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Dopo l’ascolto del loro ultimo disco e l’esibizione, infuocata, all’Auditorium Parco della Musica, un téte-a-tete con il non “blues” ultra del “plus”(!) era quello che mi ci voleva per tentare di ca(r)pirne i segreti. Come un “mastino infernale sulle loro tracce” (chi vuol intendere intenda!), faccio di tutto per incontrare il duo. Alla fine la location è Piazza Sempione, fra loschi figuri che si aggirano sinistri per il parchetto, il tutto si materializza trasformandosi in una lunga e illuminante chiacchierata. Adriano e Cesare si concedono con calma a tutte le domande, aprendo lo scrigno dei loro segreti, mentre una volta azzannati affondi gli incisivi per saperne sempre di più. Ecco il resoconto di questo incontro, in un crocevia romano, fra me, Adriano, Cesare e una strana forma, dal forte odore di zolfo, che aleggiava intorno a noi.
Potreste descrivere le vostre rispettive formazioni musicali prima del vostro fatidico incontro?
Adriano (chitarra/voce): Prima di formare questo gruppo ho suonato in diverse realtà della musica italiana, pop/punk/rock, cercando di suonare ovunque. Fare moltissime esperienze musicali era una mia necessità, dovermi confrontare con gli svariati aspetti della musica. Avevo delle mie band con pezzi originali fino a 27, poi ho conosciuto Cesare e abbiamo deciso di iniziare a provare insieme. I nomi delle band con cui ho suonato, e con cui ho suono tuttora, sono Raffa e The Niro, poi con molte altre che magari non sono riuscite a venire fuori per vari motivi.
Cesare (Batteria): Io ho iniziato come tutti dalle classiche cover band, soprattutto grunge, anche perché gli anni novanta. Avevo un background molto seventies, legato ai power-trio, alla Cream, suonavamo più che altro questo genere. Poi, dopo essermi trasferito dalla Puglia, intorno al 2000 ho iniziato a collaborare con cantautori, parallelamente con gruppi rock, mischiando i pop e il rock, che se ci fai caso è ciò che vieni fuori nei B.S.B.E. Collaboro tutt’ora con Valentina Lupi, cantautrice romana, e Poppy’s Portrait, una band più alternativa/underground.
Come vi siete conosciuti?
C. Ci conosciamo da un po’ di tempo, anche perché suonando a Roma ci si conosce un po’ tutti. Una sera stavamo suonando all’Alpheus con due gruppi diversi e abbiamo deciso di fare questo progetto.
Che sensazione si prova a passare dall’anonimato ad una buona visibilità?
A.: È affascinante andare a suonare nei posti più assurdi d’Italia e trovare sempre qualcuno che ti riconosce, anzi qualcuno che sa chi sei. Tutto questo è gratificante, che il cd stia in tanti negozietti, piuttosto che nei centri commerciali, è bello sapere che il lavoro fatto in sala prove, puro, cosi come abbiamo registrato noi, possa essere ascoltato da tutti. È una cosa che ci gratifica entrambi immensamente, un’esperienza impagabile.
C. Pensare che qualcuno spenda soldi per noi, per il nostro lavoro, anche se sembra scontato detto cosi, è bello che la gente apprezzi ciò che facciamo. Allo stesso modo è bello sapere che c’è gente che decide di venire ai nostri concerti, che si organizza in comitiva, pagando un biglietto anche di dieci euro. Non sottovalutiamo questo aspetto, per noi è importante, non è affatto scontato.
Cesare hai un drumming elastico e corposo, variegato, chi sono i tuoi punti di riferimento?
C. Il mio drumming è legato al groove di Bonahm (John) che è alla base di tutto, della batteria rock moderna ma, rimanendo nel passato, mi piace allargare i miei orizzonti, muovermi sul “colore”, ascoltare Ginger Baker o Keith Moon. Dei nuovi batteristi in assoluto cito John Freese, ma anche la scena che viene dal gospel, dalle chiese di Los Angeles, Thomas Pridgen. Tutti questi batteristi sono tecnicamente ineccepibili e perfetti, allo stesso tempo ci mettono un cuore pazzesco, perché vengono dalla strada. Quello che succedeva a cavallo fra gli anni ottanta/novanta, i vari Dave Wackel, non mi piace, si era arrivati alla drum-machine asettica e precisa, di quel periodo solo Steve Gadd e Vinnie Colaiuta, però quelli che ho citato prima hanno riportato il cuore. Suonare la batteria è una cosa che viene da dentro.
