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Straordinario pianista dallo stile non etichettabile, appartiene oggi alla schiera dei grandi del pianoforte. Questo è Stefano Bollani, talento eclettico, eccezionale improvvisatore ed abile intrattenitore, artista umile ma vincitore di premi in tutto il mondo, dall’Inghilterra al Giappone. Lo abbiamo incontrato la sera del 13 agosto, dopo il concerto di piano solo a Villa Guerrazzi in località Cinquantina, a Cecina, inserito nel festival SummerBeat diretto da Corrado Rossetti.
Stefano, nel tuo stile musicale si ravvisano molte contaminazioni diverse, è difficile definirti a livello musicale. Questo nasce da una scelta precisa, o è qualcosa a cui sei naturalmente predisposto?
Credo sia una sorta di scelta naturale, che deriva dal fatto che non ho mai pensato la musica come divisa in generi differenti, ma come una sorta di continuum. Ciononostante ho una grande ammirazione per alcuni artisti che, invece, hanno sempre lavorato sul medesimo stile, come Joao Gilberto, o Chet Baker.
Hai suonato in una favela di Rio de Janeiro: prima di te, vi era riuscito solo Tom Jobim, probabilmente il più grande compositore brasiliano mai esistito. Com’è stata quella esperienza?
Dunque, la favela era la “Pereira da Silva”... Devo dire che più interessante del concerto fu la visita alla favela che feci il giorno prima, ovviamente accompagnato da un abitante del luogo per non correre rischi. Il concerto in fin dei conti fu un normalissimo concerto, su di un palco come quelli su cui suono in Europa, ed un pubblico che conosceva bene il jazz.
Riguardo alla tua relazione col Brasile, come nacque l’album “Bollani Carioca”?
Nacque per caso, fui consigliato da un amico che mi propose di “gettarmi” nel genere del samba e della bossa nova, stili che io non conoscevo molto bene, così come ignoravo alcune opere dei maggiori artisti brasiliani. Fu una grande esperienza, che nacque nel 2006 durante un festival jazz, e nella quale sono stato accompagnato da una ottima band. Devo dire che anche in quanto a vendite ci siamo ritenuti soddisfatti, abbiamo venduto 40mila copie dell’album in allegato a “L’Espresso”, ed altre 30mila di ristampa.
Parlami di un’altra tua collaborazione, quella con il livornese Bobo Rondelli: come andarono le cose?
Beh, quella fu un’esperienza eccezionale, io ritengo Bobo il più grande animale da palco che l’Italia abbia visto negli ultimi anni. La prima volta che lo vidi fu nel 2000 a Pisa, io rimasi colpito sia dai suoi brani che dal modo in cui affrontava il palco, il pubblico, e forse da quel “colpo di fulmine” nacque la nostra collaborazione, culminata poi con la pubblicazione di “Disperati, Intellettuali, Ubriaconi” nel 2002.
Qual è la situazione attuale della musica in Italia, a tuo parere?
Io, a differenza di molti, non vedo grande crisi musicale. Il pubblico medio si è allargato, tanto che la musica che una volta era considerata di nicchia adesso non lo è più, adesso anche quello che si crede sia destinato ad un pubblico più raffinato, più ristretto, ha vendite che si avvicinano alle opere della musica cosiddetta “commerciale”. Credo che la crisi colpisca più i discografici, in realtà. Poi, riguardo alla musica di nicchia, c’è da dire anche che se un artista fa una musica particolare è egli stesso a porsi dei limiti quasi naturali: non può pretendere di vendere quanto un album pop, orecchiabile e prodotto con il chiaro intento di vendere il più possibile. Io in questo senso credo di essere una mezza eccezione, poiché per la musica che faccio ho un pubblico molto vasto, di cui io stesso mi stupisco.
L’obiettivo di chi si mette a far musica può essere la fama?
No, può esser non fare la fame (ride)...L’obiettivo deve essere quello di fare musica onesta, sincera, e che in primo luogo piaccia a colui che la fa. Poco importa se poi questo porta ad avere un pubblico ristretto, o migliaia di persone che ti adorano; in questo senso non invidio certo i cantanti pop, e la mancanza di riservatezza delle loro vite... Il fatto di esser continuamente riconosciute per strada.
Tu provieni dal jazz: in che cosa, in quanto ad attitudine, il musicista jazz differisce da quello rock, o pop?
Essenzialmente nel fatto che il musicista jazz fa un concerto diverso ogni sera, che ogni esibizione si basa sul rischiare l’improvvisazione. Chi fa jazz non tende alla perfezione, alla riproduzione perfetta di brani contenuti in un disco.
Termini ogni tuo concerto con un medley finale in cui leghi una decina di brani che raccogli dalle voci del pubblico presente: come riesci a farlo, com’è possibile fare qualcosa del genere senza commettere errori?
Non lo so neanche io, credo che sia possibile grazie al tempo che ho dedicato allo studio della musica, alle ore in cui ho suonato. E’ un momento totalmente estemporaneo, come hai detto tu, in cui raccolgo richieste dal pubblico e le suono sul momento, decidendo io la struttura del medley.
Cosa si prova a suonare da soli, senza nessun altro musicista ad accompagnarti? Non senti l’ansia di non poterti permettere il minimo errore?
Vedi, nella musica che io faccio non c’è mai vero errore, essendo quasi tutto improvvisato. Il pubblico non sa mai che cosa sto per fare, non conosce le mie intenzioni, quindi posso permettermi di fare variazioni, di creare particolari dissonanze. Il bello di suonare da solo è che faccio cosa voglio, cosa mi passa per la testa nel momento in cui suono; l’aspetto negativo è però quello per cui se la serata è storta, o io non sono molto ispirato, nessuno è lì a darmi una mano per farmi trovare l’ispirazione. In ogni caso, mi piace variare tra date da solista e tra concerti con una band, giusto per non annoiarmi facendo le stesse cose troppo a lungo.
Articolo del
01/09/2009 -
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