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Lame da barba
Lame da barba: Mediterraneo e terre arse dal tempo
di
Domenico Capitani
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Tocco con mano la sabbia e le rocce, vedo cangianti i colori di vestiti e tradizioni, ne sento il sudore, le scadenze e poi cerco inevitabili misure del tempo umano a ricondurmi all’umana condizione, contro questo tempo computerizzato, dove ogni cosa passa per un algoritmo. Persino il suono. Ma non è questo il caso. Un quartetto che si firma Lame da Barba e che proviene dalla Lucania, dal Piemonte, dalla Sicilia e dalla Puglia. È dunque apolide il suono di “Qafiz”, disco prezioso di vita e di sacramenti, disco artigiano che cerca una scrittura antica e riesce a riportarci tra i tratturi come anche dentro le vie di qualche luogo di civiltà perdute. Sa di sabbia. E non esistono computer.
Io partirei dal titolo che ha un’origine davvero interessante. Resto saldo nelle allegorie chiedendovi: quanto “pesa" per voi questa immersione nella cultura e nelle sue contaminazioni? Quanto “pesa" questo disco? Siamo in un periodo storico ricco di tantissimi input e nel mondo della musica World si sta attraversando un forte momento di contaminazione stilistica. Abbiamo sentito il bisogno di meravigliare noi stessi. Qafiz è l’etimologia araba della parola Cafisu che in sicilia è l’unità di misura dell’olio. Abbiamo deciso di ricercare una etimologia del suono andando a scavare nel nostro passato, ricco di storia e contaminato dagli incontri tra i popoli.
Sempre restando dentro le visioni altre la copertina che avete scelto, la faccia di questo disco, sembra una coperta. L’oriente più che il mondo industriale. Sembra un origami anche… ce la raccontate? La copertina del disco vuole rievocare qualcosa di antico ma allo stesso tempo di moderno e in qualche modo anche qualcosa di geometrico, e poi ancora qualcosa di indefinito; e infine - trattandosi di un disco di musica strumentale - voleva essere assolutamente astratto.
L’ascolto di questo disco non mi precipita dentro luoghi di silenzi religiosi. Piuttosto mi fa correre dietro un aquilone, quasi lo rivedo Hassan tra le vie sabbiose del Pakistan. C’è una dimensione di gioco più che di spiritualità o sbaglio? La cosa che più mi affascina della musica strumentale è la condizione in cui l’ascoltatore è messo: è libero di interpretare e di viaggiare con la mente e di creare le proprie immagini. Per me questo lavoro rappresenta sia una gioco di immagini, che un’esplorazione del nostro suono antico personale.. quindi un po’ l’una e un po’ l’altra cosa.
A proposito di occidente e di futuro: posso chiedervi di “Marsā”? Qui sembrate raggiungere luoghi di cemento… almeno all’orizzonte… Marsā è un toponimo di origine araba che si trova in alcune città siciliane come ad esempio Marsala, significa ‘porto di mare’ e serviva come identificativo per i naviganti per sapere che lì, in quei luoghi era possibile attraccare. Il suono del sax ci porta ad un immaginario più metropolitano con un tema semplice e cantabile, la parte centrale è la mia preferita in assoluta di tutto il disco perché li si concentrano le energie, l’essenza, l’ideale che ha portato alla creazione di questo lavoro.
Un disco decisamente visionario a cui mi sarei atteso anche un bellissimo video a corredo. L’immaginario qui potrebbe davvero regalarci micro-film. Ci avete pensato? Nel primo video pubblicato dell’album (Saja) abbiamo utilizzato delle immagini tratte dal documentario “Human”, di Yann Arthus-Bertrand che ci ha gentilmente concesso l’utilizzo. L’idea iniziale era proprio quella di utilizzare molte immagini del film perché si sposavano molto bene con il brano ma non è stato possibile andare oltre ad un certo minutaggio per questioni di copyright. Siamo convinti che negli anni possano nascere nuove energie e collaborazioni di questo tipo.
A chiudere parliamo di produzione: improvvisazione, scrittura, gioco sicuramente… il suono si è sfamato di quello che avevate oppure avete anche fatto una qualche ricerca strumentale, non solo nel tipo di strumento ma proprio nel “come” suonarlo? I brani sono una fusione tra composizione ed improvvisazione e questi due opposti si fondono in modo da non far percepire all’ascoltatore quale sia il confine dell’uno o dell’altro. I brani si arricchiscono tenendo conto della natura variegata di ognuno di noi così da riuscire a liberare l’interplay personale che viene fuori quando ci si sente a proprio agio in quel che si suona. Quindi è un lavoro prettamente compositivo ma allo stesso tempo anche un lavoro di gruppo.
Articolo del
08/01/2024 -
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