Adriano nel tuo rifferama si sentono echi di Jack White e Johnny Winter, aggiungi tu altri nomi?
A. Mah, direi Ry Cooder, Nuno Bettencourt, Mark Ribot, i chitarristi dei Sonic Youth (Moore /Ranaldo), Page Hamilton degli Helmet.
Quali sono i gruppi del passato che ascoltate, quanto influenzano il vostro modo di comporre?
A. Sono assolutamente influenzato da tutto ciò che ho ascoltato nel passato, anche in piccole porzioni. Al liceo ascoltavo dai Nirvana agli Ac/Dc, il pop italiano, il blues, magari studiavo il modo di scrivere canzoni di queste band. All’inizio mi sono ritrovato a fare un collage, piccoli tentativi di trovare una formula “originale”, poi alla fine mi sono accorto che potevano uscire cose mie, al di la del puzzle. Inevitabilmente sono influenzato da tutto questo, anche la voce, per esempio, influenza il mio modo di scrivere e cantare, Elliot Smith è fondamentale per il mio canto, e nella mia esistenza (risate).
C. Ripetimi la domanda che è passato del tempo!! (Risate) Anche io ascoltavo di tutto, da piccolo andavo a vedere concerti di Jovanotti, perché ero malato di iper funk, ma non mollavo i Nirvana o i Pearl Jam. Tutto questo viene fuori quando sei in sala. Essendo un duo la composizione è totalmente diversa. Ti ritrovi a colmare delle frequenze mancanti, nel mio caso non è solo la scelta dal tipo di pelli per ottenere dei suoni, ma il songwriting è totalmente diverso. È in continua evoluzione, più il tempo passa più tendiamo a uniformarci, quello che viene fuori è come una palla di suono infuocata. Risentivo, pochi giorni fa, alcune prove fatta agli inizi, si sentivano chitarra e batteria ben distinte. Ora è un’amalgama.
Delle band odierne cosa ascoltate?
C. Per quel che mi riguarda mi piace l’evoluzione dei Queens Of The Stone Age, amo il sound degli ultimi due dischi mi piacerebbe andare in quella direzione, ma anche i Nine Inch Nails per essere proprio tosti. D’altra parte mi piacciono i Wilco, perché partono da basi iper-folk ma all’interno del brano hanno una continua evoluzione.
A. Sono d’accordo con Cesare, anche se non ho molti nomi nuovi da darti, però mi piace tutto ciò che fa Jack White.
Lavorereste con una major, a quali condizioni?
A. In realtà abbiamo un’etichetta con la quale lavoriamo molto bene, potenzialmente potremmo lavorare con una major. La major aiuta, o per meglio dire dovrebbe aiutare una band a costruire i propri sogni. Credo che in questo momento storico le major impongano meno condizioni alle band, mi sembra un periodo molto artistico, si vendono pochi dischi ma si sperimenta di più e liberamente. Gli artisti sono più disinibiti, anche sotto contratto con una major. Il problema delle major è che non prendono tutti i gruppi sotto la loro ala “protettrice”.
C. Se riuscissimo a fare ciò che ci piace e l’identità della nostra musica rimarrebbe inviolata, allora sì, ben venga anche un lavoro per una major.
L’esperienza live per una band come la vostra è fondamentale, per quanto libero sia registrare in presa diretta, lo studio ha il limite di imprigionare l’energia, quanto vi aiuta invece il live per trarre nuova linfa?
