La Norvegia letteraria non è solo gialli e Jo Nesbø. A Iperborea lo sanno bene, devoti come sono da sempre alle letterature scandinave. E questo bel romanzo a tema musicale di Levi Henriksen ci viene in soccorso dopo il tedio provato dalla sfilacciata versione cinematografica di “L'uomo di neve” dell'incolpevole Nesbø, dimostrandoci che c'è vita in Norvegia.
Romanzo del 2014, questo di Henriksen in orginale non si intitolava “Norwegian Blues”: Iperborea gioca un po' sul riferimento o sulla confusione con “Norwegian Wood” del giapponese Haruki Murakami, il Di Caprio del Nobel per la letteratura, e forse per questo anche la bella inllustrazione di copertina è di un giapponese, Ryo Takemasa.
Ma il gioco ci sta tutto, a parte le considerazioni commerciali (l'editore Vram di Trieste nel 1892 costrinse Italo Svevo a cambiare titolo al suo “Un inetto” in favore di “Una vita”, come il romanzo del 1883 di Maupassant, che andava ancora alla grande...), per le caratteristiche peculiari della trama di questo romanzo, originariamente intitolato “Harpesang”, ovvero “Canto d'arpa”.
Certo, un titolo del genere avrebbe fatto pensare a chissà quale ottocentesca storia d'amore e musica classica: invece qui il blues ci sta tutto. Tutto parte da una colossale sbronza che Jim Gystad, quarantenne produttore discografico di Oslo particolarmente votato al blues e deluso da un mestiere sempre più plastificato, da un successo sempre più sfuggente e dalla sgradevole sensazione di non riuscire più a divertirsi e a provare meraviglia nel proprio lavoro.
Solo che la mattina dopo deve presenziare al battesimo del figlio di un amico. Qui, tra i postumi tragici della sbronza, sente cantare un trio di ottantentenni, i fratelli Thorsen, Maria, Timoteus e Tulla, che con i loro canti di chiesa gli aprono, almeno musicalmente le porte del Paradiso. Gystad cercherà di contattarli, ma i vecchietti si dimostreranno particolarmente testardi, diffidenti e scostanti, specie Timoteus.
Gysyad non demorderà. Lasciato temporaneamente il lavoro, si reinventerà un nuovo, semplice e banale lavoro a Kongsvinger (località realmente esistente, a meno di 100 km. da Oslo, verso il confine svedese). Scoprirà così che nel passato dei Thorsen c'è un enorme successo che li ha portati a compiere un lungo ed esaltante tour in America, nei lontani anni 60. Quando finalmente riuscirà a stabilire un rapporto con loro, involontariamente metterà in moto tutta una serie di dinamiche dagli sviluppi imprevedibili, che finiranno per rimettere in moto tante vite.
Norwegian Blues, quindi, non è un romanzo sulla musica, anche se la musica, quella sacra della Chiesa Pentacostale, che pare molto vicina al blues, al gospel e al country americani di matrice religiosa (beh, ovvio che il gospel sia di matrice religiosa...), ha ovviamente un ruolo centrale nel racconto. È invece un romanzo sulla vita, sul non perdere le speranze, sulla luce che ci attende per sorprenderci quando il tunnel che stiamo attraversando si è fatto più buio che mai, sul ritrovare il senso delle cose per cui vale la pena di vivere. E sulla bellezza. Della vita, degli amori, della musica, delle convinzioni più profonde e dei valori da non svendere, ma in cui non rinchiudersi come in una piazzaforte: da tenere invece come luogo da cui sorridere al vento della vita che ci soffia tra i capelli.
Un peccato non poter dire di più, dato che si toglierebbe il gusto ai lettori delle molte sorprese che attendono tra le pagine di “Norwegian Blues”. Posso dire però questo: mai avrei pensato di attendere con piacevole certezza il momento in cui alla sera mi sarei potuto immergere nella lettura delle vicende di un discografico norvegese di mezza età alle prese con tre terribili ultraottuagenari fervidamente credenti. Un romanzo che vale la pena leggere. Davvero
Articolo del
02/11/2017 -
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