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Abbozzano quadri paesaggistici, aggiungono colori freddi e creano forme epiche. Signore e signori, i Port-royal.
Ripercorriamo la vostra più recente discografia. Guardando la copertina del vostro ultimo album "Dying In Time" (2009) e scrutando i titoli del precedente "Afraid To Dance" (2007) si ripresenta in mente l’immagine di austerità e malinconia che si respira solo a nord est dell’Europa. Il tutto dialoga fedelmente con la struttura sonora delle vostre composizioni. Possiamo definirla ‘estetica da confine’?
Attilio Bruzzone: Brava, hai centrato il punto su cui insistiamo dall’inizio della nostra attività e che pensiamo di aver realizzato pienamente: una musica fluida in perenne movimento, non incasellabile in alcun contenitore stilistico preciso; appunto, una musica da confine (labile) che capisce e parla le lingue di tutti gli altri stati confinanti, in segno di apertura e dialogo proficuo con gli altri generi musicali – fuor di metafora. Quindi possiamo tranquillamente definirla “estetica da confine”.
"Dying In Time" sembrerebbe segnare una transizione rispetto ai precedenti lavori. È un album che grazie ai contributi vocali risulta, forse, più diretto e ‘trasognante’. Vi siete avvalsi ancora una volta di ottime collaborazioni. Tanto per iniziare, Pascal Asselin e Izumi Suzuki sono degli ottimi esempi.
Io direi che rappresenta forse la fine di una trilogia iniziata con “Flares” nel 2005 e proseguita con “Afraid To Dance” nel 2007. Ogni album rappresenta un universo a se stante, ma alla fine – pur nella diversità – si può notare facilmente una complementarità di fondo che rappresenta appunto il marchio di fabbrica del gruppo, la sua spina dorsale: in una parola la sua personalità. Penso sia questo l’elemento più importante per ogni artista: riuscire a cambiare ma allo stesso tempo creare quello che è uno stile ben definito e riconoscibile, insomma la sua personalità, in una sorta di dialettica tra attimo ed eternità, tra movimento perpetuo e stasi. Lo stile è qualcosa che si situa nel mezzo. I collaboratori hanno avuto – a dire il vero – come sempre un ruolo abbastanza marginale, a parte la citata Linda Bjalla che continua, infatti, a lavorare con noi in qualità di collaboratrice fissa. Gli altri hanno prestato la loro voce per qualche pezzo, voce che poi noi abbiamo in parte riarrangiato mentre Pascal è un amico che ha registrato per l’occasione due brevi tracce di synth per due pezzi.
Siete un gruppo che preferisce suonare più all’estero che a casa propria. Casualità, sensazione della sottoscritta, “c’era una volta la Resonant” o è una vostra scelta personale?
La parola “preferire” non è propriamente corretta. Diciamo che ci piace molto suonare all’estero (specialmente in Russia ed in Est-Europa), così come ci piace, però, anche in Italia – ad esempio l’ultimo concerto al Locomotiv di Bologna, il 9 gennaio di quest’anno, è stato bellissimo. In definitiva dipende tutto da molte circostanze, anche imponderabili, quali il posto, l’impianto acustico, il calore del pubblico, il mood generale ecc., quindi è difficile dire che si preferisca suonare tout court all’estero piuttosto che in Italia: sarebbe forse una generalizzazione che non coglie nel segno. Posso però dirti che in Est-Europa/Russia di solito tutte queste circostanze sono soddisfatte in pieno, quindi in questo caso si può parlare di una preferenza, che però rimane in questi termini: Russia/Europa Orientale – resto del mondo! La verità, comunque, è che sin dall’inizio (e ti parlo ormai di quasi una decina di anni fa) preferimmo confrontarci con una dimensione squisitamente internazionale, in quanto capimmo chiaramente che la nostra musica nell’Italia dei primissimi ’00 (oggi le cose sono un po’ cambiate, per fortuna, anche se non in maniera essenziale) non avrebbe avuto molte chances, mentre all’estero – dimensione sicuramente più congeniale alla nostra proposta musicale – potenzialmente poteva avere molta più diffusione ed essere così apprezzata appieno. Pertanto, giunto il momento di spedire i primi demo di quel che poi sarebbe diventato “Flares”, procedemmo a contattare solo e unicamente etichette estere (per la stragrande maggioranza dei casi europee ed americane/canadesi), scommessa che si rivelò vincente dal momento che almeno una mezza dozzina di queste etichette contattate volle pubblicare il disco e molte – che declinarono la nostra proposta – ci fecero comunque i complimenti. Una di queste sei era ovviamente la Resonant. Quindi, alla fine, si può parlare di una scelta personale ma maturata e ispirata da cause ampiamente oggettive. Comunque, l’essere stati scoperti poi in Italia da “stranieri” ha fatto sì che il progetto Port-royal potesse venire apprezzato molto, evitando nel contempo che affogasse nel mare magnum della scena indie nostrana. Quindi posso affermare che la scelta pratico-“sentimentale” (e non ideologica per una sterile esterofilia tipicamente italiana) di puntare sulla dimensione estera sin dal principio si è rivelata vincente.
Ma avete davvero perso le speranze oltre ai capelli? Noi grazie a voi le abbiamo recuperate.