C. Il nostro è un gruppo prettamente live, nel disco ci sono anche pezzi lenti che non eseguiamo live. Dal vivo spingiamo molto, facciamo 4/5 pezzi del cd, gli altri sono dei brani che stanno usciranno sul prossimo disco, altri ancora stanno sul nostro primo lavoro, autoprodotto e iper low-fi. Tutte vengono rivisitate, anche le cover, fondamentalmente noi basiamo tutto sul live. Ci piacerebbe, nel nuovo lavoro, dare un impatto live maggiore, non ti nascondiamo che è una molto difficile, perché nel live hai anche l’impatto visivo che su disco manca. Stiamo cercando di capire come fare, ottenere un giusto compromesso. Sicuramente in questo periodo di intensa attività live molti pezzi nuovi nascono da code dell’improvvisazione che poi vengono riprese in studio.
A. Non vorrei incartarmi in un discorso contorto. Devo dire che onestamente ho un po’ paura per il prossimo disco. Ho sempre diviso l’aspetto live dallo studio di registrazione. Sul disco riesci a tirar fuori sonorità e mondi particolari, grazie all’ausilio della registrazione stessa, mentre vedo l’esperienza live come qualcosa di terapeutico. La vivo in modo catartico, chiudo gli occhi e lascio sfogare tutto ciò che sento, ciò che sono, finora l’ho sempre vissuta cosi. Da quando invece ci siamo l’obiettivo di riportare su disco quello che succede dal vivo sto cambiando la prospettiva. Questa è una cosa di cui sono felice, è una nuova meta, una sfida da vincere. D’altro canto sono timoroso perché la magia del live te la porti a casa quando finisce il concerto, è difficile percepirla su cd. Il concerto è bello perché è un’esperienza visiva, fisica, sei vicino alla gente, si crea un feeling speciale. Credo sia complicato imprigionare tutto su cd, si rischia di perdere la magia, per cui c’è bisogno di un lavoro certosino. Tornando alla tua domanda, si prendo tutto ciò che c’è di buono, tendo ad annotarlo, se è figo, e riprenderlo in studio.
Come avete affrontato il Primo Maggio e i cori odiosi su Vasco? Forse sono stati quelli che ti hanno fatto partire con un fiume di wah wah?
A. Beh il Primo Maggio è stata un’esperienza incredibile, una volta arrivati sul palco abbiamo chiuso gli occhi e fatto ciò che ci veniva. Da li è iniziata la nostra vera carriera. Fino al giorno prima non potevamo immaginare di suonare davanti a tanta gente. Stavamo solo partecipando al concorso Primo Maggio tutto l’anno, non sapevamo nulla finché non ci hanno detto che eravamo passati e avremmo suonato. L’abbiamo vissuta con qualche apprensione, la performance, di 12 minuti, è passata in un secondo invece, tutto il resto è stato bellissimo. Abbiamo avuto l’opportunità di ricevere tanti feedback positivi, di farci conoscere. C’era la gente che voleva sentire il rock e noi quello facevamo.
C. Non hai molta percezione di cosa dice la gente (su Vasco) a causa del volume degli ampi, poi rivedendo su Youtube abbiamo realizzato che la nostra esibizione è stata abbastanza apprezzata, magari di più rispetto altre cose più acustiche. Se ci pensi le nostre sono state anche le prime note, quindi chi era li dalla mattina, o addirittura dal giorno prima, era contento che il concerto fosse iniziato, poi forse, andando più avanti, richiedevano più Vasco.
Come avete deciso di eseguire la cover “Hey Boy Hey Girl” dei Chemical Brothers?
A. In sala prove stavamo giocando con quel riff di chitarra e, non so, ad un certo punto ho cantato il ritornello di Hey Boy Hey Girl e tutto è venuto naturale, ciò che sentite su disco è la prima take, in one shot diciamo (risate).
Cosa ne pensate del nuovo modo di veicolare la musica oggi, e dei tentativi, mal riusciti, di imbavagliare la rete, che rapporti avete con quest’ultima?
