“Due anni di lavoro in giro per tutta Italia, più di 80 intervistati, un libro di 496 pagine, un documentario di 132 minuti”: riassume così “Black Hole”, giustamente, punkadeka.it. Come recita la seconda di copertina, questa è sì “un'opera titanica” (e “indispensabile”, aggiunge la solita Punkadeka), ma anche – occorre dirlo – un'occasione mancata. Entrambe le cose, a mio avviso sono vere. Vediamo perché. I dati citati in apertura danno già l'idea della titanicità dell'opera, nata dall'esigenza dell'autore, classe 1985, palermitano che la vita ha portato a Milano, ex componente di band come Values Intact (straight edge hardcore), Whales' Island e Onoda (entrambe punk), di radunare la propria esperienza di vita, facendo in modo che non andasse persa. Da un'iniziale progetto di diario autobiografico, in cui erano previste comunque testimonianze di personaggi importanti per la scena underground (non indie!), l'opera si è via via allargata fino ad essere una rassegna delle varie componenti del panorama sotterraneo: non solo punk, hardcore, oi! e hip hop, quindi, ma anche etichette indipendenti, fanzine e webzine, videoproduzioni, writers, graffitti, tatuaggi, centri sociali, festival musicali, spazi occupati, radio libere, negozi di dischi, distribuzioni discografiche, agenzie concerti, scelte di vita come veganesimo e ambientalismo. Evidente quindi che di titanicità non si parla a sproposito. Il grande pregio del saggio sta nella messe di testimonianze che sono offerte, raggruppate nelle categorie “Tempo”, “Spazi”, “Rumore”, “Parola”, “Dietro le quinte”, “Scelte”. Un materiale imponente, che sarà certo utile a chi in futuro vorrà studiare i fenomeni catalogati come underground non solo in base al presente o ai reperti del passato (fanzine, copertine, manifesti). Ma in questo grande pregio sta anche il grande difetto del libro: il materiale è suddiviso a grandi temi, come detto, ma su di esso non è stata operata nessuna selezione significativa. Le testimonianze offerte ripetono più o meno tutte le stesse cose, generando un effetto noia molto più evidente del documentario in dvd (1 ora e 32 minuti) di quanto già non lo sa nel libro: un lavoro di scrematura avrebbe permesso senz'altro di ridurre le quasi 500 pagine a circa un quinto, dando nel contempo un senso, un'interpretazione al materiale raccolto, rendendo pure il tutto molto più avvincente. È un difetto di cui lo stesso Turi Messineo è cosciente, dato che ha voluto sottotitolare il proprio lavoro “Uno sguardo sull'underground italiano”: e cioè questo è quanto lui vede o ha visto. Non pretende né di essere tutto quello che c'è da sapere, ma soprattutto non è un ritratto di quel mondo, perché un ritratto presuppone una volontà ordinatrice e razionale che è stata in buona parte evitata. Entro questi limiti, il lavoro ha un suo valore, come dicevo prima. Ci sono però altri difetti. Alcuni sono ideologici. Checché ne possano pensare gli intervistati, è esistito ed esiste anche un underground di estrema destra, che non viene toccato. È ovvio che, essendo impegnato e noto nel mondo dei centri sociali, Messineo avrebbe incontrato delle difficoltà per la sua salute ad intervistare esponenti di Casa Pound o dell'oi! neofascista, e quindi questa è una mancanza perdonabile. Ma, oltre a questo, il suo è appunto uno sguardo sull'underground e non quello di uno storico, che mette da parte le proprie convinzioni politiche per studiare la realtà, ma quello di una persona ideologicamente coinvolta. Infatti Messineo si pone il problema dell'esistenza di un underground di estrema destra in un paio di occasioni, ma lo risolve (ideologicamente) negando la patente di “vero” underground alla destra estrema, mentre la questione non è la “verità” dell'underground, ma la convinzione di chi lo agita e abita di essere underground. Quindi, dal punto di vista dello storico dei fenomeni culturali, non è importante chi tra estrema destra ed estrema sinistra sia il vero antagonista del sistema, ma la convinzione di esserlo di entrambe. Altro punto in cui l'impostazione ideologica appare come un difetto è quando, a p. 16, Messineo identifica nei quartieri poveri e nelle classi sociali meno abbienti i luoghi e i soggetti che danno vita all'underground, dicendo che ciò è meno possibile per un borghese delle zone alte. In realtà questo non è vero, specialmente in tempi come questi in cui la coscienza di classe ce l'hanno solo i finanzieri e i proprietari delle multinazionali: è molto più facile, anche solo per ribellismo generazionale, che siano i giovani dei quartieri alti a darsi all'underground. E più di un'intervista sembra confermarlo (“Io vengo dalla classe media”; “I miei stavano bene”, ecc. Ovviamente cito a senso). Grossolani errori e lacune costellano poi la ricostruzione storica, seppure per sommi capi, della storia dell'underground pre-1977: per correggerne qualcuna, i beat vennero prima degli hippies; “Mondo Beat” nasce a Milano nel 1966 e non a metà degli anni 70. Manca poi totalmente la considerazione del periodo in cui l'underground e la controcultura divennero fenomeno generazionale e quindi di massa (sostanzialmente gli anni tra 1965 e 1974); nessun accenno al fenomeno dei festival pop (ma voleva dire prog e rock) italiani, quasi tutti sotto l'egida dell'estrema sinistra; quasi non si parla del circuito politico costituito dai circoli Ottobre di Lotta Continua; ecc. In definitiva, un libro prezioso per la documentazione che offre, ma consigliato solo a studiosi e superfans dei centri sociali.
Articolo del
30/06/2016 -
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