A fine anni ’90 uscì in Italia uno strano disco tributo, “The Different You”, in cui artisti come Franco Battiato, Jovanotti, Morgan, Area, Mauro Pagani, Marlene Kuntz, CSI, Max Gazzé, Almamegretta, La Crus, Giancarlo Onorato, Madaski, Cristina Donà, Andrea Chimenti, Umberto Palazzo, Giorgio Canali e altri omaggiavano Robert Wyatt, dalle nostre parti, ahimè, un perfetto sconosciuto per i più. La compilation non fu memorabile, men che meno il contributo dello stesso Wyatt che interpretava “Del mondo” dei CSI per ricambiare il favore (l’etichetta che pubblicava il disco era la loro CPI). Memorabile e degno dei più grandi altari è invece l’opera musicale di Wyatt: e ben venga questa dettagliata biografia autorizzata scritta da Marcus O’ Dair, giovane ma autorevolissimo giornalista musicale di The Guardian, Uncut e Pitchfork, nonché docente di Musica popolare alla Middlesex University di Londra. Wyatt, diciamolo subito per chi non lo conoscesse, è un musicista tra i più importanti di quella generazione cresciuta nei dintorni di Canterbury (anche se ha sempre rifiutato l’affiliazione al Canterbury Sound, sottogenere del prog), mischiando jazz, pop, (poco) blues e (poco) rock. Nato come batterista dei Soft Machine, band di jazz rock psichedelico che per un breve periodo nella seconda metà dei Sixties fu l’unica avversaria credibile dei Pink Floyd al trono di re della psichedelia inglese, si è costruito poi una carriera solista che, sempre nel segno di un personalissimo e riconoscibilissimo stile, lo ha portato a vagare nei mondi sonori più imprevedibili, dal pop della strepitosa cover di “I’m a Believer” che nel 1974 fu il primo 45 giri della Virgin Records a centrare la Top 30, agli spagnolismi che fanno capolino in “Dondestan”. Il libro è documentatissimo e si divide in due parti, un po’ come il “Canzoniere” di Petrarca: il “Lato uno. Il bipede batterista” e il “Lato due. Ex machina”. Già, perché, sempre per chi non lo sapesse, negli anni folli con i Soft Machine Wyatt sviluppò una tendenza all’alcolismo risolta solo in tempi recenti, ma che il primo giugno 1973 gli procurò una caduta dal terzo piano, durante una festa: paralisi, dalla vita in giù; fine della carriera di batterista; inizio della seconda vita di musicista. Tra il lato uno e quello due corrono molte istantanee di una vita comunque eccezionale: gli anni della formazione in una famiglia sghemba ma eccezionalmente stimolante dal punto di vista culturale; l’amicizia con Daevid Allen, poi fondatore dei Gong; la fondazione dei Soft Machine; il tour folle con Jimi Hendrix in America; la rivalità/amicizia con i Pink Floyd; il primo matrimonio, con figlio, fallito; il secondo con l’attrice e artista Alfreda Benge; il soggiorno a Venezia durante la lavorazione del thriller “A Venezia… un dicembre rosso shocking” di Nicolas Roeg (quello di “L’uomo che cadde sulla Terra” con Bowie e di “Sadismo” con Mick Jagger); la creazione dei Matching Mole; l’impegno politico nel Partito Comunista Inglese, stalinista; le depressioni ricorrenti; l’alcolismo, come già detto. E poi i dischi, tra i quali capolavori assoluti come il primo dei Matching Mole e il solista “Rock Bottom”; e le mille collaborazioni, tra cui quelle con nomi di peso come Jimi Hendrix, Nick Mason, Brian Eno, Paul Weller, Kevin Ayers, Scritti Politti, David Byrne, Ultramarine, Hot Chip, David Gilmour… “Different Every Time” , poi, ha dalla sua uno stile sempre avvincente e mai noioso, una capacità di descrivere le scelte umane quelle artistiche di Wyatt poco comune. Insomma, il libro costicchia, ma è senz’altro un ottimo investimento tanto per l’appassionato quanto per il neofita, vista la miniera di informazioni (comprese discografia, videografia e sitografia) che stimolano all’ascolto e alla scoperta. Consigliatissimo.
Articolo del
27/01/2016 -
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