C. Noi dobbiamo tanto a Internet, sia perche il nostro nome ha fatto il giro su Internet grazie a Myspace, Youtube e ora al nuovo fenomeno Facebook. Allo stesso tempo l’attività live, che adesso è gestita dalla Dna Concerti e prima da un nostro amico che aveva un piccolo booking, è cresciuta attraverso Myspace. Se non ci fossero stati questi mezzi, sicuramente non saremmo riusciti a suonare fuori Roma un mese dopo aver iniziato. Siamo riusciti a suonare per l’Heineken Jam Festival da una selezione fatta tramite la rete. Dobbiamo ringraziare sempre il web. Si, è vero tentano in tutti i modi di imbavagliare la rete ma, rispetto alla carta stampa non c’è paragone. Purtroppo dobbiamo fare un discorso sul meno peggio. Per alcuni versi sei più censurato ma in rete spuntano, ogni giorno, canali alternativi, il tutto sta nel tenersi sempre aggiornati, conoscere il web e capire, secondo la tua politica di musicista, quale strada prendere.
A. Sono d’accordo con Cesare, la rete è il futuro, anche nella distribuzione. Spero che si trovi una soluzione pratica nella vendita della musica su Internet, e la consacrazione del negozio in Internet. Il fattore download è una questione di cultura, di educazione. In America ce n’è molto di meno, credo, che in Italia, Qui è più selvaggio, ci vorrebbe un po’ di senso civico, mi auguro che si ottenga un senso di civiltà.
C. Perché le cose si muovano in Italia ci vogliono sempre quei 10/15 anni di differenza rispetto al resto del mondo.
Il nome della band (risate) da dove viene fuori?
C. Ci hai fregati, questa di solito è la prima domanda. Il nome nasce quella famosa sera all’Alpheus (interviene Adriano: non all’Alpheus ma al Jailbreak!!), Adriano aveva proposto di fare un gruppo di due elementi, chitarra e batteria, lui voleva un nome lungo per un gruppo “corto”, tipo Jon Spencer Blues Explosion, allora un amico che era li ci ha suggerito Bud Spencer Blues Explosion. Non ha per niente senso come cosa se ci pensi. Abbiamo iniziato a girare con questo nome, ci siamo affezionati, la gente lo ricordava e l’abbiamo tenuto. Anche se ci sono delle interpretazioni più profonde a riguardo. Alcuni critici hanno pensato che dal punto di vista musicale, siccome ci riferiamo a Jon Spencer ma diversamente da loro ci manca il basso, poteva essere un omaggio alla band. Altri hanno pensato al genere spaghetti western alla Bud Spencer, secondo loro noi interpretiamo il blues americano in chiave italiana e da lì la genesi del nome. Figa come cosa! (Risate)
Parliamo della genesi di “Frigido”?
A. Musicalmente è semplice un riff di chitarra blues-rock, con un giro armonico di chitarra molto semplice e d’impatto, ideato per essere suonato dal vivo. Il testo voleva parlare di alcuni momenti da cui sono stato preso, volevo far capire e scrivere di questo mio stato di uomo appeso ad una molletta.
Componete sempre in due o portate idee singolarmente in studio?
Sempre insieme.
I riferimenti al blues sono tanti da Hendrix a R.L. Burnside, che ha anche collaborato con J. Spencer, altri nomi nascosti?
A. Io amo Ry Cooder, Blind Willie Johnson, Robert Johnson.
Alcuni brani, come le ballate, sembrano figli illeciti di questo disco, come mai sono finite li dentro?
A. Il disco è il frutto di 15 anni di esperienze di vita per cui, alla fine, abbiamo messo anche cose che erano in contrasto con il nostro genere musicale, se ci pensi è stata come un’archiviazione del passato.
C. Il nostro primo disco lo immaginavamo cosi, con influenze che vanno dagli Helmet ai White Stripes, piuttosto che al grunge o Elliot Smith o i Beatles.
“Qualsiasi Qualunque” sembra avere una veste quasi psichedelica, qualcosa dei Pink Floyd...
C. I Pink Floyd io non ce li vedo, magari mandami il brano a cui ti riferisci e vediamo se hai ragione tu (risate). In realtà se pensi che ci rifacciamo al blues, quello del Delta, e all’hard-rock anche la psichedelia è una componente che, in qualche modo, può avere influenzato il tutto.
Nel primo brano, “Mi sento come se” sembra di sentire gli Zeppelin di “Celebration Day”...
