Uscito appena l’anno scorso negli Usa come "Dylan – disc by disc", arriva con titolo fedele all’originale questo imponente lavoro di Jon Bream, già autore di biografie dei Led Zeppelin, Neil Diamond e Prince. Stavolta l’idea di Bream, del Minnesota come Dylan, è un po’ diversa: un libro sull’uomo che ha cambiato il modo di scrivere testi del rock fatto di confronti tra due esperti dylaniani, vuoi perché giornalisti e saggisti, vuoi perché musicisti ispirati da lui, vuoi perché suoi collaboratori in passato, che dibattono di ogni suo album, dai capolavori immortali come Blonde on blonde alle ciofeche conclamate come Dylan o Down in the Groove. L’idea è ottima: l’incontro di punti di vista differenti a volte diventa scontro, ma sempre fecondo; l’analisi degli album cristiani fatta da un ebreo e un cristiano porta alla luce inaspettate influenze delle due diverse teologie sui testi dei dischi suddetti; si scopre che album unanimemente considerati poco riusciti sono invece stati motore di grande ispirazione per alcuni artisti, come è accaduto a Wesley Stace (cantautore noto come John Wesley Harding, guarda un po’) e a Ahmir “Questlove” Thomson, batterista di The Roots, nonché produttore di importanti lavori di Elvis Costello e Amy Winehouse. Tutti motivi per cui la lettura del libro è consigliata e interessante per ogni dylaniano. Attenzione, però: se la lettura è consigliata, non lo è l’acquisto, se non in originale (la versione Usa del libro) o in presenza di redditi davvero elevati che permettono di scialacquare 23 preziosi euro. Difatti la versione italiana del libro, benché molto curata sotto l’aspetto grafico, non lo è altrettanto sotto quello della traduzione, a cura di Alessandra Rozzi. Spiace dirlo, ma in una recensione che voglia essere onesta e al servizio del lettore come hanno sempre cercato di esserlo le mie, bisogna farlo: questa traduzione spesso è imbarazzante e, man mano che prosegue nella lettura, affatica e indispone. Non basta una abissale ignoranza dei termini più elementari relativi alla musica, che in un libro di musica è peccato mortale: “line” viene tradotto come “riga” e non come “verso”; il “chorus” qui diventa un “coro” e non, come invece è, un “ritornello”; la strofa viene sempre chiamata “verso”; “fingerpicking”, che è una particolare tecnica chitarristica che prevede un’alternanza di note basse e alte come nel ragtime, viene tradotto letteralmente con “pizzicato”, termine che in italiano si riferisce ad altra tecnica, ma propria del violino, e che è noto per far venire l’itterizia a ogni chitarrista quando la si riferisce a qualsiasi tipo di arpeggio. Si ignorano anche i fondamenti più elementari dello stardom del rock, dato che a p. 168 si afferma che “gli Slash avrebbero fatto un disco di Bob Dylan”: ovviamente non si tratta di un nuovo gruppo, ma di Slash, il famosissimo chitarrista dei Guns’ N’Roses, che ha partecipato all’incisione di “Under a Blood Red Sky” (1990). Ma poi ci sono le traduzioni talmente approssimative da far pensare che l’autrice faccia le medie: come quando si dice, nella didascalia della foto a p.127, che “Dylan era raggelato”, ma, dato che appare con in testa un berretto di lana e sorride divertito, è chiaro che la traduzione giusta era “congelato / gelato / infreddolito”; o quando si traduce un verso come “are you thinking for yourself or are you in with the pack?” con un esilarante “pensi per te o stai correndo col peso” invece di un corretto “pensi con la tua testa o fai parte del gregge?”; a p. 198 si scopre l’esistenza di un “suono vocale”, che invece ovviamente è un banale “suono della voce”; a p. 197 si dice che Dylan “canta in modo significante”, invece che “in modo significativo”; a p. 143 si legge di un insegnante che “tiene classi”, invece che “tiene corsi”. Il vertice si tocca a p. 164, dove si legge questo dialogo surreale: - “Somebody out there is beating a dead horse” (“Qualcuno là fuori sta picchiando un cavallo morto”). Tendo a interpretare questo verso come lui che picchia il cavallo morto, un ricordo che lascia perplessi, e la situazione in cui si trova è la stessa alla quale torna sempre. Credo sia auto rivelatorio. - Potrei anche interpretarlo come il suo commento di fronte a chi cerca di analizzare ogni verso del suo lavoro. Per lui, è come se si trattasse di un cavallo morto. Ionesco, il drammaturgo romeno inventore del Teatro dell’assurdo, sarebbe compiaciuto. Peccato che una semplice ricerca su Google (tempo 0, 64 secondi, quindi neanche 1 secondo) riveli che “to beat a dead horse” sia un’espressione idiomatica americana per dire “darsi tanto da fare per non ottenere nulla”, “non cavare un ragno dal buco”. Un libro tradotto in questa maniera non è solo faticoso da leggere: rivela anche poco rispetto del lettore, che, prima di essere tale, è acquirente. Io ho esposto dei dati. Ognuno si faccia la sua idea.
Articolo del
05/04/2016 -
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