Per fortuna sia le speranze che i capelli non sono ancora persi! “Balding Generation (Losing Hair As We Lose Hope)” è la generazione presente (si pensi a “Men’s Health”, “Vanity Fair” et alia) di quelli che assieme ai capelli perdono anche le speranze (per le donne potremmo parlare di cellulite, ecc.), volendo con questo sottolineare metaforicamente la superficialità della nostra epoca dell’iconomania (come la definiva acutamente G. Anders più di cinquant’anni fa), dove l’immagine e l’apparenza contano più del contenuto e dell’essenza (assieme ai capelli si perdono le speranze rimanendo calvi ontologicamente). Ma parimenti nelle ulteriori strofe della canzone (sì, si canta ma la voce è tenuta volutamente molto bassa) si conclude ottimisticamente dicendo che siamo ancora capaci di osare amare e di innamorarci nonostante la disperazione (i testi dei pezzi di “Dying In Time” sono stati postati sia sul nostro sito che sul MySpace). Quindi blochianamente viene fuori il nucleo utopico positivo proprio dalla negatività disperante. Ovviamente ciò nella canzone non suona così “pesantemente” filosofico pur essendo però questo il messaggio del titolo.
Musicalmente parlando, l’idea che passa di recente è che non è quasi più concesso fare ‘buone cose’. Se copi vinci, se crei no. Nei vostri album, viceversa, si avverte un’autentica urgenza creativa, un costante filo conduttore che salda tutti i vostri lavori. I Port-royal sono onesti e atemporali. Come dire, vi siete abbastanza capiti e sapete dove andare?
Be’, che dire se non innanzitutto “grazie”?!? Purtroppo sono d’accordo con te, anche se spesso si crea anche un ulteriore meccanismo più subdolo e, forse, peggiore di quello di cui parli tu nella domanda. Infatti, a volte si “vince” – parliamo qui della dimensione indie e non mainstream – anche con una finta originalità ostentata ed una presunta novità assoluta che in realtà sono assolutamente povere e insipide. Da un lato oggi si richiede o un’originalità (presunta) assoluta e quindi vuota oppure, dall’altro, un conformismo sterile e inutile (appunto da “copia e incolla”, come notavi). È questa, secondo noi, la dialettica perversa della situazione musicale odierna. Per fortuna non facendo della musica un lavoro, noi, dal canto nostro, abbiamo conservato la libertà di fare davvero quello che vogliamo e quello che ci piace senza scendere a compromessi con nessuna delle due tendenze sopradescritte, per questo tu ci hai gentilmente descritto come “onesti e atemporali”. “Atemporali” anche perché noi abbiamo da sempre puntato ad un’“atemporale”, appunto, equilibrio tra forma e contenuto non spostando il baricentro e le energie unicamente sulla forma, come sembra avvenire nella musica elettronica contemporanea, bensì rivestendo piuttosto un contenuto e una sostanza validi e forti con una forma elastica e dinamica che non trapassa quindi immediatamente non appena sono cambiate le mode. Quindi, sì ci siamo capiti e più o meno sappiamo dove andare anche se per il prossimo disco potremmo fare un bel reset e prendere nuove direzioni, finora inesplorate, pur conservando però il nostro stile e il nostro approccio di fondo alla musica.
Cosa credete sia capitato di fondamentale nell’evoluzione del percorso che vi ha condotto da Flares (2005) a Dying In Time (2009), oltre ovviamente ai passaggi di etichetta?
Inizio col dire che i passaggi d’etichetta non hanno per nulla influito sulle direzioni da noi seguite e sullo sviluppo della nostra musica, i quali si sono dipanati in maniera del tutto naturale e, per così dire, senza influenze esterne. Quel che è capitato di fondamentale nell’evoluzione della nostra musica è piuttosto frutto di un’esigenza interna che era in noi. Quindi non abbiamo fatto altro che trasformare in musica tale esigenza, il tutto molto spontaneamente. Da ciò poi è seguito fondamentalmente tutto il resto...
A febbraio sarà possibile rivedervi nuovamente live in Italia. Tra le prime tappe previste Torino, Reggio Emilia e Roma. E all’estero dove contate di andare e/o ritornare?
Esatto, e comunque altre date italiane sono in programma. All’estero inizieremo a inizio marzo, suonando ad un grosso festival ad Atene (dove ritorniamo per la terza volta), per poi proseguire ad aprile con un bel tour in Ucraina e Russia e forse anche nei Paesi baltici e Bielorussia. Per ora questo è quanto è noto ad oggi. Comunque si sta anche pensando ad un tour americano per la seconda metà dell’anno (ma nulla è stato ancora fissato), e molte altre date europee sono al vaglio.
Altre news che dovremmo sapere? Prossime collaborazioni o miracoli che prevedete di fare nell’anno ‘venti dieci’?
Sì. È prevista a febbraio l’uscita di un EP (“Afterglow”) in vinile per la canadese Sangre D’Ecre: trattasi di 4 pezzi registrati a Genova nel maggio 2008 con il nostro amico Pascal Asselin aka Millimetrik, infatti il progetto si chiama “Port-royal & Millimetrik”. Un’uscita di cui siamo fieri. Inoltre stiamo già registrando nuovi pezzi. Direi che per ora è tutto... e speriamo che qualche miracolo capiti davvero nell’anno “venti dieci”!
Articolo del
20/01/2010 -
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