A. (Adriano ride lusingato) Caspita questo è bello, i Led Zeppelin sono fondamentali per le nostre vite musicali, perché comunque sono un gruppo magico e fantastico. L’incastro che c’era fra Page e Bonham è una cosa che mi ha sempre affascinato, perché hanno un modo magico di suonare assieme. Sicuramente l’ascolto dei Led Zeppelin ha influenzato il brano, anche se, per quanto mi riguarda, nello specifico Dallas di Johnny Winter è stata l’ispiratrice di Mi sento come se.
Cosa ne pensate di Black Keys e di Dan Auerbach come solista?
A. Loro ci piacciono tantissimo, sono una band super onesta, sincera, questo revival dei suoni è figo. Il disco di Dan è molto poliedrico, non è solamente blues sporco, ci sono anche ballads e pezzi struggenti. È bello anche il disco del batterista dei Black Keys che suona nei Drummer, dove 4 batteristi suonano strumenti diversi, simile ai Flaming Lips.
Una collaborazione per cui fareste carte false?
C. Possiamo esagerare? Vorrei lavorare con Josh Homme o allo stesso modo con Jack White, con loro in studio ci sarebbe da imparare moltissimo.
A. Jimi Hendrix si può? (risate) Vorrei vedere come lavora in studio John Brion, è un produttore che mi piace molto.
“Fanno meglio quelli che non ci credono”, voi in cosa credete?
A. Noi crediamo che per far meglio ci devi credere (risate), però per far meglio bisogna anche che ti togli la corazza, quella spocchia e presunzione che ti mette su un piedistallo, quindi scendere con i piedi per terra, evitare di credere di essere arrivato da qualche parte. Meglio ripartire dal basso e costruire qualcosa.
Cosa leggete?
A. L’ultimo libro che ho letto è stato “Il Nuotatore” di Cheever (John).
C. Io leggo solo biografie della storia del rock, per capire da dove nasce tutto. Adesso sto leggendo quella di Iggy (Pop) per cercare di comprendere quella mente malata (risate).
Film?
A. L’ultimo film è stato Across The Universe, ma non ce l’ho fatta ad arrivare alla fine!!
C. Ho visto un film che non mi è piaciuto, An Education.
Se vi va potreste vedere ”Cadillac Records”, film sulla Chess Records che narra la storia del blues e dell’etichetta passando per Muddy Waters, Etta James, Howlin’ Wolf e Willie Dixon, l’uomo che ha citato moltissimi gruppi bianchi, fra cui i Led Zeppelin, vincendo la causa milionaria per i diritti d’autore di “Whole Lotta Love” e molte altre. (Adriano mi guarda come se gli avessi dato la notizia del secolo e scoppiamo tutti e tre a ridere). Mai ascoltato i 22-20’s o T-Model Ford? Magari potresti invitare i primi in studio e fare una cosa a quattro.
A. Non conosciamo i primi, ma i secondi si.
C. Magari sarebbe figo, anche se una cosa a quattro, detta cosi, può sembrare altro. (risate)
In termini di tempo ed energia quanto vi è costato registrare l’album?
A. Due mesi di registrazione, un paio di session a settimana e poi il missaggio.
Avevate già idee chiare o ci avete lavorato in studio?
A. Avevamo fatto un buon lavoro di pre-produzione e anche mentalmente avevamo una meta precisa. Sì, due mesi più o meno.
Avete mai pensato di aggiungere un basso, anche temporaneamente?
A. Sul disco ci sono linee di basso ma non abbiamo mai pensato di aggiungere nessuno.
C. Ci è capitato di fare collaborazioni con Saturnino (Jovanotti), è stato un onore, con Dellera (Afterhours), però sono state collaborazioni sporadiche.
Ultima, originalissima domanda, a quando la mia proclamazione come presidente onorario del vostro fan club?
C. Cazzo non abbiamo una spada!! (Risate di gruppo mentre Adriano cerca la spada per la consacrazione definitiva) Grazie ragazzi!
A. Grazie Giuseppe per le belle domande
C. E per i complimenti, a presto!!
(La foto dei BSBE è di Ilaria Magliocchetti)
Articolo del
17/03/2010 -
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