A quattro anni dalla scomparsi di Enzo Jannacci, esce per i tipi diVololibero questa interessante biografia del cantautore milanese a opera di Nando Mainardi, già autore di altri volumi sia sportivi (“Ossessione calcio. Storie di football e nostalgie”, Zona, 2014), sia musicali (“Enzo Jannacci. Il genio del contropiede”, Zona, 2012, e “La magnifica illusione. Giorgio Gaber e gli anni '70”, Vololibero, 2016).
La passione di Mainardi, si vede, è la Milano anni '60 dei primi cantautori impegnati, Jannacci e Gaber, dei trani (le tipiche mescite di vino milanesi, così chiamate perché impiantate da emigrati pugliesi alla fine dell'800), dell'intellighenzia di sinistra avversa al sistema, composta dai Fo e dai Bianciardi (veri intellettuali di una vera sinistra, checché se ne pensi), della “Milanin” ancora grande paese in cui vigono rapporti di vicinanza umana e solidarietà che scompaiono distrutte dall'avanzante “Milanon”, la grande città capitalista i cui cittadini sono uno estraneo all'altro.
È la Milano dei Gaber e dei Jannacci, appunto. In 288 pagine Mainardi ha il grande merito di infilare in ordine cronologico le varie esperienze di Jannacci, dalla canzone, alla medicina, dal teatro, al cinema, perfino alla letteratura, aiutando quindi il lettore a farsi un’idea delle interconnessioni tra di esse. In ciò sta anche la specificità del libro, diverso in questo da “Peccato l’argomento” di Sandro Paté, che nel 2014 ha raccolto le testimonianze di chi ha conosciuto e lavorato con Jannacci, dividendole per ambito.
Dividendo la narrazione per decenni, che rappresentano altrettanto scenari culturali differenti, MAinardi segue le evoluzioni di Jannacci. Le coordinate sono quelle di sempre: poeta degli esclusi e dei diversi, irriducibile al mainstream anche se in grado di cogliere grandi successi (“Vengo anch’io”, 1968; “Ci vuole orecchio”, 1980; “I soliti accordi”, 1994), sempre volutamente spiazzante. Ci sono diversi aneddoti curiosi: di quella volta che al Primo Maggio 2005 scelse una scaletta volutamente poco adatta a un Festival e molto alla Festa dei Lavoratori, facendosi fischiare dalla platea di giovani spettatori e svelando, volutamente o no, l’ipocrisia della manifestazione; l’avvicinamento a CL negli ultimi anni e la rivelazione di essere sempre stato credente, a dispetto di certa sinistra mangiapreti che lo aveva sempre osannato; le arcinote vicende del primo traumatico provino per la Rai (“appare insufficiente vocalmente per cui si ritiene che non sia idoneo a essere presentato come interprete di canzoni in un programma televisivo”) e del rifiuto di presentare al secondo turno di Canzonissima la vincente “Vengo anch’io” che lo aveva fatto stravincere al primo turno (gli avevano rifiutato “Ho visto un re” e lui allora si presentò con la melensa “Gli zingari”); o infine di quella volta che si addormentò sul palco recitando “Aspettando Godot”.
Mainardi offre una visione di Jannacci diversa da quella classica di Gianfranco Manfredi, suo ex discografico (chiamiamolo così per comodità) ai tempi dell’Ultima Spiaggia (era una cooperativa di artisti, non una etichetta privata), secondo la quale il “vero” Jannacci sarebbe quello folle e sopra le righe, quello “Schizo”, come da suo soprannome, mentre quello più lirico e commosso risulterebbe oleografico e insincero. “L’importante è esagerare” offre invece un inquadramento critico di Jannacci senza grandi fratture: il versante “schizo” e quello lirico sarebbero accomunati dall’esagerazione, in fin dei conti, ovvero dalla sottolineatura dell’umanità degli esclusi e dall’identificazione del cantautore milanese con essi.
Scritto con penna leggera, capace di imitare lo stile jannacciano negli apocrifi in corsivo che aprono ogni decennio, “L’importante è esagerare” è un libro misurato e attento, capace di offrire un buon inquadramento, mai superficiale della carriera di Jannacci. Unica pecca, la tendenza a narrare gli episodi della vita del cantautore ricorrendo quasi sempre alla formula “un giorno”, “una sera” e rimanendo così nell’indeterminatezza, quasi temendo di svilire il racconto biografico con dati precisi, forse nella convinzione che la nebbia dell’imprecisione accresca il fascino di una vita fuori dalle righe. Non è così ed è vizio troppo spesso presente nei biografi musicali italiani. Peccato, ma comunque il difetto non inficia il giudizio positivo sull’operazione di Mainardi. Poteva esagerare, ecco tutto.
Articolo del
25/11/2017 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|