perché siamo culturalmente molto legati alla confezione, perché per noi una bella veste rappresenta (spesso a torto) una garanzia di qualità. Resta vero però che c’è un confine molto labile a separare una porcheria artistoide e ingenua da un lavoro maturo privo di orpelli e, per essere certo di stare dalla parte giusta di questo confine, dovevo affidare il suono a un vero artigiano di fiducia. Lucio non è solo un professionista e un musicista di grande sensibilità, ma anche uno “di famiglia” in grado di capire di volta in volta dove voglio andare a parare. Senza di lui sarei stato incapace di portare a compimento il mio disegno in maniera credibile e omogenea.
Riflettiamoci ancora su questa autoproduzione: secondo te questo sdoganare gratuitamente la possibilità a tutti è un bene o un male per la qualità? È vero che oggi chiunque può autoprodursi un disco, ma la spazzatura si incideva anche prima degli home studio. La differenza la fanno le idee e l’abilità delle persone che le concretizzano. Certo, l’offerta è ormai vastissima; su cento lavori, solo uno o due sono veramente degni di nota, ed è difficilissimo scovarli nelle sconfinate discariche musicali che ci vengono proposte ogni giorno. Eppure questi dischi dischi esistono e valgono proprio in virtù della loro rarità. Avere la possibilità di mettere in circolo musica è senza dubbio un bene, ma chi fa musica oggi ha una responsabilità molto più alta: si dovrebbe pubblicare del materiale solo quando si è assolutamente certi di non essere mossi da vanità e autocompiacimento.
Dischi e radici: “Vado mo’?” da dove proviene per davvero? Perché parli di blues ma io ci vedo moltissimo pop… Si tratta di un Ep che guarda ai primi lavori domestici di Elliott Smith, all’onestà ingenua di Daniel Johnston e alla bassa fedeltà smanettona del primo Beck. E poi ci sono gli ascolti della vita, quelli che ti restano addosso per sempre: il pop dei Beatles, i cantautori della mia città - primo fra tutti Stefano Rosso –, l’amore chitarristico di Ivan Graziani, reminescenze del Battisti che comincia a scoprire i suoni sintetici. Tutta roba di largo consumo e fuori tempo che però non potrò mai scrollarmi di dosso. Ma se penso all’umore malinconico di fondo che lega i cinque pezzi, alle parti d chitarra su cui li ho costruiti, alle parole che ho scelto per raccontare le mie storie, allora credo che venga tutto da Leadbelly e Robert Johnson. Perciò, sì, in un modo che non so spiegare bene, si tratta di blues.
Luca Bocchetti ci sembra molto lontano dalle classiche dinamiche di vetrina e di estetica. Ti senti un outsider? E questo oggi significa non esistere secondo te? Se esistere significa avere un singolo in classifica, figurare in playlist di lusso ed essere sulla bocca di tutti, allora è giusto dire che non esisto. Ma io reputo che esistere significhi suonare e cantare ciò in cui si crede davvero. Io posso permettermi il lusso di scrivere e suonare senza filtri e secondo le mie regole perché ho slegato la musica dalla necessità di mettere la pila sul fuoco. Il mio sostentamento è affidato a un impiego convenzionale: lavoro otto ore al giorno, cinque giorni su sette. Quello è l’unico lasso di tempo in cui sento di non esistere.
Articolo del
15/01/2023 -
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